“(…). …l’Italia è davvero la terra dei
morti. (…). Dove trovare un popolo più vecchio, più usato, più corrotto, meno
ingenuo? Le rivoluzioni, di cui non si può contare il numero, le tirannie, le
occupazioni straniere, le servitù hanno pesato su questo bello e infelice paese
e hanno lasciato nel sangue stesso della nazione i vizi più svariati con una
dolorosa esperienza e in realtà un gran senso politico. Quando si parla della giovine
Italia, questa espressione fa ridere. Chi c’è di meno giovane, di meno ingenuo,
di meno entusiasta dell’italiano? Prima di tutto è sottile, scettico, astuto e
interessato. Molto più intelligente di noi, sa calcolare, aspettare, lusingare
e dissimulare, cosa a cui noi non arriveremo mai. Rifate le divisioni del
paese, trasformatelo in uno solo Stato, sconvolgete governi e frontiere,
dategli tutte le costituzioni che vorrete, non cambierete mai la razza e il
temperamento del popolo. Per quanto facciate, non lo renderete mai giovane.
Conserverà coi suoi difetti tutte le sue preziose qualità”. (Dal diario
del conte Henry d’Ideville alla data del 26 di aprile dell’anno1865).
Da “il Fatto Quotidiano”
del 23 di gennaio dell’anno 2015 “Vita
dei Giuliani Amati/3” di Marco Travaglio: Il governo Craxi, nato nel 1983,
tramonta nel 1987. In quel lustro Giuliano Amato è sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio e consigliere economico-giuridico del premier. E i
risultati non si fanno attendere. Nel 1983 il debito pubblico è di 234.181 milioni
di euro. Nell’84 è già salito a 284.825, nell’85 a 346.005, nell’86 a 401.498 e
nell’87 a 460.418. Raddoppiato nel giro di cinque anni. Siccome il talento va
premiato, il Dottor Sottile viene promosso ministro del Tesoro nei governi
Goria (di cui è pure vicepremier) e De Mita, dal 1987 all’89. E in quel biennio
il debito pubblico galoppa a 522.731 nel 1988 e a 589.995 nel 1989. Un trionfo.
Sotto la regìa del Dottor Sottile, De Mita è costretto alla più sanguinosa
stangata mai vista in Italia fino ad allora: roba da 49 mila miliardi, per
colmare il buco che lo stesso Amato ha contribuito a scavare fino al giorno
prima. Nel 1989, con l’ascesa di Andreotti a Palazzo Chigi, Craxi richiama il
suo Tigellino in via del Corso: vicesegretario vicario (un po’ più
vicesegretario dell’altro, Giulio Di Donato) e grande architetto della “Grande
Riforma” costituzionale. Lui, nel maggio 1989, dalla tribuna del 45° congresso
di Milano, quello sormontato dalla piramide del geometra Panseca fra “nani e
ballerine” (copyright Formica), rilancia il suo vecchio pallino della
Repubblica presidenziale, con il capo dello Stato eletto dal popolo. Un trono
su misura per Bettino. Eterna fedeltà. Il potere di Amato nella pochette di
Craxi è enorme e, inevitabilmente, suscita invidie e rancori fra i “compagni”.
