Ha scritto Salvatore Cannavò in «Bonomi senza laurea, ma si firma
“dottore”. Anche il suo vice ha lo stesso vizio» pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di ieri, 22 di settembre 2023: Carlo Bonomi, (…), non è laureato, ma
esistono documenti in cui si qualifica "dottore".
A questo punto il
problema non è più solo la nomina a presidente dell'Università Luiss (di
proprietà di Confindustria) alla quale aspira, ma le possibili sanzioni verso
questo comportamento. Il codice penale all'articolo 498, prevede che "chi
si arroga dignità o gradi accademici, titoli, decorazioni o altre pubbliche
insegne onorifiche" incappa nella "sanzione amministrativa pecuniaria
da centocinquantaquattro euro a novecentoventinove euro". Fino al 1999 la
sanzione sarebbe stata penale, ma il reato è stato depenalizzato. Bonomi non ha
esitato ad apporre la sua firma, preceduta dal titolo "dott." in
calce a un "Accordo di collaborazione per la diffusione della normazione
tecnica presso le organizzazioni imprenditoriali" (…) siglato tra Confindustria
e Uni, Ente italiano di normazione, a Milano il 25 novembre 2021. La firma,
apposta in stampatello, è stata confermata digitalmente da Bonomi il 17
dicembre 2021. Al di là di contenziosi giudiziari, però, si potrebbe porre il
problema dentro la stessa Confindustria. La Carta dei valori, infatti,
favorisce "comportamenti improntati all'etica e trasparenza, fondati su
integrità, correttezza, lealtà, equità, imparzialità" etc. L'e-lezione a
cariche interne, poi, secondo il Codice di condotta, prevede la "piena
aderenza ai principi e agli impegni contenuti nel Codice etico" e si
prevede la remissione del mandato in caso di "azioni lesive per il sistema
e per la sua immagine". La questione sta infiammando Confindustria. La
Luiss compatta non vuole Bonomi il quale potrebbe addirittura nominarsi da solo
presidente di ALuiss, l'associazione che governa l'università per poi
automaticamente divenirne presidente. Per questo sta premendo sull'attuale
presidente, Vincenzo Boccia, affinché convochi il Consiglio di ALuiss, ottenendone
finora il secco rifiuto. Nei giorni scorsi è circolata l'ipotesi che al posto
di Bonomi fosse avanzata la candidatura di Alberto Marenghi, attuale
vicepresidente di Confindustria e braccio destro del presidente. Dai curriculum
vitae di Marenghi, però, risulta che anche lui possieda solo la maturità
classica conseguita nel 1996 presso il liceo B. Spagnoli di Mantova. Ma il 22
luglio 2021, a nome del General Management Office di Confindustria Servizi
firmava il documento di Sostenibilità interno. Con la qualifica di
"Dr.". A quanto pare è un vizio.
«“Gran Cav
Lup Mann” Bonomi, il ragioniere che vuol essere “Dott”», testo di Pino Corrias pubblicato su
“il Fatto Quotidiano” del 21 di settembre ultimo: Ma povero Carlo Bonomi, il
presidente degli industriali che fabbricano il Pil della Nazione, persino a
dispetto delle moleste interferenze sindacali, fiscali, politiche, climatiche,
costretto a chiedere, lui in persona, un appuntamento, se non proprio una
raccomandazione, alla sua amica Anna Maria Bernini, ministra dell’Università e
della Ricerca scientifica, per scovare una chiave alla serratura che più di
tutto, in questi tempi grami di invidiosi, lo imprigiona: essere un “ragioniere
non laureato”, oltre che “un imprenditore senza impresa”, come vanno cianciando
i suoi peggiori nemici. E dunque unfit to lead, inadatto a governare il
celebrato vivaio dei laureandi che si coltiva tra i cristalli della Università
Luiss di Roma.
