Hanno scritto Norberto Bobbio e Maurizio Viroli in “Dialogo intorno alla Repubblica” che “l’intransigenza
non appartiene al carattere degli italiani. Gli intransigenti sono rari,
un’élite. (…). Gli intransigenti sono quelle persone che sono disposte a
sacrificare il proprio particolare per l’idea in cui credono. Da questo punto
di vista Gobetti è stato un bell’esempio. Lo Stato italiano non lo è. (…). Intransigenza
vuol dire anche non perdonare, non dimenticare con troppa leggerezza. La
mancanza di intransigenza crea bambini viziati, non liberi cittadini. (…). …abbiamo
dimenticato il vero significato di carità. (…). …l’intransigenza è
perfettamente coerente con la carità (…). La vera carità è una forza interiore
che ti spinge a punire (e a premiare) secondo giustizia per il bene pubblico:
né vendetta, né favore. (…). Noi dovremmo educare (…) all’idea che essere
cittadino richiede anche una forza interiore che ti spinge ad esigere che la
repubblica sia intransigente”. Di seguito, “Non è solo per errori soggettivi se la sinistra non ritrova la strada”
di Aldo Garzia del 10 di agosto dell’anno 2020, letto – su cortese segnalazione
dell’amica carissima Agnese A. – sul sito https://www.strisciarossa.it/non-e-solo-per-errori-soggettivi-se-la-sinistra-non-ritrova-la-strada/:
Siamo
tornati al punto di partenza. Cioè ai tormenti di Piero Gobetti e Antonio
Gramsci all’inizio del secolo scorso. E, ancora prima, a quelli di Giacomo
Leopardi del 1824 in Discorso sopra lo Stato presente dei costumi degl’italiani
(Feltrinelli, 1991). Se non si compie infatti un’analisi chirurgica sul “caso
italiano”, paragonabile a quella contenuta in La rivoluzione liberale (Gobetti)
e nei Quaderni del carcere (Gramsci), la bussola della sinistra resterà a lungo
senza riferimenti per andare a nord o a sud. (…). Torniamo indietro, dunque.
L’analisi di Leopardi è lucida, impietosa, come si addice a chi ripone fiducia
nel secolo dei Lumi e riflette su cosa genera il vincolo sociale. Per lui, in
Italia non ci sono élites e non c’è una tradizione da “società stretta” che
produce virtù e comportamenti socialmente accettati, oltre che coesi. Quindi,
in Italia c’è poca “società”: il che finisce per produrre inevitabilmente
“cattiva società”. Il suo Discorso è scritto in piena Restaurazione seguita
alla Rivoluzione francese e prima dell’avvento dell’unità risorgimentale
italiana (sarà pubblicato per la prima volta nel 1906). Il tema che il poeta di
Recanati sceglie per la sua riflessione è quello dell’arretratezza italiana:
individualismo, potere nelle mani di possidenti culturalmente miopi, scarsa
circolazione delle idee che dominano nel resto d’Europa. Leopardi è il primo a
indicare il principale virus italiano: il mancato sviluppo di una struttura
economica da capitalismo nascente. Sull’autore della Ginestra, Gramsci dà nelle
sue Lettere dal carcere un giudizio preciso: “Nel Leopardi si trova in forma
estremamente drammatica la crisi di transizione verso l’uomo moderno”. E a
lungo la sinistra italiana si interrogherà – a iniziare da un saggio filosofico
di Cesare Luporini del 1947 – sulla lezione anche politica di Leopardi. Sul
piano del metodo, dopo quella di Leopardi, viene ancora buona la lezione di Piero
Gobetti che ha iniziato a leggere i mutamenti italiani della sua epoca – il
fascismo nascente e poi al potere – come una vera e propria “autobiografia di
una nazione”, insegnamenti poi raccolti da Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti
nella loro originale lettura del fascismo italiano (“regime reazionario di
massa” e non solo svolta autoritaria ispirata dalle malefatte del
capitalismo-imperialismo). Scrive Gobetti a proposito del Risorgimento: “Il
problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l’assenza di una vita
libera fu attraverso i secoli l’ostacolo fondamentale per la creazione di una
classe dirigente, per il formarsi di un’attività economica moderna e di una
classe tecnica progredita”. Il Risorgimento “senza eroi”, con il suo esito
monarchico, era stato calato dall’alto. La sfida, all’inizio degli anni Venti
del secolo scorso, era per il giovane torinese quella di riempire di valori
condivisi le istituzioni liberali create dallo Stato unitario. La democrazia
dei partiti di massa. Gobetti vide perciò nella nascita dei futuri partiti di
massa italiani – Partito popolare, Partito socialista e Partito comunista – la
possibilità di fondare per la prima volta una democrazia di massa. Nel 1924,
scrive un libro fondamentale, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta
politica in Italia, articolato in quattro capitoli: l’eredità del Risorgimento,
la lotta politica in Italia, la critica liberale, il fascismo (questa
suddivisione ispira successivamente i Quaderni del carcere di Gramsci, dove
trovano posto tra l’altro la questione meridionale, la questione vaticana,
l’analisi del ruolo degli intellettuali e una analisi originale del pensiero
politico di Machiavelli). Per Gobetti, la lotta politica non può che essere