Qualcuno tenta di seminare zizzania fra i due, insinuando che l’agile Topolino
amoreggi in segreto con Scalfari e il gruppo Espresso-Repubblica-DeBenedetti,
che sta per incrociare le armi con il filocraxiano Berlusconi nella guerra di
Segrate per il controllo della Mondadori. Il 27 luglio 1989 Amato prende carta
e penna e, su carta intestata della Camera, scrive una lettera a Bettino per
mettersi al suo servizio, giurargli eterna fedeltà e smentire le voci sul suo
presunto flirt con Scalfari e quella che Craxi chiama “la nota lobby”. Ma anche
per fargli sapere, allusivo come sempre, che il ruolo di vicesegretario gli va
stretto e pensa a “cosa fare da grande”. “Caro Presidente, ti sono molto grato
per la tua offerta rinnovata di collaborazione. Sarà al centro della
riflessione su cosa dovrò fare da grande. Vorrei intanto pregarti di riflettere
tu su una cosa, di cui mi giungono voci (imprecise, ma inevitabilmente tali
quando ci sono dubbi e sospetti non affrontati apertamente e lasciati alla
perfidia dei corridoi; è stato comunque De Michelis a parlarmene). Cancella
l’idea che io sia legato al giro di ‘Repubblica’. È infondato. Solo con i loro
giornalisti economici, come con quelli degli altri, ho avuto rapporti da
ministro del Tesoro. Per il resto, ti ho sempre detto tutto: sai che sono amico
di Vittorio Meana ([Vittorio Ripa di Meana, storico avvocato civilista del
gruppo Espresso e consigliere di Carlo De Benedetti, dal caso Mondadori in giù,
ndr] che, grazie anche alla mia amicizia, è passato al voto socialista); sai
che ho incrociato Scalfari a qualche rara cena, quasi sempre e cioè due o tre
volte a casa di Elisa Olivetti. Non c’è altro. E chiunque capisce che Scalfari,
dopo avermi bistrattato quando ero al Tesoro, ha ora usato disinvoltamente la
mia uscita per criticare te. Pensa che anche Rodotà mi si è ridimostrato
improvvisamente amico. Se le cose non fossero così, non avrei rinunciato a 48
milioni l’anno e una rubrica che mi piaceva su ‘L’Espresso’ dopo l’affare Malindi
[lo scoop di ‘Repubblica’ su Claudio Martelli fermato a Ma-lindi con qualche
spinello in tasca, ndr]. Non ho altro da dire su un problema inesistente. Ti
auguro solo di avere dagli altri la lealtà assoluta che hai sempre avuto da me
e che continuerai ad avere, insieme a una sicura amicizia, qualunque cosa io
abbia a fare da grande. Tuo Giuliano”. Il silenzio è d’oro. Nel 1990 c’è di
nuovo puzza di mazzette, e tanto per cambiare sono targate Psi. Questa volta a
Viareggio, sull’appalto per la costruzione della nuova Pretura: una stecca di
270 milioni di lire in cerca d’autore, cioè di destinatario. L’unica certezza è
che la mazzetta transita per le mani dei socialisti locali per poi approdare,
almeno in parte, nelle casse romane del Psi. I compagni viareggini pensano bene
di scaricare la colpa sul morto: il senatore ed ex sottosegretario Paolo
Barsacchi, scomparso quattro anni prima, che non c’entra nulla, ma non può
smentirli. Purtroppo per loro, è sopravvissuta la vedova, Anna Maria Gemignani,
che non ci sta e fa sapere che non accetterà che il caro estinto faccia da
capro espiatorio dei compagni vivi. Insomma minaccia di raccontare come sono
andate veramente le cose, con nomi e cognomi. Il 21 settembre riceve una
chiamata: è Amato. Che, non trovandola in casa, le lascia un messaggio sulla
segreteria telefonica. Lei lo richiama poco dopo e, intuendo il motivo della
telefonata, aziona il registratore. Infatti, per 11 minuti e 49 secondi, il
vicesegretario del Psi la esorta all’aurea virtù del silenzio, con la sua
inconfondibile vocetta melliflua. Amato: “Anna Maria, scusami, ma stavo
curandomi la discopatia, ma vedo che questa situazione qui si è arroventata”. Gemignani:
“Ti ascolto”. A: “La mia impressione è che qui rischiamo di andare incontro a
una frittata generale per avventatezze, per linee difensive che lasciano aperti
un sacco di problemi dal tuo punto di vista… Troverei giusto che tu
direttamente o indirettamente entrassi in quel maledetto processo e dicessi che
quello che dicono di tuo marito non è vero. Punto. Non è vero. Ma senza andare
a fare un’operazione che va a fare quello non è lui, ma è Caio, quello non è
lui ma è Sempronio. Hai capito che intendo dire? Tu dici che tuo marito in
questa storia non c’entra. Questo è legittimo. Ma a… a… a… a Viareggio hanno
creato questo clima vergognoso, è una reciproca caccia alle streghe, io
troverei molto bello che tu da questa storia ti tirassi fuori”. G: “Giuliano,
io voglio soltanto che chi sa la verità la dica”. A: “Ma vattelapesca chi la sa