E dopo la raccomandazione, costretto, ancora lui, a chiedere un
parere legale a due avvocati d’alto rango, Gennaro Terracciano e Francesco Di
Ciommo, se sia possibile smontare, abolire, o meglio ancora sciogliere
nell’acido il comma 9 della legge che impone una laurea a chi vuole (vorrebbe)
pascolare l’ambito gregge dei laureati. La storia è presto detta. Bonomi sta
per scendere dal cavallo a dondolo di Confindustria che cavalca dall’aprile del
2020. Ma per non restare a piedi vorrebbe quello dell’Università di proprietà
confindustriale, intitolata a Guido Carli, che garantisce una foresteria, un
ufficio in sede, una segretaria, un autista, un intero calendario di
coffee-break con biscotti e nutrienti relazioni. Multiplo giocattolo già scelto
da quasi tutti gli ex presidenti degli industriali italiani – Luca di
Montezemolo ed Emma Marcegaglia compresi, per dire – che a fine mandato hanno
smaltito la malinconia per il potere appena diventato sabbia nella clessidra,
indossando quell’ermellino di così alto prestigio. Perché loro sì e lui no? Il
comma dice che non può. Il cuore lo pretende. Come si fa? Deve avere provveduto
alla ricerca di una via d’uscita il suo personale ghostwriter, Oscar Giannino,
veterano dei non laureati, nonché specialista in economia, già celebrato per i
suoi vestiti da domatore di pulci, che a suo tempo imbrogliò sui master
conseguiti a Chicago e le lauree in patria. Confessò: “L’ho fatto per il mio
complesso di inferiorità”. Stessa musica sullo spartito più intimo di Bonomi,
che però mai ha suonato in pubblico la confessione, quando il Fatto Quotidiano
lo ha scoperto e scritto. Con così tanta risonanza che una mano amica ha fatto
il prodigio di cancellare dalle pergamene ufficializzate dalla Rete, l’ambito
titolo di “dottore”, circonfuso da un qualche timido accenno a una laurea in
Economia e Commercio e a una misteriosa “specializzazione a San Diego”. Niente,
c’è stato un errore, Houston. Ma non per questo ci si dovrà incanaglire sul suo
gramo destino. Quello di tornare alle nebbie di Crema, tra gli spinterogeni
dell’elettro-bio-medicale, che governava da azionista minore di un paio di piccole
imprese, la Synopo e la Sidam, 130 dipendenti, 26 milioni di fatturato, prima
di ascendere tra gli attici del potere romano, dove aziende di quel calibro
galleggiano comode tre le olive dell’aperitivo. Carlo Bonomi, anno 1966,
zazzeretta, occhiali, sorriso d’immobilità orizzontale, perviene al mondo
quando dalle profondità del suo sport preferito, le immersioni subacquee alle
Maldive, diventa presidente di Assolombarda, giugno 2017, estratto da Gian
Felice Rocca, Marco Tronchetti Provera, Alberto Bombassei, tutti giganti
d’azienda, i veri titolari del cappello confindustriale. Da subito Bonomi
impara e ripete l’essenziale. Ordina: “Rimbocchiamoci le maniche”. Annuncia:
“Abbiamo bisogno di una filiera-futuro”. Conferma: “Sono le imprese che creano
ricchezza”. Garantisce: “Non vogliamo lo Stato padrone”. Ma intanto chiede
soldi, sgravi fiscali, aiuti alle esportazioni, contributi agli investimenti,
agevolazioni su energia, rimborsi su tutto. Un Monopoli di soldi veri che
oscilla tra i 20 e i 30 miliardi di euro l’anno, e che purtroppo non sono mai
abbastanza. Tifa Inter, ma soprattutto la partita politica di Matteo Renzi,
compreso il Referendum costituzionale con autogol incorporato. Plaude a
Carletto Calenda e alla sua “Industria-quattro-punto-zero”. Detesta con tutti i
pori Giuseppe Conte e i suoi governi. “Stupiteci!”, gli ha gridato dal palco di
Milano, anno 2019, “ma non diteci che tasserete le merendine per ripianare i
buchi in Alitalia!”. Un bel coraggio dopo la voragine lasciata dai 20 Capitani coraggiosi,
tutti suoi compari confindustriali, scelti a buon rendere, da Silvio
Berlusconi. Nel cupo inverno del Covid, pretende i rimborsi della Cassa
integrazione per le imprese, ma si arrabbia se vengono dati “soldi a pioggia”
ai disoccupati e ai poveracci “nella logica del dividendo elettorale”. Quando
conquista la poltrona di Confindustria, 16 aprile 2020, siamo al Conte-2 e alla
“politica che fa più danni del Covid”. Di nuovo incassa volentieri i miliardi
dei ristori alle aziende. Di nuovo boccia il Reddito di cittadinanza e quello
di emergenza. Grida, all’assemblea annuale degli imprenditori: “Non vogliamo
diventare il Sussidistan!” e quando arrivano i 209 miliardi del Recovery,
ribadisce a Conte “non si si risolve niente dando una goccia a tutti”. La
caraffa è per le imprese, sia chiaro, non per i poveri. E pazienza se negli
ultimi vent’anni gli stipendi italiani siano cresciuti di un punto e mezzo,
contro il 24 per cento della Germania e il 14 della Francia. Mentre l’evasione
fiscale, calcolata intorno ai 100 miliardi l’anno, resta il doppio della media
europea. Guai a parlargli di salario minimo. E di scioperi che sono “lo stanco
rito di sempre”. Gli piace il Superbonus, specialmente quando lo proroga Mario
Draghi: “L’edilizia è il volano dell’economia, il motorino di avviamento
dell’automobile Italia”. Ne chiederà la proroga a gran voce. Salvo ferocemente
criticarlo oggi che il governo Meloni l’ha abolito. Ricama relazioni come
neanche le professioniste del tombolo. Colleziona cariche e pennacchi. È
presidente dell’Ente Fiera di Milano. Siede nel Board della Bocconi, nei
consigli degli istituti Ispi e Aspen che si occupano di politica
internazionale. Come tutti i narcisi, ogni tanto inciampa nella propria ombra,
come capitò lo scorso gennaio al Forum di Davos, quando si fece intervistare
dalla moglie, giornalista del Tg5. Ma senza confessarlo in pubblico, che è
sindrome di tutti i timidi, laureati e non.
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