Ha scritto Michele Serra in “Le squadre senza maglia” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 13 di luglio 2022: (…). …ci si rende conto che è impossibile,
dal nome, anche solo intuire un’identità politica dichiarata, un orientamento
ideale. Come negozi la cui insegna preferisce non specificare quale merce è in
vendita. La parola “partito” non compare mai, deve essere considerata, per un
partito, imbarazzante, come se un panettiere si vergognasse di dire: faccio
pane. Il prototipo fu Forza Italia, un nome che non significa nulla (a meno di
supporre che qualcuno voglia fondare Abbasso Italia). Del resto l’intenzione
era di sostituire alla politica il marketing, come si confaceva a un partito-azienda,
e così è stato fatto a partire dal nome. I successivi sono solo tentativi di
imitazione, non a caso ricalcati sul modello originario berlusconiano, “un
leader un partito”, nessun bisogno di ulteriori specificazioni, spesso nemmeno
di quegli impicci della politica che sono i congressi, le discussioni, le
elezioni interne. Preferivo prima, e non perché sono nostalgico, lo giuro.
Preferivo prima perché socialista, comunista, democristiano, liberale,
monarchico, repubblicano lo capivano anche i bambini e gli analfabeti. Dunque
era più democratico. Qui siamo ai fumi, alla parola vuota, alle identità
simulate. Se la gente non va più a votare, è anche perché non è concepibile il
tifo per squadre non solo senza storia, ma anche senza maglia. Di seguito,
“Il galleggiante Tabacci che
circumnaviga tutti i poli del Potere” di Pino Corrias, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” di ieri, mercoledì 13 di luglio 2022: (…). Da mezzo secolo, Bruno
orbita con massima eleganza intorno al buco nero del Grande Centro e alle sue
ricorrenti implosioni. Il che gli consente, nello spazio curvo della politica
quantistica – calcolata in quanti voti – di transitare da un punto all’altro di
ogni schieramento, senza mai generare attrito, senza produrre troppe
interferenze o rimpianti. Ma neppure inimicizie, considerando che dopo gli
improperi riservati a Giulio Tremonti, il “golpista di via XX Settembre”, finì
per candidarlo a Palazzo Chigi nel 2010: ci aveva ripensato. Oggi naviga al
seguito di Mario Draghi, in qualità di sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio. Governa in proprio la scialuppa del Centro Democratico, offerta a
Emma Bonino per le elezioni del 2018. E l’altroieri a Luigi Di Maio che ci ha
infilato i suoi 61 secessionisti, a cui Draghi personalmente rimbocca ogni sera
le lenzuola. Nato al mondo nel 1946, Bruno Tabacci lo fa astutamente il 27
agosto, giorno di stipendio, in quel di Quistello, Mantova, paesello che si
vanta di essere “adagiato sul 45esimo parallelo, equidistante dal Polo Nord e
dall’Equatore”, come recita la prosa lisergica della pro loco. E Bruno lo
nacque talmente che già a 18 anni si adagiò sull’ampio materasso della
Democrazia cristiana, che galleggia equidistante dai meridiani dei social
comunisti e da quelli della peggiore Chiesa integralista. Il suo maestro fu
Giovanni Marcora, ex partigiano, che lo nominò pupillo – anzi “ragazzo
spazzola”, secondo Giovanni Goria – festeggiando con lui la laurea in Economia
e Commercio, all’Università di Parma, poi il matrimonio e i due figli. Marcora,
leader della sinistra democristiana, lo infila nella nomenclatura politica che
conta. E Bruno, per riconoscenza, si fa sponsorizzare da Ciriaco De Mita,
leader della corrente Magna Grecia (Montanelli: “In quella definizione c’è una
parola di troppo: Grecia”) per scalare la presidenza della Regione Lombardia,
anno 1987. Più o meno quando Bossi Umberto diceva alla moglie che si stava
laureando in Elettro-Medicina, mentre andava nei bar di Magnago a inventarsi la
Padania e il dio Po. Da allora, naviga speditamente in tutti i porti
disponibili, locali e nazionali, la Camera, il Senato, le Fondazioni, i
Comitati. Usando sigle sempre più strampalate, ma utili al viaggio, dal
Biancofiore di Clemente Mastella alla Udc dell’indimenticabile Rocco Buttiglione,
dalla Rosa Bianca con Sabino Pezzotta, all’Alleanza per l’Italia di Francesco
Rutelli. Qualche volta con Berlusconi in un “casto connubio” – “ho visitato con
lui il Mausoleo di Arcore” – più spesso contro. Qualche volta con Prodi. Un po’
con Francesco Cossiga e un po’ no. Ma sempre circumnavigando con l’inchino
l’isola di tutti i poteri del Nord, la finanzia cattolica, le grandi imprese e
le rispettive banche, a cominciare da Intesa San Paolo di Giovanni Bazoli.
