Ha scritto Thierry Vedel in «Capire la “Bestia” e poi evitarla», riportato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di gennaio dell’anno 2020:
Nel
mondo digitale in cui siamo bombardati di notizie e in cui il rischio di
“sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a messaggi che fanno appello alle
nostre emozioni piuttosto che quelle che veicolano un contenuto complesso. È
così che invece di analizzare razionalmente il contenuto di un messaggio
leggiamo solo le notizie che confermano ciò in cui crediamo. Ecco perché molti
politici populisti non provano a trasmettere informazioni razionali, ma favole
caricate emotivamente, al fine di lasciare un’impressione duratura ai destinatari.
(…). Non è ancora chiaro come una fake news possa influenzare il risultato
elettorale, è tuttavia evidente che la comunicazione politica veicolata
attraverso messaggi emozionali è efficace. L’unico modo per evitare che
influenzi la nostra vita è allora reimparare a dare un peso a ciò che leggiamo,
nella consapevolezza che un’educazione allo spirito critico è l’unica soluzione
possibile. Di seguito, “Una
giornata on line ecco come regaliamo i dati sensibili” di Marco Fubini
pubblicato sul mensile “FQMillennium” di luglio 2022: (…). Quanto sanno di noi le app
che scarichiamo sul nostro telefonino o i siti che visitiamo quando navighiamo
in internet? Tim Kendall, che per Facebook ha progettato il modo di monetizzare
le visualizzazioni degli utenti, fa un esempio chiarificatore: «Stai rientrando
a casa e come tutte le sere, dopo aver parcheggiato la macchina, apri il tuo
smartphone e ti godi 5 minuti di relax prima di ripiombare nella routine
casalinga. Vibra il telefono... è una notifica. Instagram sa che è un buon momento
per catturare la tua attenzione, che sei tranquillo, che abitualmente in quei
minuti usi il tele-fono per svago. Perfetto! "Il post di Alex (tuo
carissimo amico) ha ottenuto un sacco di like", Clicchi ed eccoti da loro.
A questo punto l'algoritmo, che ti conosce molto bene, farà di tutto per
tenerti più tempo possibile da loro, con foto, notizie, post che ti
incuriosiscono per cercare di trasformare quei 5 minuti in 20. Più tempo vuol
dire più pubblicità. Più pubblicità vuol dire più soldi. Questo è un esempio
molto realistico su come le app studino, con grande precisione, quando e come
attirare la tua attenzione, Non c'è nulla di casuale». «Ma il calcolo può
essere ancora più sofisticato!» continua Kendall «l'algoritmo può capire quando
sei più propenso a comprare qualcosa! Per esempio, nota che tu la sera, tra le
21.30 e le 22.30, clicchi molto sulle pubblicità e che spesso i tuoi click si
convertono in acquisto. Bene, quello è il momento migliore per mandare più
pubblicità». Tim Kendall non è un complottista ma è la persona che ha inventato
e implementato personalmente questo modus operandi. Ormai sappiamo che quello
che ci viene "regalato" in internet, in realtà lo paghiamo in altro
modo. Ma cosa diamo esattamente in cambio forse non è chiaro a tutti. Appena
svegli. Sono le 7:00, la sveglia suona. Il 70% · degli italiani come primo
gesto della giornata apre il telefonino e la maggior parte guarda un social (…).
Non abbiamo neanche idea della quantità di dati e di permessi che diamo ogni
giorno senza neanche rendercene conto. Un social oltre conoscere tutto quello
che ci piace tramite i nostri like, sa quanto tempo passiamo a leggere un post
e quindi quali post preferiamo, quali sono gli argomenti che ci interessano,
qual'è il nostro orientamento politico, quanto tempo guardiamo una foto, ma
anche cosa c'è in quella foto e se facciamo pinch (cioè allargare l'immagine
usando due dita) in che punto della foto lo facciamo, quali sono i prodotti che
preferiamo, quali compriamo, quanto siamo abituati a » spendere. Spesso senza
neanche saperlo diamo accesso alla nostra geolocalizzazione, che permette di
sapere dove siamo in ogni momento della giornata, alla nostra rubrica
telefonica, alle informazioni sulle altre app che usiamo sul nostro telefono.
