Ha scritto Veronica Gentili in «Chi “esternalizza” le
frontiere si guardi il film di Garrone”» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi,
mercoledì 20 di settembre 2023: (…). Giorgia Meloni ha portato con sé la
presidente della commissione europea Ursula von der Leyen a Lampedusa per
ribadire insieme come l'unico approccio possibile al fenomeno migratorio sia
quello di uno sforzo europeo per bloccare le partenze, finanziando i Paesi del
Nord Africa da cui i migranti si mettono in viaggio. "Esternalizzazione
delle frontiere": è questa l'espressione tecnica ormai frequentemente
utilizzata, tra le ironie di chi dice che serva a non far capire di cosa si
parla. Detto più semplicemente: per spostare il problema un po' più in là dei
nostri confini, paghiamo (o quantomeno vorremmo pagare) la Libia e la Tunisia perché
se la vedano loro. Questo serve a non litigare con gli altri Paesi europei sul
vecchio adagio della redistribuzione, un po' per uno non fa male a nessuno,
evitando di creare frizioni e casi diplomatici, e al contempo a non vedere
fiumi di disperati che si riversano nelle nostre coste e con i quali non sappiamo
bene cosa fare. Il ragionamento, in astratto, fila. Basta non vedere cosa significhi
esternalizzare le frontiere, basta non rendersi conto di cosa concretamente si
stia facendo a tutti coloro che hanno tentato di mettersi in viaggio, basta non
immaginare le ragioni nascoste dietro ogni partenza. È qui che il film (“Io
capitano” n.d.r.) di Matteo Garrone potrebbe irrompere a rovinare i piani di chi
vorrebbe la botte piena, anzi vuota, di migranti africani sulle coste italiane,
e la coscienza ubriaca e leggera. "Mi sembrava che mancasse un racconto in
forma visiva del viaggio, soprattutto della parte del viaggio che si svolge
dall'altra parte del mare. Volevo fare un controcampo, ribaltare la
prospettiva, guardare a cosa succede prima, ha detto Garrone. Cosa succede
prima, quel prima che a noi fa comodo rimuovere, quel viaggio nell’inferno di
sabbia che conduce a un eterno presente di torture e disperazione, affinché il
problema non sia più nostro, affinché gli occhi non vedano, eccetera. Quel
racconto effettivamente mancava, e per questo forse era più semplice continuare
a chiedere aiuto al presidente-dittatore Al Saied, così ci pensa lui e tutto è
bene quel che finisce bene. Io capitano è la storia del viaggio di Seydou e
Moussa, due sedicenni che partono dal Senegal per inseguire il sogno
dell'Europa, di una vita migliore, di diventare musicisti di successo. Qualcuno
li chiamerebbe migranti economici, ma in realtà non lo sono. Dovessimo dirlo
per quello che è, sono solo due adolescenti sognatori: in un talk show il tema
della puntata (…) sarebbe "Esiste il diritto di sognare?”. La brutalità e
l'orrore a cui i due ragazzi sono sottoposti probabilmente è già la risposta:
non sognare, ragazzo, non sognare, perché la vita ti spezzerà le ossa e, se mai
dovessi arrivare vivo, avrai perso l'incanto e la fiducia nel futuro. L'incanto
lo avrai lasciato nel Sahara mentre ti copri gli occhi per non vedere i
cadaveri accanto a te tra le dune di sabbia che attraversi nel tentativo di raggiungere
la Libia; e la fiducia l'avrai smarrita proprio lì, in Libia, se sarai riuscito
ad arrivarci, in uno di quei centri di detenzione dove, se non sei disposto a
chiamare casa per farti mandare dei soldi con cui corrompere i tuoi carcerieri,
ti bruceranno la carne con il metallo ardente e verrai appeso a testa in giù
per ore nell'attesa che tu parli. Noi esternalizziamo eh, possiamo farlo,
nessuno ce lo impedisce, magari funziona pure. Ma oggi, più di sempre, dobbiamo
chiederci a che prezzo.