lotta sociale ispirata da una idea laica dello Stato e delle istituzioni. Sulle
modalità di elezione del Parlamento, Gobetti è un convinto assertore del
proporzionale. Il collegio uninominale – scrive – aveva “corrotto il
rappresentante in tribuno”. Sulle tasse, ha una opinione precisa: “Il contribuente
italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando,
una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta. Una rivoluzione
di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice
ragione che non esistono contribuenti”. Era perciò necessaria, nella sua
analisi, una rivoluzione industriale e di forme capitalistiche di produzione
che però in Italia ci sarebbe stata solo in parte. Gobetti e Gramsci. Gobetti
si occupava pure di scuola, altro male italiano incurabile: bisognava, secondo
lui, superare l’analfabetismo dominante nella sua epoca. “Sono un esercito di
oltre due milioni di persone. Hanno soprattutto un’età compresa tra i 46 e 65
anni, vivono prevalentemente al sud. E non sanno leggere né scrivere. O meglio
non sono in grado, in base ai parametri dell’Ocse, di interpretare o compilare
documenti elementari. La loro definizione ufficiale è analfabeti funzionali”,
scrive ancora nel 2000 il Centro europeo dell’educazione a proposito
dell’Italia. Per Gobetti, infine, su Benito Mussolini e sul fascismo si
convoglia il tacito consenso della popolazione italiana per ottenere lo
sradicamento di ogni lotta politica dallo Stato-nazione italiano ancora in
formazione. Per questo, invoca un neo-liberalismo dal momento che il fascismo
lo interpreta come il risultato di chi non ha saputo governare l’Italia nei
primi quarant’anni di unità nazionale. Fascismo, dunque, come “autobiografia
della nazione”, cioè come patologia trasformatasi in fisiologia della società
italiana. Il Risorgimento progressista di Carlo Cattaneo è sconfitto,
aggiungerà, e la società italiana – “statica e stagnante” – ha perso il suo
appuntamento storico con la rivoluzione liberale e con quella capitalistica.
Gobetti individua come unico varco lasciato aperto alla speranza della ragione
quello dell’irrompere delle masse proletarie nello spazio pubblico della
società italiana. Il secondo dopoguerra, con la “Repubblica dei partiti” e la
Costituzione democratica, ha dato ragione a Gobetti. L’Italia uscita dalla
guerra e dal fascismo ha trovato finalmente un assetto democratico, dove i
partiti di massa svolgevano la funzione storica dell’alfabetizzazione politica
diffusa. Per la prima volta nella storia italiana, grandi masse partecipavano
al circuito della democrazia. Certo, si trattava di una democrazia dimezzata
dalla conventio ad excludendum (l’impossibilità per il Pci di accedere al
governo centrale) e dal contesto internazionale del bipolarismo e delle “sfere
d’influenza” che guardavano a Washington e Mosca ma per il caso italiano era in
quel passaggio d’epoca che prendeva forma il “partito nuovo” voluto da
Togliatti che avrebbe segnato con tutte le sue peculiarità (e i suoi limiti) la
storia della sinistra di questo nostro Paese. Le radici del Pci. Il Pci non era
un partito di “quadri” che attendeva in modo messianico la rottura
rivoluzionaria, ma un soggetto politico che affondando radici nella società del
lavoro e nella storia italiana si poneva l’obiettivo di migliorare le
condizioni di vita delle masse usando tutti gli strumenti della democrazia
rappresentativa. C’era così nei fatti una società istituzionale – quella a
guida democristiana – e c’era una sorta di contro-società che faceva
riferimento al Pci e alle sue organizzazioni di massa (sindacato,
associazionismo, cooperative, movimenti) in grado di esercitare una egemonia
sui ceti medi e intellettuali almeno fino al 1968, quando quel circolo virtuoso
subisce una prima frattura e pone ai comunisti il tema del proprio rinnovamento
che il partito finisce per eludere e rinviare. Tutto questo avveniva mentre
restava aperto il dibattito sulla specificità del capitalismo italiano che ha
costituito una delle spine nell’orientamento del Pci. Ancora nel 1962 – nel
famoso convegno dell’Istituto Gramsci su “Tendenze del capitalismo italiano” –
il gruppo dirigente comunista si divideva tra una lettura sull’arretratezza
dell’organizzazione economica italiana (e della sua borghesia) e il suo
eventuale passaggio in fieri verso una società capitalisticamente matura. In
realtà, in Italia – per le specifiche condizioni della ricostruzione economica
– non esisteva una forma capitalistica in cui il mercato convivesse con un
regime di libera concorrenza nel settore dei servizi e dove l’economia privata
fosse predominante rispetto all’intervento pubblico e statale. Lo stesso
neocapitalismo italiano avrebbe avuto tratti assai specifici negli anni del
boom economico. Lo avremmo riscoperto negli anni recenti delle privatizzazioni
e delle direttive europee sui servizi e i consumi (se non si fosse trattato
dell’Italia, il testardo impegno dell’ex ministro Pierluigi Bersani su questo
terreno sarebbe apparso anacronistico in qualsiasi altro paese europeo).