Tutti dati che per loro sono importantissimi. Grazie a quelle informazioni che
affinano le strategie per catturare la nostra attenzione, farci stare più tempo
possibile appiccicati alla loro pagina e proporci la pubblicità giusta con la
speranza che si trasformi in acquisto. Tutto questo, a cui noi, senza neanche
rendercene conto, abbiamo dato accesso, ha un valore enorme. Pensate che il
gruppo Meta (padrone di app come Instagram, Facebook, Messenger, WhatsApp e tantissime
altre) nell'ultimo quadrimestre del 2021 ha fatturato 33,7 miliardi dollari. Chi
vuole mettere pubblicità sui loro social ha la possibilità di scegliere un target
molto preciso di utenti. Si può scegliere età, sesso, potere d'acquisto, interessi
specifici, zona geografica in cui mostrare l'annuncio e mille altri parametri che
la piattaforma ha a disposizione. La privacy è garantita perché il nome
dell'utente non viene fuori, ma questo meccanismo porta con se risvolti abbastanza
inquietanti perché ad essere profilate non sono solo le pubblicità ma anche i
contenuti delle pagine che leggiamo. In gruppi estesi come Meta c'è di più
perché avendo 3 miliardi di utenti precisa Tim Kendall «dobbiamo considerare
che ognuno di noi fa parte di un sottoinsieme formato da centinaia di migliaia
di persone. Di "Mario Rossi" a cui piace viaggiare, appassionato di
moto che ama cucinare e se ne intende di vini ce ne sono tantissimi. Quindi
quando 2 mila "Mario Rossi" nel mondo si comprano l'ultimo modello di
interfono da usare in moto è probabile che anche il Mario Rossi di Milano sia
interessato a quel gadget e quindi glielo propongono». Tim ci tiene anche a
sfatare un falso mito «Non è assolutamente vero che ci ascoltano. Le pubblicità
non sono legate a quello che abbiamo detto a cena con gli amici la sera prima,
semplicemente chi vende gli spazi pubblicitari ci conosce meglio di quanto
conosciamo noi stessi. I server non dimenticano nulla e incrociano sapientemente
tutti i dati riuscendo a volte a prevenire nostri desideri». Durante la
mattinata. Mentre facciamo colazione leggiamo le notizie del giorno o guardiamo
qualsiasi altra pagina web. Qui si apre un altro mondo. Come racconta Paolo Dal
Checco perito informatico forense: «Quando entri su una pagina web, Google, il
principale gestore delle pubblicità in rete, apre un'asta che si svolge in qualche
millisecondo in cui sostanzialmente "ti mette in vendita". Il
meccanismo è molto semplice, sul sito che stiamo aprendo c'è uno spazio
pubblicitario, Google segnala che su quella pagina sta per arrivare Mario
Rossi, 50 anni, amante delle moto, che ama viaggiare, compra spesso borse di
pelle di buona marca, scarpe sportive e gadget per la moto e lo vende al
miglior offerente. Ovviamente chi vende borse di pelle sarà disposto a pagare
di più di un marchio di collant. L'asta si chiude, la pagina si apre e affianco
ai contenuti appare la pubblicità frutto della profilazione». Non è come sui
giornali cartacei che la pubblicità è uguale per tutti, qui è ad hoc, per
ognuno diversa in base ai gusti e al portafoglio di chi la guarda. Come fanno
ad avere tutte queste informazioni su di noi lo spiega molto bene Dal Checco:
«Quando visitiamo un sito, spesso diamo il permesso ai cosiddetti cookies, dei
micro files, dei gettoni identificativi, che le pagine web lasciano nel nostro
computer. In quelle stringhe di testo c'è scritto tutto quello che abbiamo
fatto su quel sito: cosa abbiamo cliccato, quanto tempo ci siamo stati, se e
come ci siamo loggati e tanto altro. Così quando il computer di Mario Rossi