e qual è. Tu hai capito chi ha fatto qualcosa?”. G: “Io penso che tu l’abbia
capito anche te”. A: “Ma per qualcuno forse dei locali sì, ma io non lo so, non
lo so. Ma vedi, noi ci muoviamo su cose diverse. Questo non è un processo
contro Paolo, ma contro altri…”. Quel “per qualcuno dei locali forse sì” fa
pensare che qualcosa, se non tutto, Amato lo sappia. Ma quando viene chiamato a
testimoniare dai giudici, che hanno ricevuto dalla vedova Barsacchi il nastro
con la registrazione, giura di non sapere nulla di nulla. Alla fine comunque la
manovra col morto (“Pretura d’oro, colpa dei morti”, titola La Nazione)
fallisce, grazie anche alla tenacia di Annamaria, che ignora gli amorevoli
consigli di Amato. Il 13 dicembre 1990 i veri colpevoli della tangente vengono
condannati, e sono tutti vivi: Barsacchi viene scagionato e la sua memoria
riabilitata. Quando il Fatto pubblicherà la telefonata, con tanto di audio,
Amato scriverà a Repubblica per minimizzare: “Non avevo affatto invitato la
signora a non fare i nomi di coloro che le risultavano colpevoli”, ma solo “a
non fare i nomi di persone su cui non aveva alcun indizio di colpevolezza, pur
di salvaguardare la memoria di suo marito. Il tribunale ne prese atto e finì
lì”. Mica tanto. Nella sentenza, i giudici del Tribunale di Pisa, Alberto
Bargagna, Carmelo Solarino e Alberto De Palma, parlano anche di Amato: la sua
telefonata alla vedova mirava a scongiurare “una frittata, intendendo per tale
un capitombolo complessivo del Partito socialista”. E si domandano come mai
“nessuno di questi eminenti uomini politici come Giuliano Vassalli (all’epoca
ministro socialista della Giustizia, ndr) e Amato stesso si siano sentiti in
dovere di verificare tra i documenti della segreteria del partito per quali
strade da Viareggio arrivarono a Roma finanziamenti ricollegabili alla tangente
della Pretura di Viareggio”. Non vedo, non sento, e comunque non parlo. Il
Corazzier Sottile. Nel 1990 il presidente Francesco Cossiga, sentendosi
attaccato dal premier Andreotti, dalla sua Dc guidata da De Mita, dal Pds di
Occhetto e Violante e dal gruppo Repubblica-Espresso, comincia a esternare a
tutto spiano, “picconando” i suoi nemici veri o presunti. Craxi gli piazza alle
costole Giuliano Amato, che diventa uno dei consigliori più ascoltati del
Quirinale. Il risultato è che il Psi è l’unico partito, insieme al Msi di
Gianfranco Fini che pure lo difende, a essere risparmiato dalla furia
cossighiana. Il Pds prepara la richiesta di impeachment, spalleggiato da
Eugenio Scalfari, che chiede per il presidente addirittura la perizia
psichiatrica. Il 1° maggio 1991 Amato spara a zero: “Il capo dello Stato è
oggetto di un’autentica campagna che, a ondate successive, persegue l’esplicito
scopo di destabilizzare le istituzioni”. L’indomani il presidente dei senatori
Dc, Nicola Mancino, risponde a muso duro sull’Unità: “Amato farebbe bene a fare
nomi e cognomi dei complottatori. Per quanto ci riguarda l’idea di una nostra
compartecipazione al complotto è semplicemente ridicola”. Il 3 maggio, sempre
sull’Unità, è Giorgio Napolitano a strapazzare il Dottor Sottile: “C’è da
chiedersi a chi possa giovare il sempre più ostentato schierarsi del Psi come
‘partito del presidente’, contro tutti i supposti protagonisti e complici di un
presunto complotto contro il capo dello Stato… Cossiga è purtroppo attivamente
coinvolto in una spirale di quotidiane polemiche, di difese e di attacchi di
carattere personale e politico, fino alla sconcertante e francamente
inquietante distribuzione di etichette e di voti a giornali… Perché Amato non
confuta nel merito le tesi di chiunque tra noi, come sarebbe legittimo, anziché
emettere indistinte denunce, riferendosi a una campagna contro il capo dello
Stato che sarebbe stata promossa non si sa bene da chi e per quali calcoli, e
di cui sarebbe partecipe il Pds? Non ci si risponda con la facile formula del partito
trasversale”. Amato, nella sua replica, non evoca il partito trasversale, ma –
con ventuno anni di anticipo – l’asse Napolitano-Mancino: “Ho parlato di
campagna, non di complotto. Spiace dover constatare che prima Mancino, poi
Napolitano ritengano che si tratti della stessa cosa”. Vent’anni dopo, con
Napolitano al Colle, Amato e Scalfari diventeranno i più fedeli corazzieri del
Quirinale. Amato verrà nominato giudice costituzionale e sia Re Giorgio sia
Scalfari lo candideranno come successore al trono. Come passa, il tempo.
(3-continua).
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