"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 14 luglio 2022

Notiziedalbelpaese. 64 Serra: «Siamo ai fumi, alla parola vuota, alle identità simulate».

 

Ha scritto Michele Serra in “Le squadre senza maglia” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di luglio 2022: (…). …ci si rende conto che è impossibile, dal nome, anche solo intuire un’identità politica dichiarata, un orientamento ideale. Come negozi la cui insegna preferisce non specificare quale merce è in vendita. La parola “partito” non compare mai, deve essere considerata, per un partito, imbarazzante, come se un panettiere si vergognasse di dire: faccio pane. Il prototipo fu Forza Italia, un nome che non significa nulla (a meno di supporre che qualcuno voglia fondare Abbasso Italia). Del resto l’intenzione era di sostituire alla politica il marketing, come si confaceva a un partito-azienda, e così è stato fatto a partire dal nome. I successivi sono solo tentativi di imitazione, non a caso ricalcati sul modello originario berlusconiano, “un leader un partito”, nessun bisogno di ulteriori specificazioni, spesso nemmeno di quegli impicci della politica che sono i congressi, le discussioni, le elezioni interne. Preferivo prima, e non perché sono nostalgico, lo giuro. Preferivo prima perché socialista, comunista, democristiano, liberale, monarchico, repubblicano lo capivano anche i bambini e gli analfabeti. Dunque era più democratico. Qui siamo ai fumi, alla parola vuota, alle identità simulate. Se la gente non va più a votare, è anche perché non è concepibile il tifo per squadre non solo senza storia, ma anche senza maglia. Di seguito, “Il galleggiante Tabacci che circumnaviga tutti i poli del Potere” di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, mercoledì 13 di luglio 2022: (…). Da mezzo secolo, Bruno orbita con massima eleganza intorno al buco nero del Grande Centro e alle sue ricorrenti implosioni. Il che gli consente, nello spazio curvo della politica quantistica – calcolata in quanti voti – di transitare da un punto all’altro di ogni schieramento, senza mai generare attrito, senza produrre troppe interferenze o rimpianti. Ma neppure inimicizie, considerando che dopo gli improperi riservati a Giulio Tremonti, il “golpista di via XX Settembre”, finì per candidarlo a Palazzo Chigi nel 2010: ci aveva ripensato. Oggi naviga al seguito di Mario Draghi, in qualità di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Governa in proprio la scialuppa del Centro Democratico, offerta a Emma Bonino per le elezioni del 2018. E l’altroieri a Luigi Di Maio che ci ha infilato i suoi 61 secessionisti, a cui Draghi personalmente rimbocca ogni sera le lenzuola. Nato al mondo nel 1946, Bruno Tabacci lo fa astutamente il 27 agosto, giorno di stipendio, in quel di Quistello, Mantova, paesello che si vanta di essere “adagiato sul 45esimo parallelo, equidistante dal Polo Nord e dall’Equatore”, come recita la prosa lisergica della pro loco. E Bruno lo nacque talmente che già a 18 anni si adagiò sull’ampio materasso della Democrazia cristiana, che galleggia equidistante dai meridiani dei social comunisti e da quelli della peggiore Chiesa integralista. Il suo maestro fu Giovanni Marcora, ex partigiano, che lo nominò pupillo – anzi “ragazzo spazzola”, secondo Giovanni Goria – festeggiando con lui la laurea in Economia e Commercio, all’Università di Parma, poi il matrimonio e i due figli. Marcora, leader della sinistra democristiana, lo infila nella nomenclatura politica che conta. E Bruno, per riconoscenza, si fa sponsorizzare da Ciriaco De Mita, leader della corrente Magna Grecia (Montanelli: “In quella definizione c’è una parola di troppo: Grecia”) per scalare la presidenza della Regione Lombardia, anno 1987. Più o meno quando Bossi Umberto diceva alla moglie che si stava laureando in Elettro-Medicina, mentre