entrerà in un altro sito, basterà leggere i cookies che si porta dietro per sapere
che ha visitato 14 siti in cui vendono borse di pelle, quanto tempo c'è stato
se ha comprato qualcosa e magari anche quanto l'ha pagata. Questo banalmente è
il motivo per cui se cerchiamo un paio di scarpe per giorni verremo invasi di
pubblicità di scarpe. Alcuni di questi cookies, quelli tecnici, sono essenziali
per accedere, altri sono molto comodi come quelli che servono per fare il login
automatico o per memorizzare la lista della spesa nel nostro supermercato
online ma molti, a noi, non servono a nulla. Come ad esempio i cookies di terze
parti che trasmettono informazioni a siti diversi da quello visitato. Se invece
di accettare e basta leggessimo le lunghissime informative, scritte con
caratteri minuscoli e spesso con un linguaggio incomprensibile, ci accorgeremmo
che sostanzialmente stiamo dando le nostre chiavi di casa al primo
sconosciuto». Prosegue Dal Checco: «Vero è anche che se di ogni pagina che apriamo
dovessimo leggere tutto, non riusciremmo più a navigare. In quella lunga lista
però spesso diamo il consenso alle cose più impensate: sistemi di tracciamento,
accesso ai dati di utilizzo del nostro dispositivo, geolocalizzazione, analisi
delle performance degli annunci, personalizzazione delle pubblicità, ricerche
di mercato, utilizzo dati provenienti dai nostri social, ma anche la possibilità
di collegare più dispositivi tra di loro. Cioè chi ha accesso a quei cookies, una
volta che ci ha individuato, pub unire e incrociare i dati del nostro telefonino,
del nostro computer o del nostro tablet per affinare la profilazione. L'elenco
è lunghissimo e tra decine di altri permessi spunta anche "performance e
personalizzazione dei contenuti"». Le info quotidiane. Personalizzazione
dei contenuti che come spiega molto semplicemente Marco Montemagno esperto di
marketing e strategie web, vuol dire che se io sono convinto che la terra sia
piatta o che il covid sia una banale influenza allora è più facile che mi
vengano proposte notizie scritte da terrapiattisti o novax che confermano il
mio modo di pensare. «All'algoritmo non importa se un'informazione sia giusta o
sbagliata», ricorda Kendall «importa solo quanto riesce a tenere l'utente
attaccato alla pagina web o all'app per potergli proporre più pubblicità. Hanno
fatto centinaia di esperimenti e hanno capito che le persone preferiscono
sentirsi affermate, vogliono pensare di avere ragione e scelgono chi glielo
conferma. Quando hanno proposto contenuti che mettevano in dubbio il pensiero
di chi leggeva, hanno visto che la gente tornava alla vita reale, spengeva, non
rimaneva connessa e questo ovviamente non è quello che vuole chi guadagna su
visualizzazioni e tempo di permanenza. C'è poi un altro studio che dimostra che
generalmente quando ci troviamo in una pagina in linea con i nostri pensieri,
ci sentiamo più "a casa" e accettiamo più facilmente i consigli che
vengono dalla pubblicità e clicchiamo». Se ci trovassimo su un sito in cui professano
lo sterminio degli italiani come razza inferiore, o semplicemente su una pagina
di terrapiattisti (quando non lo siamo), cliccheremmo mai sulla pubblicità di
un paio di scarpe? «Non esiste più un internet "democratico" uguale
per tutti», ci ricorda Montemagno, «esiste il mio internet, quello del barista
sotto casa e quello del mio dottore. Ognuno di noi naviga in una sorta di bolla,
in cui viene proposto quello che gli algoritmi pensano ci possa piacere. Con l’unico
scopo di massimizzare i profitti. Per capire al volo questo concetto basta
