Sopra. 11 di settembre dell'anno 1973. Salvador Allende.
“L’ultima cena con mio zio Salvador”, intervista di Anna Lombardi a Isabel Allende pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 9 di settembre 2023: «Il tempo lenisce le ferite e gli ultimi trent'anni di democrazia hanno fatto del Cile un Paese più sano. Ma il dolore di chi ha vissuto l'esperienza terribile della dittatura non ha cura né si rimarginerà mai. Lo ripeto spesso, solo quando l'ultima persona che ha sperimentato quell'orrore sarà morta potremo dire di aver superato il trauma di tanta violenza. Ma pure allora nessuno avrà il diritto di dimenticare. Nei decenni successivi a quel triste periodo sono nate almeno tre generazioni di cileni. Molti di loro non vogliono sapere, convinti che non li riguardi. Questo mi irrita: quel passato, così recente, è anche il loro. La democrazia non va mai data per scontata. Tutti abbiamo il dovere di vigilare e l’unico modo per restare allerta è conoscere la Storia». (…). Non ho mai smesso di avere incubi. E ho vissuto troppo per non saperlo: ciò che è accaduto una volta può accadere ancora». (…).
11 Settembre 1973... «Avevo 31 anni, facevo la giornalista, ero sposata e avevo due figli piccoli. Salvador Allende era cugino di mio padre, ma l'ho sempre chiamato zio. Dopo la separazione dei miei, aveva aiutato mamma a stabilirsi in Cile dal Perù dove vivevamo. Lo vidi l'ultima volta un mese prima del golpe a una cena di famiglia Discutemmo della crisi economica e sociale nel Paese, c'erano voci di sconvolgimenti, ma solo lui ci credeva davvero: "Non lascerò la presidenza finché il mio mandato non sarà finito o io sarò morto", presagì. Riteneva vera la minaccia, convinto che ci fosse dietro la Cia americana. Ma aveva promosso Pinochet a capo delle forze armate solo tre settimane prima, si fidava di lui. Quell'll settembre stavo andando al lavoro quando vidi gli aerei bombardare il palazzo presidenziale. Ricordo lo sgomento di vedere l'aeronautica colpire il simbolo della nostra democrazia. In quel momento cambiò tutto».
Quello stesso giorno il presidente si suicidò. Parte della famiglia Allende fuggì. Lei rimase... «In quei giorni chiamarsi Allende non era buona cosa, ma pensavo che il golpe non sarebbe durato. Degli orrori, le torture, le uccisioni nelle carceri trapelava poco. Ricordo la tensione al funerale di Pablo Neruda, pochi giorni dopo. Divenne anche il funerale del presidente Allende e della democrazia cilena. Avevamo paura, tenevamo un profilo basso. Poi, nel 1975, alcuni eventi, compresa la scoperta che un presunto amico era membro della polizia segreta, mi convinsero a fuggire in Venezuela. Il passaporto era in ordine, presi un volo di linea. Un mese dopo mi raggiunse mio marito coi bambini, Restammo 13 anni a Caracas».
Cinquant'anni dopo come guarda all'evento che sconvolse il suo Paese, la sua famiglia, la sua vita? «Fu terribile e totalmente inaspettato. Mise fine a una lunga tradizione democratica e schiacciò il Cile per 17 anni. Ma 50 anni dopo preferisco guardare a come il Paese è cambiato dopo, quando i cileni si sono riappropriati della loro identità democratica. Siamo stati miracolosamente capaci di liberarci dalla dittatura senza violenza, contrariamente a quanto successo altrove. La brutalità è rimasta appannaggio della dittatura. Gli ultimi 30 anni di democrazia hanno fatto del Cile un Paese prospero e più stabile rispetto al resto dell'America Latina. Ma la polarizzazione aumenta anche da noi e oggi c'è più insicurezza e una nuova forma di odio sociale. Per questo è essenziale ricordare il passato e trasformare la commemorazione in un momento di ritrovata unità partendo dal terreno comune nel nostro essere tutti convinti che la dittatura è stata un male e le atrocità commesse non devono ripetersi più».
"Il vento conosce il mio nome", suo ultimo romanzo, racconta proprio lo spaesamento di chi è costretto a lasciare il suo Paese. Quanto c'è di personale? «Sono nata in Perù, dove mio padre abbandonò mia madre: finimmo a vivere in Cile con mio nonno. Mamma sposò un diplomatico, ci spostavamo continuamente. Quando col mio matrimonio avevo finalmente trovato stabilità in Cile, ci fu il colpo di stato e divenni una rifugiata politica in Venezuela. Infine emigrai negli Stati Uniti. So bene cosa significa essere stranieri. Certo, sono stata fortunata ma so quanto è dura per tanti. In quest'ultimo romanzo c'è molto di personale: per me la scrittura è sempre stata una sorta di cura, come quando morì mia figlia Paula a 29 anni e le dedicai un intero libro. Ricevetti molte lettere, capii di non essere la sola ad affrontare quella terribile esperienza. Ma in questo caso specifico mi sono ispirata ad una stona vera».