andava nei bar di Magnago a inventarsi la Padania e il dio Po. Da allora, naviga speditamente in tutti i porti disponibili, locali e nazionali, la Camera, il Senato, le Fondazioni, i Comitati. Usando sigle sempre più strampalate, ma utili al viaggio, dal Biancofiore di Clemente Mastella alla Udc dell’indimenticabile Rocco Buttiglione, dalla Rosa Bianca con Sabino Pezzotta, all’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli. Qualche volta con Berlusconi in un “casto connubio” – “ho visitato con lui il Mausoleo di Arcore” – più spesso contro. Qualche volta con Prodi. Un po’ con Francesco Cossiga e un po’ no. Ma sempre circumnavigando con l’inchino l’isola di tutti i poteri del Nord, la finanzia cattolica, le grandi imprese e le rispettive banche, a cominciare da Intesa San Paolo di Giovanni Bazoli. Tenendosi alla larga dalla galassia di Comunione e fatturazione, e dallo stile di vita in conto spese di Roberto Formigoni, suo successore in Regione Lombardia, devoto alla santità delle aragoste altrui. Aduso alle tecnicalità politiche dei dané, ha coltivato multiple amicizie nel ramo, da quella con Vincenzo Maranghi, l’erede di Cuccia in Mediobanca, a Giuseppe Guzzetti, il filantropo della Fondazione Cariplo, fino ai raider della Cir di Carlo De Benedetti, ma senza farsi mancare le strette di mano con Salvatore Ligresti e Marcellino Gavio. Sua personale apoteosi crocerista il biennio 2012-2013 nel quale si candida alle primarie del Partito democratico, si fa eleggere al Senato con il Centro democratico, poi tenta di conquistare il seggio a Bruxelles con Scelta europea. Il tutto senza mai usare sostanze dopanti. Biennio inaugurato con un vero colpo di teatro, assessore al Bilancio della giunta rosso-arancione Pisapia, anno 2011, che a Milano era appena nata sbaragliando la coalizione birignao di Letizia Moratti. “Sarò assessore a titolo personale”, dichiarò ai cronisti segugi che erano riusciti a scovarlo in quella avventurosa caccia al tesoro. Personale in che senso? “Che Giuliano Pisapia è un amico”. Ma è soprattutto il figlio del suo avvocato principe, Giandomenico, che nella tempesta di Mani Pulite, lo riportò a riva, assolto per certi finanziamenti Parmalat alla Democrazia cristiana, storie dell’altro secolo, passati senza strascichi: “Tra me e Di Pietro è finita due a zero per me”. Poi palla al centro e infine amiconi. Un anno e mezzo fa difendeva Giuseppe Conte e il suo secondo governo. Oggi massimamente deplora il leader dei Cinque stelle che si ostina a interferire con l’attuale Era dell’Acquario, peccato solo per quel po’ di guerra in corso, la siccità, la pandemia, l’inflazione, il collasso ambientale, le diseguaglianze nel mondo. Fabbricato con materiali di antica sartoria democristiana, Tabacci non fa mai pieghe. Favorevole al divorzio, per naturale laicismo, si incapricciò un giorno del 2006 di una tale Angiola Armellini titolare di 1243 appartamenti in Italia, ma sconosciuta al fisco. Si scoprì che la signora era beatamente monegasca (“i miei figli vanno a scuola a Montecarlo”) lui la difese e così pure la giustizia italiana. Interrogato, rispose: “Sapevo che era ricca e allora? Mica ero il suo commercialista”. Quindici anni dopo, cioè l’agosto scorso, stesso aplomb quando capita la faccenda del figlio Simone che meritatamente, tra mille candidati, viene assunto da Leonardo, ramo aereo-spazio, proprio mentre babbo Bruno governa Leonardo tramite Palazzo Chigi e dunque anche i 2,3 miliardi destinati dal Pnrr al ramo aerospazio. Scandalo, scandaletto, rimedio perfetto: Draghi sfila la delega aereospazio a babbo Bruno per affidarla a Cingolani, ministro della Transizione ecologica. Qualcuno protesta: “Cosa cambia?”. Per Tabacci proprio nulla. Saluta, sorride: ogni ripartenza fa curriculum.

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