Ha
scritto Diego Bianchi in “Ei fu. Siccome
grillino” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo
di luglio 2022: «Di Maio è ministro degli Esteri, ti rendi conto?»,
mi diceva Emanuele Macaluso in un'intervista, incredulo nonostante in vita sua
ne avesse viste tante, nonostante più o meno per tutto riuscisse comunque a
darsi una spiegazione. Eppure Di Maio ministro degli Esteri, seppur alla luce
di un ampio, complessivo, trasversale, progressivo e inarrestabile
deterioramento dei profili della classe dirigente del Paese, gli sembrava
troppo. A ridosso della bizzarra scissione dell'ex capo politico del Movimento
5 Stelle e di 62 suoi follower dall'ex gruppo più numeroso in parlamento,
ripenso a Macaluso e ai tanti colpi di scena che hanno accompagnato
l'incredibile storia di Di Maio e di quel Movimento che lo ha portato alla
notorietà producendo una delle più fulminee e strabilianti carriere politiche
della storia contemporanea nazionale. Il fatto che la principale vittima
dell'ultima mutazione genetica di colui che ora dice che uno non vale l'altro
sia per l'appunto l'altro, cioè Conte - uno dei pochi davvero competitivi in
quanto a capacità di cambiare pelle pur di sopravvivere a se stesso – sembra la
rappresentazione di una tappa darwiniana di sopravvivenza della specie che fu
grillina. La capacità di non provare imbarazzo mai al cospetto delle proprie
capriole politiche sembra essere diventata un requisito imprescindibile per
molti dei leader più populisti della scena, tanto da far sorgere il dubbio che
essere populisti, in estrema sintesi, significhi anche e soprattutto non
vergognarsi mai di un faccia a faccia con le proprie opinioni di un tempo anche
molto recente. Rimanere attoniti di fronte ai mille modi di negare se stessi
oltre ogni decenza è reazione inevitabile per chiunque affidi ancora alla
memoria e alla coerenza un qualsivoglia valore. Ciononostante, proprio per
dovere di cronaca e di esercizio di memoria, sarebbe errato dimenticare che
tutte le giravolte compiute dal Movimento 5 Stelle negli anni, dalla nascita
fino alla scissione di pochi giorni fa, erano state ampiamente, facilmente e
immediatamente predette da subito pressoché da chiunque, qualunque ruolo
avesse, purché dotato di una minima nozione circa il funzionamento di una
democrazia parlamentare, delle sue regole e dei suoi limiti. La propaganda del
Movimento 5 stelle, aiutata dalle ampie praterie lasciate dagli altri partiti,
sarebbe stata efficace anche senza le strampalate e insostenibili battaglie di
principio condotte in nome di un'illusoria superiorità morale dell'uomo
qualunque sulla casta. Sullo stesso numero del settimanale si può leggere
“A colpi di pochette” di Filippo
Ceccarelli: Fra le varie e istruttive miserie che segnano il processo di
dissoluzione dell'esperienza cinque stelle, colpisce una frase che il ministro
Di Maio ha pronunciato per dileggiare l'improbabile estremismo barricadiero
dell'ex presidente Conte: "Sembra un Di Battista con la pochette".
Ora, con tutto il rispetto, è abbastanza evidente che nel giudizio la politica
c'entra pochissimo, e ancora meno quella internazionale, per la semplice
ragione che quando tutto va a scatafascio, dopo averne dette di ogni genere, ognuno
seguita a sostenere tutto e il contrario di tutto col risultato che nessuno
crede più a nulla, e lo stesso Dibba fluttua nell'inclassificabile per cui un
giorno promette battaglia, un altro fa i podcast e un altro ancora parte per la
Russia profonda. Ma non è questo il punto. Così, con indispensabile arbitrio,
viene da pensare che il vero fulcro della disfida si collochi piuttosto nella
pochette, ma sorprendentemente e con ampio margine di contraddizione, nel senso
che il civettuolo accessorio è ormai un segno distintivo di Conte, ma da
qualche tempo anche Di Maio la indossa con lezioso compiacimento, per cui non
si capisce bene che senso abbia nella testa di entrambi, questa benedetta
pochette, se evochi un tratto di presunta eleganza o un product placement, un
sospirato marchio di rispettabilità da commendatore o un consapevole strappo ai
canoni di un movimento generatosi, dopo tutto, all'insegna del vaffanculo.
Cambiano semmai le forme: Giuseppi ce l'ha a punta multipla, Giggino a
quadrato. Ma a prescindere dalle più riposte motivazioni individuali l'ipotesi
che qui si vorrebbe avanzare, sempre con scrupolo degno di miglior causa, è che
la doppia e conflittuale pochette dei Cinque Stelle in rotta si configura come
una sorta di tutorial su una vita pubblica ogni giorno più appariscente, ma
lontana dalla vita reale. E siccome il passaggio dall'etica del bene comune
all'estetica della presenza è duro da accettare, ma a suo modo anche spassoso
da interpretare, un enigma nell'enigma sta nel fatto che il duello finale
accomuna due esemplari che quanto a immagine, stile e soprattutto spasmodica
cura di se stessi si assomigliano un sacco, entrambi rientrando a pieno titolo
nella categoria tutta italiana dei damerini, vagheggini, elegantoni. Conte
sempre azzimato col suo bel ciuffo sostenuto con la lacca e Di Maio,
costantemente in ghingheri, che fin dal lontano 2016 si faceva sagomare le
sopracciglia per accrescere carisma e sintomatico mistero. Tutti e due adesso
fluttuano nella medesima bolla illusoria e climatizzata, estranei ai veri e a
volte dolorosi problemi della realtà; simulatori seriali senza colpa,
talentuosi prestigiatori a somma zero, soggetti apparenti, puri esseri
esteriori alla resa dei conti.
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