Sopra. "Flipper" (Calabria. Villaggio Mancuso. 19/07/2017).
“Le capre ci guardano”. In California l’associazione degli allevatori di bestiame caprino della vallata di San Fernando ha celebrato una commemorazione delle capre di Bikini, sacrificate «per il bene dell’umanità». È stata ammainata una bandiera a mezz’asta con rulli di tamburi, sono stati intessuti elogi funebri delle bestie defunte. Qualcuno osserverà che non si son mai fatte commemorazioni dei bambini, delle donne, dei vecchi morti a Hiroshima, a Torino, a Milano, che ne sapevano quanto le capre di Bikini del perché morivano, e che pure sono stati sacrificati sull’altare delle necessità di guerra. Ma il senso di questa commemorazione caprina è da ricercarsi, io credo, in un segreto rimorso del genere umano verso gli animali, unito a un’ipocrisia caratteristica del genere umano. Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre, a Bikini? e i gatti nelle case bombardate? e i cani in zona di guerra? e i pesci allo scoppio dei siluri? Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più - stavo per dire - umana? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, se non una riparazione. Loro possono capire quando noi li uccidiamo per mangiarli, quando li mettiamo a tirare un carro, forse anche quando li torturiamo per divertirci nelle corride, o quando li vivisezioniamo per esperimento. Sono cose che succedono più o meno anche tra loro. Ma la guerra? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, dobbiamo chieder loro scusa se ogni tanto mettiamo a soqquadro questo mondo che è anche il loro, se li tiriamo in ballo in affari che non li riguardano. Ecco che allora entra in gioco l’ipocrisia umana. Facciamo degli animali morti o reduci non delle vittime ma degli eroi, tutti dediti alla nostra causa, caduti gridando evviva, li facciamo nostri complici, corresponsabili delle rovine che abbiamo causato: e commemoriamo le capre come morte per il bene dell’umanità, erigiamo monumenti ai muli, diamo onorificenze ai piccioni. E, nella nostra ipocrisia, di quello che sarebbe un motivo di rimorso facciamo un motivo di orgoglio: «Ecco, vedete - diciamo - anche le capre, anche i piccioni sono con noi!». Però, se ci pensate bene, questo succede anche tra uomini: quanti monumenti dedicati agli eroi di una o di un’altra guerra non sarebbero più giusti, più reverenti, più morali, insomma meno ipocriti, se fossero dedicati alle vittime dell’una o dell’altra guerra.
“Soggezione di un cane”. Ogni tanto mi capita di chiedermi come ci giudicheranno gli animali. Se tutte le cose strane che facciamo appariranno loro come fatti naturali, come scherzi d’una natura mostruosa e irrazionale, oppure come qualcosa di contrario al senso del mondo, come un’offesa all’ordine elementare delle cose, oppure infine se si saranno adattati tanto alla vita della nostra civiltà da non accorgersi di questo divario come non ce ne accorgiamo noi, e da continuare a vivere, come noi, cercando di trarne tutti i vantaggi possibili. Una volta avevo un cane che mi dava soggezione. Io mi facevo la barba e lui mi stava a guardare. «Non capisce - pensavo io. - Come fa un cane a capire un uomo che si fa la barba? Come faccio a spiegargli la necessità di farmi la barba? Perché mi faccio la barba?» Non riuscivo più a radermi e smettevo. Mi mettevo a tavolino a scrivere: il cane continuava a guardarmi. «Come posso spiegargli perché scrivo? - mi domandavo. - Scrivo per guadagnarmi il pane: questo potrebbe capirlo. Ma perché mi pagano quello che scrivo? Cosa se ne fanno? Scrivo qualcosa di utile?» Rileggevo e trovavo stupido tutto quello che avevo scritto; finivo per appallottolare il foglio e alzarmi. Venivano visite di riguardo: io le ricevevo con grandi complimenti, parlavo con rispetto. Il cane mi guardava. Certo si stupiva che portassi la camicia abbottonata, che non mi sedessi con le gambe sui braccioli della poltrona. Come fare a spiegargli che erano persone influenti, da rispettare? Ma io le rispettavo? Avevo stima di loro? Dovetti chiudere il cane in un’altra stanza per non mettermi a insolentire quei signori. Finii per disfarmi del cane, se no a quest’ora girerei nudo e barbuto per i boschi, nutrendomi di frutti selvatici.
“Il marxismo spiegato ai gatti”. Giorni fa discutevo con un compagno filosofo e cattolico. Il compagno pronunciava spesso la parola uomo e io mi accorgevo che intendeva Uomo con l’U maiuscola. «Senti - gli dissi io che ho molta paura delle maiuscole - tu dici uomo come diresti gatto, o pesce, o canguro?» Lui ci pensò un po’ su, poi rispose: «Sì, ma il gatto è gatto; l’uomo è uomo». Si finì per tirare in ballo la questione dell’uomo e della scimmia, del Sinanthropus, dell’evoluzione. Al compagno filosofo interessava dimostrare che c’è un momento nella catena dell’evoluzione in cui, a un tratto, dall’animale si passa all’uomo, anzi all’Uomo. Io invece propendo per una concezione dell’uomo come non staccato dal resto della natura, di animale più evoluto in mezzo agli altri animali, e mi sembra che una tale concezione non abbassi l’uomo, ma gli dia una responsabilità maggiore, lo impegni a una moralità meno arbitraria, impedisca tante storture. (Non che io creda a una natura buona e saggia alla Rousseau: so che la natura non è buona né cattiva, ma qualcosa d’impassibile e di ambiguo come la balena bianca di Melville). Io penso che studiando i problemi umani ci si dimentichi troppo che esistono degli animali per cui possono valere simili problemi. La psicoanalisi, per esempio. Esistono nella psiche degli animali gli stessi complessi che in quella umana? Solo se sapremo questo potremo capire quanto dei fattori psichici è ineliminabile condizione umana, e quanto è determinato dalla società, quindi soggetto a variazioni. Un incontro di Freud con Pavlov, insomma. Poi ci sono i problemi sociali degli animali. Già molto, da Fabre in poi, s’è scritto sugli animali sociali: api, formiche, castori. Sono ancora da studiare i rapporti che legano gli animali domestici alla società umana; il calcolo di convenienza dei gatti, le condizioni di sfruttamento degli equini, la fedeltà dei cani che trascende ogni determinismo economico. Giorni or sono, andato a trovare un compagno scrittore, notai come il suo cane e il suo gatto dormissero nella stessa cuccia. «Sai - mi disse la moglie del compagno - abbiamo dato loro un’educazione marxista. Non litigano più». E lì cominciammo a ragionare come la inimicizia tra cani e gatti potrebb’essere una leggenda reazionaria, per impedire l’unità e l’emancipazione degli animali domestici.
P. S. L’amico a quattro zampe è il nostro Flipper. L’umano, io che scribacchio. Flipper, al mio rientro a casa, ha consumato i “biscottini alla mela” che gli avevo amorevolmente lasciato nella sua ciotola. Ha voluto attendere il mio ritorno.
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