Tenendosi alla larga dalla galassia di Comunione e fatturazione, e dallo stile
di vita in conto spese di Roberto Formigoni, suo successore in Regione
Lombardia, devoto alla santità delle aragoste altrui. Aduso alle tecnicalità
politiche dei dané, ha coltivato multiple amicizie nel ramo, da quella con
Vincenzo Maranghi, l’erede di Cuccia in Mediobanca, a Giuseppe Guzzetti, il
filantropo della Fondazione Cariplo, fino ai raider della Cir di Carlo De
Benedetti, ma senza farsi mancare le strette di mano con Salvatore Ligresti e
Marcellino Gavio. Sua personale apoteosi crocerista il biennio 2012-2013 nel
quale si candida alle primarie del Partito democratico, si fa eleggere al
Senato con il Centro democratico, poi tenta di conquistare il seggio a
Bruxelles con Scelta europea. Il tutto senza mai usare sostanze dopanti. Biennio
inaugurato con un vero colpo di teatro, assessore al Bilancio della giunta
rosso-arancione Pisapia, anno 2011, che a Milano era appena nata sbaragliando
la coalizione birignao di Letizia Moratti. “Sarò assessore a titolo personale”,
dichiarò ai cronisti segugi che erano riusciti a scovarlo in quella avventurosa
caccia al tesoro. Personale in che senso? “Che Giuliano Pisapia è un amico”. Ma
è soprattutto il figlio del suo avvocato principe, Giandomenico, che nella
tempesta di Mani Pulite, lo riportò a riva, assolto per certi finanziamenti
Parmalat alla Democrazia cristiana, storie dell’altro secolo, passati senza
strascichi: “Tra me e Di Pietro è finita due a zero per me”. Poi palla al
centro e infine amiconi. Un anno e mezzo fa difendeva Giuseppe Conte e il suo
secondo governo. Oggi massimamente deplora il leader dei Cinque stelle che si
ostina a interferire con l’attuale Era dell’Acquario, peccato solo per quel po’
di guerra in corso, la siccità, la pandemia, l’inflazione, il collasso
ambientale, le diseguaglianze nel mondo. Fabbricato con materiali di antica
sartoria democristiana, Tabacci non fa mai pieghe. Favorevole al divorzio, per
naturale laicismo, si incapricciò un giorno del 2006 di una tale Angiola
Armellini titolare di 1243 appartamenti in Italia, ma sconosciuta al fisco. Si
scoprì che la signora era beatamente monegasca (“i miei figli vanno a scuola a
Montecarlo”) lui la difese e così pure la giustizia italiana. Interrogato,
rispose: “Sapevo che era ricca e allora? Mica ero il suo commercialista”. Quindici
anni dopo, cioè l’agosto scorso, stesso aplomb quando capita la faccenda del
figlio Simone che meritatamente, tra mille candidati, viene assunto da
Leonardo, ramo aereo-spazio, proprio mentre babbo Bruno governa Leonardo
tramite Palazzo Chigi e dunque anche i 2,3 miliardi destinati dal Pnrr al ramo
aerospazio. Scandalo, scandaletto, rimedio perfetto: Draghi sfila la delega
aereospazio a babbo Bruno per affidarla a Cingolani, ministro della Transizione
ecologica. Qualcuno protesta: “Cosa cambia?”. Per Tabacci proprio nulla.
Saluta, sorride: ogni ripartenza fa curriculum.
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