“Storia&Uomini”. 1 “Le sceme del villaggio”: (…). Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere Umberto Eco. Della sua sterminata produzione culturale cito solo due capolavori, nei rispettivi campi sui quali, con la sua beautiful mind, ha illuminato le nostre. Gli Scritti sulla televisione sono la vera summa teologica di quel malefico schermo che ci ha cambiato e continua a cambiarci la vita: da grande semiologo, la conosceva come nessun altro, ci insegnava a usarla e ripeteva «non spegnete la tv, ma accendete la libertà». Il nome della Rosa è "il romanzo" per definizione, nel quale l'intellettuale ha riversato tutta la sua infinita erudizione, mescolando il plot narrativo e il mistery gotico, la semiotica e l'analisi biblica, gli studi medievali e i saggi letterari. È noto che Umberto fosse un formidabile battutista: aveva una passione smodata e quasi insensata per il bon mot, il calembour, i giri di parole, le barzellette. A pranzo con lui per due volte, non sono riuscito ad ascoltare altro che i suoi continui divertissement lessicali. È meno noto che Umberto fosse anche un veggente politico. Nel gennaio 2015 lo invito a Ballarò, il talk show di Raitre, a parlare del suo ultimo romanzo, Numero zero (Bornpìani). Dopo aver ragionato a lungo dei fatti di attualità di quel tempo, verso la fine della nostra conversazione gli chiedo chi, secondo lui, sarebbe stato eletto di lì a poco presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano si è appena dimesso, e per la sua successione impazza il solito toto-nomi: Rodotà e Finocchiaro, Grasso e Casini, Veltroni e Cartabia. Eco ci pensa un attimo e poi dice, a sorpresa: "Mattarella". Stupore in studio: un nome mai uscito in nessun corridoio dei palazzi che contano. E invece, di lì a poco, la profezia si autoavvera. Non so dove né come Umberto abbia pescato quel suo strano candidato. Quando glielo chiedo pochi mesi dopo, mi risponde ridendo: "Non lo so neanche io!". Sta di fatto che Eco vedeva lontano, anche quella volta. Muore pochi mesi dopo, ma prima di andarsene ci lascia un'altra delle sue sentenze memorabili, per la quale parlo di lui qui, adesso. È il giugno 2015, e all'ennesima laurea honoris causa, stavolta a Torino, lui sale in cattedra e declama: "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli, che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel". E poi, poco più avanti aggiunge: "La tv aveva promosso lo scemo del villaggio, rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità...". In questi giorni mi capita di leggere i deliri della famosa "chat femminista", di tre sedicenti attiviste-scrittrici che vomitano insulti su Mattarella, Liliana Segre, Michela Murgia e un'altra dozzina di "nemici" colpevoli solo di avere successo. E quella vecchia lezione di Eco mi rimbomba nella mente, più lucida e più amara di sempre. Nel villaggio non ci bastavano gli scemi: adesso abbiamo pure le sceme.
“Storia&Uomini”. 2 “Il tutto fatto di niente”: Convinto che Roma lo avrebbe accolto con affetto, Federico Fellini aspettò l'autobus cullato dall'ebbrezza della prima volta. Il traffico e i rumori non avevano niente a che vedere con quelli di Rimini, ma nell'arbitraria lotteria delle impressioni iniziali, il colore del cielo e i monumenti gli diedero comunque l'illusione di aver acquistato il biglietto vincente. Avrebbe dovuto raggiungere una pensioncina dalle parti dell'Esquilino e senza sapere come si ritrovò dall'altra parte della città. Aveva tempo da perdere, non si preoccupò. Scortato dai sogni stipati in valigia guardò ancora una volta verso l'alto e vide due ragazzini sorridere e ritrarsi all'improvviso per evaporare all'ombra di un cornicione, poi sentì qualcosa di umido e si rese conto che l'innocenza non esiste. I due gli avevano sputato in testa perché Roma, come sa uno degli ultimi veri testimoni viventi delle relative evoluzioni locali, è anche questo: insensatezza e trivio. Ancora poche ore e Carlo Verdone compirà 75 anni. Con Fellini armava lunghe conversazioni telefoniche al limitare dell'alba. Federico dormiva poco e si infilava spesso in una volante della Polizia per vedere la notte da un altro punto di vista. Tornava con i primi chiarori, faceva scorta di cibarie nel solito bar e poi una volta rincasato chiamava Verdone. Carlo accoglieva vecchie storie romanzate come questa e infilandosi con maestria nelle pause della facondia domandava al grande romagnolo dei suoi film cercando di carpirne segreti e contesto. L'altro, smarrito, spesso non sapeva rispondere e restituiva l'impressione di non essere più padrone delle sue creazioni e di non capire più - o non voler capire, che è un po' la stessa cosa - il mondo che aveva di fronte. Una debolezza a cui Verdone non ha mai dato la destra. Sociologo senza cattedra, medico senza camice, psicoanalista senza lettino, Verdone è tante cose senza mai esserne soltanto una. È rimasto in contatto con ciò che lo circondava senza erigere una gabbia o un campo minato attorno alla nostalgia. Le cose cambiavano e Carlo, con pazienza, le raccontava. Gli elementi si combinavano e Carlo l'alchimista non ne traeva mai una pozione utile al moralismo. Attore e autore, scrittore e regista, pedinatore, come gli piace che si dica, dei nostri vizi, delle nostre miserie, del nostro carattere più profondo. Esegeta del linguaggio e fotografo di nuvole perché nel movimento irrituale e imprevedibile sosta ciò che ci tiene vigili e scongiura il rischio di parlarsi addosso. Verdone non lo ha mai fatto. Al suo posto, sullo schermo e sul palco di un teatro, hanno parlato i suoi personaggi. Eravamo noi? Era lui? Il dubbio resta ed è il manifesto dell'efficacia del processo. Verdone ha attraversato i decenni con la grazia curiosa di chi più che insegnare desiderava imparare. Lo ha fatto senza negarci uno specchio in cui potersi riflettere perché forse, lo scopo ultimo, era guardarsi dentro. Il Verdone emigrante che scende dalla Germania a Matera per compiere il suo dovere di elettore disegna un breviario dei vizi nazionali che per attualità non teme confronti. Il Verdone che osserva i propri compagni di scuola e scorge nella caduta delle illusioni un indizio di pastorale italiana somiglia a un apologo letterario. Il Verdone che mette in scena sé stesso e si scopre così reale da aver paura della sua stessa immagine spaventa chi pensa di averlo capito senza aver capito nulla. Il Verdone caustico, quello sentimentale, l'uno, Verdone e centomila. A questo signore educato e gentile, destinato a essere di tutti del tutto inadatto a preservare un angolo di requie dobbiamo molto. Vorremmo abbracciarlo, ma ci tratterremo. Come fece lui con Gian Maria Volonté quando lo inseguì, era il '71, per esprimergli ammirazione. Volonté lo ringraziò. Non si strinsero neanche la mano, ma sorrisero entrambi. Un tempo il tutto era fatto di niente.
N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma, rispettivamente, di Massimo Giannini e di Malcom Pagani e sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre 2025.

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