"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 6 luglio 2022

Notiziedalbelpaese. 63 Emanuele Macaluso: «Di Maio è ministro degli Esteri, ti rendi conto?»

Ha scritto Diego Bianchi in “Ei fu. Siccome grillino” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di luglio 2022: «
Di Maio è ministro degli Esteri, ti rendi conto?», mi diceva Emanuele Macaluso in un'intervista, incredulo nonostante in vita sua ne avesse viste tante, nonostante più o meno per tutto riuscisse comunque a darsi una spiegazione. Eppure Di Maio ministro degli Esteri, seppur alla luce di un ampio, complessivo, trasversale, progressivo e inarrestabile deterioramento dei profili della classe dirigente del Paese, gli sembrava troppo. A ridosso della bizzarra scissione dell'ex capo politico del Movimento 5 Stelle e di 62 suoi follower dall'ex gruppo più numeroso in parlamento, ripenso a Macaluso e ai tanti colpi di scena che hanno accompagnato l'incredibile storia di Di Maio e di quel Movimento che lo ha portato alla notorietà producendo una delle più fulminee e strabilianti carriere politiche della storia contemporanea nazionale. Il fatto che la principale vittima dell'ultima mutazione genetica di colui che ora dice che uno non vale l'altro sia per l'appunto l'altro, cioè Conte - uno dei pochi davvero competitivi in quanto a capacità di cambiare pelle pur di sopravvivere a se stesso – sembra la rappresentazione di una tappa darwiniana di sopravvivenza della specie che fu grillina. La capacità di non provare imbarazzo mai al cospetto delle proprie capriole politiche sembra essere diventata un requisito imprescindibile per molti dei leader più populisti della scena, tanto da far sorgere il dubbio che essere populisti, in estrema sintesi, significhi anche e soprattutto non vergognarsi mai di un faccia a faccia con le proprie opinioni di un tempo anche molto recente. Rimanere attoniti di fronte ai mille modi di negare se stessi oltre ogni decenza è reazione inevitabile per chiunque affidi ancora alla memoria e alla coerenza un qualsivoglia valore. Ciononostante, proprio per dovere di cronaca e di esercizio di memoria, sarebbe errato dimenticare che tutte le giravolte compiute dal Movimento 5 Stelle negli anni, dalla nascita fino alla scissione di pochi giorni fa, erano state ampiamente, facilmente e immediatamente predette da subito pressoché da chiunque, qualunque ruolo avesse, purché dotato di una minima nozione circa il funzionamento di una democrazia parlamentare, delle sue regole e dei suoi limiti. La propaganda del Movimento 5 stelle, aiutata dalle ampie praterie lasciate dagli altri partiti, sarebbe stata efficace anche senza le strampalate e insostenibili battaglie di principio condotte in nome di un'illusoria superiorità morale dell'uomo qualunque sulla casta. Sullo stesso numero del settimanale si può leggere “A colpi di pochette” di Filippo Ceccarelli: Fra le varie e istruttive miserie che segnano il processo di dissoluzione dell'esperienza cinque stelle, colpisce una frase che il ministro Di Maio ha pronunciato per dileggiare l'improbabile estremismo barricadiero dell'ex presidente Conte: "Sembra un Di Battista con la pochette". Ora, con tutto il rispetto, è abbastanza evidente che nel giudizio la politica c'entra pochissimo, e ancora meno quella internazionale, per la semplice ragione che quando tutto va a scatafascio, dopo averne dette di ogni genere, ognuno seguita a sostenere tutto e il contrario di tutto col risultato che nessuno crede più a nulla, e lo stesso Dibba fluttua nell'inclassificabile per cui un giorno promette battaglia, un altro fa i podcast e un altro ancora parte per la Russia profonda. Ma non è questo il punto. Così, con indispensabile arbitrio, viene da pensare che il vero fulcro della disfida si collochi piuttosto nella pochette, ma sorprendentemente e con ampio margine di contraddizione, nel senso che il civettuolo accessorio è ormai un segno distintivo di Conte, ma da qualche tempo anche Di Maio la indossa con lezioso compiacimento, per cui non si capisce bene che senso abbia nella testa di entrambi, questa benedetta pochette, se evochi un tratto di presunta eleganza o un product placement, un sospirato marchio di rispettabilità da commendatore o un consapevole strappo ai canoni di un movimento generatosi, dopo tutto, all'insegna del vaffanculo. Cambiano semmai le forme: Giuseppi ce l'ha a punta multipla, Giggino a quadrato. Ma a prescindere dalle più riposte motivazioni individuali l'ipotesi che qui si vorrebbe avanzare, sempre con scrupolo degno di miglior causa, è che la doppia e conflittuale pochette dei Cinque Stelle in rotta si configura come una sorta di tutorial su una vita pubblica ogni giorno più appariscente, ma lontana dalla vita reale. E siccome il passaggio dall'etica del bene comune all'estetica della presenza è duro da accettare, ma a suo modo anche spassoso da interpretare, un enigma nell'enigma sta nel fatto che il duello finale accomuna due esemplari che quanto a immagine, stile e soprattutto spasmodica cura di se stessi si assomigliano un sacco, entrambi rientrando a pieno titolo nella categoria tutta italiana dei damerini, vagheggini, elegantoni. Conte sempre azzimato col suo bel ciuffo sostenuto con la lacca e Di Maio, costantemente in ghingheri, che fin dal lontano 2016 si faceva sagomare le sopracciglia per accrescere carisma e sintomatico mistero. Tutti e due adesso fluttuano nella medesima bolla illusoria e climatizzata, estranei ai veri e a volte dolorosi problemi della realtà; simulatori seriali senza colpa, talentuosi prestigiatori a somma zero, soggetti apparenti, puri esseri esteriori alla resa dei conti.

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