L’economia italiana – tra Tangentopoli, inserimento nell’euro e primi segnali
della globalizzazione – sarebbe implosa non meno del sistema politico nel corso
degli anni Novanta. L’intuizione di Pasolini. È stato Pier Paolo Pasolini –
come prima Leopardi, Gobetti e Gramsci – ad affondare nuovamente il bisturi con
la sua descrizione peculiare della società italiana di inizio anni Settanta
(Scritti corsari). L’analisi pasoliniana più politica è racchiusa tuttavia in
quella poesia invettiva politica dal titolo Cos’è questo golpe? Io so (Corriere
della Sera, 14 novembre 1974). L’Italia è per lui quella delle stragi impunite,
di un sistema politico impunito e di una modernità che diventando omologante
può semplicemente dissolvere le peculiarità sociali precedenti. Non c’è modo
migliore di quello di Pasolini per ricordare cosa è stata l’Italia per una
lunga fase del dopoguerra. “Un Paese nel Paese” è la più fertile e poetica
definizione di cosa abbia rappresentato – nel bene e nel male – il Pci nella
storia nazionale. Se è inutile avere soverchie nostalgie per quella lunga e irripetibile
stagione, bisogna però sottolineare come la scomparsa di quel “Paese nel Paese”
(con tutte le sue ombre che sono già chiare allo stesso Pasolini) come grumo di
passioni democratiche abbia contribuito prima al declino e poi alla definitiva
eclissi del “caso italiano” come anomalia positiva rispetto ad altri paesi
europei. Fino alla fine degli anni Settanta eravamo invece un positivo “caso
italiano” da guardare con ammirazione e perfino stupore: il paese più
politicizzato e sindacalizzato di Europa, che si concedeva il lusso del più
forte e radicato partito comunista di Occidente, dove anche il ‘68 aveva avuto
una durata e una qualità senza riscontri neanche nella Francia del “maggio”.
L’intuizione politica di Bettino Craxi – su cui ha costruito le sue effimere
fortune – è stata quella di scoprire negli anni Ottanta che quel “caso” finiva
per essere al tempo stesso un valore e un limite della situazione italiana: il
Pci non poteva governare al centro del sistema politico, pur facendolo in
periferia (Comuni e Regioni). Ecco spiegata la “centralità” socialista come
rendita di posizione in un sistema istituzionale bloccato che non sapeva
rispondere alle nuove richieste di modernizzazione e innovazione che venivano
dalla realtà sociale del paese (la Dc, inoltre, non poteva governare da sola o
alleandosi con la destra di estrazione fascista). La stagione di tangentopoli.
Nel 1992 – sotto i colpi di Tangentopoli – cadeva anche la rendita di posizione
politica che aveva la specifica forma di governo e di potere nel craxismo (quel
Caf che teneva uniti Craxi-Andreotti-Forlani). L’Italia veniva inoltre colpita
– proprio nel corso di Tangentopoli – nelle sue debolezze strutturali dai
processi di violenta globalizzazione, fino al punto che oggi tutta la nostra industria
pubblica è in ginocchio insieme al settore dei servizi (Alitalia, ferrovie,
trasporti, scuola, università, sanità, eccetera). Ed è caduta anche la
discriminante democratica nei confronti degli eredi del Movimento sociale. Alla
“balena bianca” democristiana si è poi sostituito un populismo che ha di colpo
cancellato la storia e il radicamento dei partiti di massa. Perfino il ‘68 e
gli anni successivi delle conquiste operaie e dei referendum su divorzio e
aborto possono essere riletti sui tempi lunghi della storia nazionale come
significative parentesi di modernizzazione piuttosto che come fasi di
trasformazioni strutturali. In questo caso, si può usare con cognizione di
causa la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”. Il paese della sinistra
così originale di Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Pietro
Ingrao, Giorgio Amendola, Bruno Trentin ma anche del gruppo del Manifesto, di
Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Vittorio Foa, Riccardo Lombardi, Renato Panzieri
ha finito – nella sua formazione maggioritaria, il Pd – per diventare negli
ultimi dieci anni la parodia del Partito democratico degli Stati Uniti.
L’Italia e l’Europa però sono altra cosa. Per ripartire, bisogna dunque avere
almeno il senso tragico di cosa è accaduto e accade sotto i nostri occhi. Un
esempio della nostra attuale afasia è che non esistono le parole giuste per
descrivere a chi non ha vissuto o vive in Italia cosa è diventata l’Italia. È
un ottimo esercizio provare a farlo a qualche amico straniero o a noi stessi.
Lo sforzo lessicale di raccontare in modo comprensibile questo nostro Paese è
già un obiettivo politico. O forse “civile”, come avrebbe potuto scrivere
Pasolini. Comunque necessario, come ci hanno insegnato Leopardi, Gobetti e
Gramsci.
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