“Praticare
l’ospitalità”, testo di Enzo Bianchi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 18 di settembre ultimo: (…). Platone, nell’ultima e incompiuta sua
opera Leggi, scriveva: “Consideriamo i nostri doveri verso l’ospite straniero.
Dobbiamo dire che sono gli impegni più santi. Lo straniero infatti, isolato
com’è dai suoi compagni e dai suoi parenti, è per gli uomini e per gli dei
oggetto di un più grande amore. Perciò quante precauzioni dobbiamo prendere, se
appena abbiamo un po’ di prudenza, per arrivare al termine della nostra vita
senza aver commesso nessuna colpa verso gli stranieri!”. Per Platone il vero
altro non è colui che scegliamo di invitare in casa nostra bensì colui che
emerge, non scelto, davanti a noi: è colui che giunge a noi portato
semplicemente dall’accadere degli eventi e dalla trama intessuta dal nostro
vivere. L’altro è colui che sta davanti a noi come una presenza che chiede di
essere accolta nella sua irriducibile diversità; poco importa se appartiene a
un’altra etnia, a un’altra fede, a un’altra cultura: è un essere umano, e
questo deve bastare affinché noi lo accogliamo. In altre parole, perché dare ospitalità? Perché si è uomini, per divenire
uomini, per umanizzare la propria umanità. O si entra nella consapevolezza
che ciascuno di noi, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell’umano,
o l’ospitalità rischierà di restare tra i doveri da adempiere: sarà magari tra
i gesti significativi a livello etico, ma si situerà su un piano
fondamentalmente estrinseco e non diverrà un rispondere alla vocazione profonda
dell’uomo, un realizzare la propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro. Il
considerarsi ospiti dell’umano che è in noi, ospiti e non padroni, può invece
aiutarci ad avere cura dell’umano che è in noi e negli altri, a uscire dalla perversa
indifferenza e dal rifiuto della compassione che, sola, può condurci a
comprometterci con l’altro nel suo bisogno. Il povero, il senza tetto, il
girovago, lo straniero, il barbone, colui la cui umanità è umiliata dal peso
delle privazioni, dei rifiuti e dell’abbandono, del disinteresse e
dell’estraneità, incomincia ad essere accolto quando io incomincio a sentire
come mia la sua umiliazione e la sua vergogna, quando comprendo che la
mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione. Allora, senza
inutili e vigliacchi sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può
iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutto ciò che è nelle
mie possibilità per l’altro. In effetti, il modo di concepire e vivere
l’ospitalità è rivelativo del grado di civiltà di un popolo. Ospitare è uscire
dalla logica dell’inimicizia, è fare del potenziale nemico un ospite. Dovremmo
imparare a pensare il grado di civiltà in riferimento al livello dell’umanità e
del rispetto dell’umanità dell’uomo, non in termini di tecnologia e di
sviluppo. Praticare così l’ospitalità, allora, porterà con sé un dono inatteso:
quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all’altro nella
nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale ma
allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non
lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro cuore fino a consentirgli di
abbracciare il mondo intero.
"Amare significa scavare uno spazio dentro di sé per accogliere l'altro".(Silvio Muccino). "L'ospitalità non dovrebbe avere altra natura che l'amore".(Henrietta Mears). "La parola"ospitalità" deriva da due parole greche,la prima parola significa"amore " e la seconda"forestiero ". Ospitalità significa dunque amore per i forestieri ".(Nancy Leigh Demass). "Una caratteristica dell' amore praticato da Gesù era la sua capacità di accoglienza verso tutti ".(Enzo Bianchi). "È civilizzato,sempre e ovunque, chi sa riconoscere pienamente l'umanità degli altri".(Tzvetan Todorov). In una società come la nostra,dominata dall'egoismo e dall' indifferenza verso gli altri, bisognerebbe impegnarsi a coltivare e far progredire l'empatia e la compassione, che sono alla base dell' umanizzazione reale e concreta della nostra "umanità", senza la quale non si potrà mai parlare di vera accoglienza ed ospitalità. Grazie per questo post,per me preziosissimo, e buona continuazione.
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