Prego... «Nel 1996 ho creato una Fondazione appunto in onore di mia figlia che durante la sua breve vita lavorò come volontaria in Venezuela e poi in Spagna. Aiutiamo donne e ragazze e negli ultimi anni ci siamo concentrati molto sulle rifugiate. Proprio attraverso la Fondazione sono venuta a conoscenza della storia che ha ispirato il personaggio chiave del romanzo, Anita, la piccola rifugiata cieca divisa dalla mamma al confine per colpa delle politiche imposte da Donald Trump. Purtroppo è successo davvero. Nel 2018 una bimba cieca di 7 anni e il fratellino di 4 sono stati davvero separati dalla madre ritrovandosi soli in un centro. Una vera ordalia: possiamo solo immaginare il terrore provato da questa bimba non vedente fra estranei e in un ambiente alieno dove si parlava una lingua a lei sconosciuta e in più col fratellino piccolo attaccato alla sua gonna. Come nel romanzo, un avvocato e una assistente sociale si sono occupati di lei e dopo 8 mesi sono riusciti a rintracciare la mamma. Ma la storia vera non ha lieto fine: la famiglia comparve davanti a un giudice e questi ne ordinò la deportazione. Da allora, ne abbiamo perso le tracce».
Nel libro paragona le separazioni familiari al confine col Messico con una grande tragedia storica: il Kindertransport dei bimbi ebrei dall'Europa nazista alla Gran Bretagna... «Ovunque c'è fame, povertà, guerra, a pagare sono innanzi tutto i bambini. È accaduto in passato, continua ad accadere ovunque nel mondo e se fai le connessioni, capisci quanto le separazioni familiari siano diffuse. Quando ho cominciato a lavorare intorno alla figura di Anita mi sono chiesta quante altre volte era accaduto: il parallelo col Kindertransport, che portò il Gran Bretagna bambini ebrei soli perché il governo si offrì di aiutare solo i piccoli ma non i loro genitori per non turbare gli equilibri lavorativi interni, mi è venuto subito in mente. Loro sopravvissero, molte delle loro famiglie no. Restarono traumatizzati tutta la vita, proprio come accadrà ai piccini separati al confine. E distacchi così sono accaduti altre volte nella Storia: penso ai figli degli schiavi, ma pure ai piccoli afghani messi nelle braccia dei soldati americani dopo il ritorno dei talebani a Kabul».
Se non fosse stata costretta a lasciare il suo Paese avrebbe intrapreso ugualmente la carriera di scrittrice? «Se fossi rimasta in Cile oggi sarei una giornalista in pensione. Amavo quel lavoro, non avrei mai voluto fare altro. Sono diventata scrittrice solo perché impossibilitata a proseguire il mestiere di giornalista. Sono state le circostanze della mia vita a rendermi la persona che sono. I miei valori, però, non sono mai mutati: sono gli stessi di quando ero giovane. Mi preoccupo dei poveri, degli animali, dell'ambiente. Sono ossessionata dalla ricerca di giustizia per tutti. E sono femminista, provo verso il patriarcato la stessa rabbia di sempre».
Le divisioni al confine col Messico sono state messe in atto per scoraggiare gli ingressi negli Stati Uniti... «Quando fuggi dalla violenza e dalla fame non hai scelta: chi bussa alla porta dell'America, così come a quella dell'Europa, lo fa perché non ha alternative. Purtroppo solo quando incontri le persone comprendi che il problema non è astratto. I migranti sono individui con storie terribili alle spalle. Nel mondo ci sono milioni di rifugiati e in buona parte si tratta di donne e bambini ma fino a quando non li guardi in faccia per molti restano numeri».
Col romanzo ha dunque voluto dare volti a quel dramma? «Il mio libro non è un lavoro giornalistico, sappiamo da tempo quanto è successo e continua a succedere al confine. Sì, continua anche se ora le separazioni - avvengono di notte, non più alla luce del sole. Abbiamo sentito i pianti registrati dai giornalisti, visto le immagini dei piccini rinchiusi in vere gabbie. Non offro dunque nuove informazioni, ma provo a far immedesimare il lettore nella vita, nelle scelte, nella sorte di quelle persone. In determinate circostanze quel rifugiato posso essere io, tu, chiunque legga il libro. Il potere straordinario dell'arte ci mette nei panni degli altri. Anita e Samuel riassumono in sé la storia di tanti bambini. Allo stesso tempo, ho voluto raccontare la storia dei tanti che ovunque del mondo si danno da fare per aiutare i disperati. Sono i veri eroi del nostro tempo».
Nel libro pronuncia un atto d'accusa molto duro verso gli Stati Uniti: «Gli americani hanno causato gran parte del disastro dei paesi latino-americani. Per eliminare i movimenti di sinistra, hanno armato, indottrinato, addestrato militari e finanziato la repressione». «È ciò che è successo, spiego semplicemente la situazione. L'America che oggi odia i migranti e si chiede perché entrano illegalmente è in buona parte responsabile dei governi falliti, dei militari corrotti, della violenza e delle gang. Sono state rovesciate democrazie e imposte dittature brutali, sì proprio come in Cile, per difendere gli interessi commerciali degli Stati Uniti».
Questo è forse il meno "magico" dei suoi romanzi: estremamente dettagliato e realistico. Fa eccezione il titolo: cosa lo ispira? «A ciascun bambino "illegale" viene assegnato un numero alla frontiera. D'altronde alcuni non parlano perché troppo piccoli, portati via dalle madri addirittura mentre erano ancora attaccati al seno. Altri sono troppo traumatizzati per dire chi sono e da dove vengono. Per la burocrazia è dunque più facile I trasformarli in numeri. I loro nomi finiscono per perdersi: e questo contribuisce a renderli fantasmi, cifre. La situazione è davvero spaventosa. Poi li portano davanti al giudice che gli chiede, in inglese, lingua a loro spesso sconosciuta: "Accetti la deportazione volontaria?". Quelli non sanno nemmeno di cosa si parla, vengono indotti a dire di sì e ce li si leva di tomo. Anita, la mia protagonista, non vuole essere un numero. E dunque, in maniera "magica", si rivolge al fantasma della sorellina dicendole: "Il vento conosce il mio nome". Non lo ha perso. Qualcuno da qualche parte, sa chi è. E la cerca».
Parte del romanzo si svolge in piena pandemia. Cosa ci ha insegnato quell'esperienza? «Su tutto, l'importanza di avere una comunità. Personalmente, mi ha dato tempo di riflettere su cosa conta davvero. Arrivando alla conclusione che alla mia età non ho più tempo ed energia per fare tutto. Da allora ho imparato a dire più no e a concentrarmi su ciò che conta davvero, come il lavoro della mia Fondazione. So di non fare abbastanza ma non mi posso fermare: peccherei di indifferenza. Non possiamo risolvere i problemi di tutti, ma ogni piccolo passo può salvare una vita e per me quello è il premio».
Dimentichiamo troppo facilmente le lezioni della Storia? «Nel corso dei miei 81 anni ho visto il mondo migliorare, non peggiorare. Sono nata durante la Seconda Guerra Mondiale, nell'epoca dell'Olocausto e della bomba atomica, quando solo in Europa 50 milioni di persone furono costrette a cercar rifugio lontano dalle loro case. Ancora, sono nata prima della Dichiarazione dei diritti umani e delle Nazioni Unite, prima del femminismo, della pillola contraccettiva, del divorzio. Ho letteralmente visto il mondo evolversi. E oggi viviamo nell'era di un'incredibile rivoluzione tecnologica. Ma, come sempre di fronte a grandi rivoluzioni, bisogna adattarsi a quei cambiamenti che invece fanno sentire tanti insicuri; spingendoli a guardare con nostalgia un passato, affatto migliore ma che sembra tale perché magari era l'era della propria giovinezza o perché lo si idealizza. Questo sta portando le destre nuovamente in auge in nome di valori spesso superati dall'evolversi della società. Sotto le circostanze sbagliate queste vincono anche: ma - lo dico per esperienza più che per ottimismo - pure quando la Storia si ripete, la tendenza al progresso e alla visionarietà non si ferma. Può essere rallentata per un certo periodo, non domata. Per questo dobbiamo sempre guardare al futuro con ottimismo».
E se Donald Trump, fautore delle politiche di divisioni familiari al confine, dovesse vincere di nuovo? «Sarebbe terribile per gli Stati Uniti e per il mondo. Già la sua prima presidenza è stata terribile. Se dovesse rivincere, tornerebbe alla Casa Bianca con uno spirito di vendetta e violenza, in più consapevole, a quel punto, che tutto gli è permesso e perdonato. Il rischio è reale e su questo non sono affatto ottimista. La possibilità mi terrorizza, bisogna democraticamente impedirlo».
Nessun commento:
Posta un commento