aprire la home di Instagram e confrontarla con quella di un amico e a colpo
d'occhio si vede che sono completamente diverse. Stesso meccanismo, magari meno
evidente, vale per tutto il resto. La chiamano Filter bubble cioè un micro
cosmo proposto dagli algoritmi che ci hanno profilato, dentro al quale, se non
stiamo attenti, continuiamo a navigare convinti che quello che vediamo e
troviamo sia identico per tutti e che sia la verità». La realtà percepita. Jean
Claud Ghinozzi, quando era Presidente e ceo di Qwant, un motore di ricerca
sovvenzionato dalla Stato francese che ha come bandiera la non-profilazione,
raccontava quanto possa essere pericolosa e invadente questo tipo di raccolta
dati. «Se ad esempio penso che l'immigrazione sia un problema è probabile che
continuino a propormi notizie in cui stranieri senza permesso di soggiorno
commettono violenze, furti e stupri. Il problema fondamentale, continua Ghinozzi,
è che la realtà non esiste di per se stessa, esiste la realtà che percepiamo,
per cui se in Italia questo tipo di reati commessi dagli stranieri diminuiscono
ma i media ne parlano moltissimo la percezione è che siano in aumento». Questo
problema era già stato sollevato 20 anni fa da Micael Moore in Bowling a
Columbine, dimostrando che molti americani si armavano convinti che la violenza
delle strade stesse aumentando semplicemente perché la copertura mediatica era
enorme, mentre analizzando i dati reali forniti della polizia veniva fuori
l'esatto contrario». Quello che è davvero inquietante è che oggi, questo tipo
di distorsione, con la filter bubble, può avvenire su moltissimi fronti.
Pensiamo alla politica ad esempio. In America hanno fatto degli studi in cui
hanno trovato una correlazione tra estremizzazione politica e filter bubble. Se
l'utente continua ad avere continue conferme del suo pensiero e tutti i giorni
legge solo notizie che rafforzano le sue convinzioni penserà di essere nel giusto,
arriverà a pensare, in casi estremi, che chi ha idee diverse dalle sue sia matto.
Questo, forse, spiega come durante le ultime due elezioni presidenziali in
America i toni siano stati così accesi e violenti. Con episodi impensabili come
l'assalto al Campidoglio da parte di un gruppo di manifestanti sostenitori di
Donald Trump. Tim Kendall ci confessa che la più grande paura per il futuro è
che, a causa di questo inasprimento di posizioni dovute alla filter bubble,
scoppi una guerra civile. La pausa
pranzo. Sono le 13, dobbiamo scegliere dove andare a mangiare e apriamo
un'app che offre la descrizione e la valutazione dei ristoranti nelle
vicinanze. Una volta deciso il posto, magari usiamo il navigatore per farci
indicare la strada. La profilazione avviene anche tramite app come queste: la
prossima volta che cercheremo un posto in cui pranzare, se l'app sa che ci
piace il sushi farà pagare più cara l'inserzione a chi vuole pubblicizzare un
ristorante giapponese. Ci sono anche i macro sistema come quello di Google che
con le sue 133 applicazioni ci offre la possibilità di fare tutto quello di cui
abbiamo bisogno senza mai uscire dal suo ecosistema. Più usiamo le loro app più
dati avranno di noi, più potranno mostrarci pubblicità tarata esattamente sui
nostri gusti e che quindi più facilmente si convertirà in acquisto. Ovviamente
chi vorrà inserire annunci che appariranno a clienti così dettagliatamente
profilati pagherà molto di più. Pensate che un clìk può arrivare a costare
anche un euro. Oltre a Chrome (che è il browser, cioè il programma che si usa
per navigare in internet) il mondo Google ha applicazioni come GMail, GMaps,
Documents, Youtube, Calendar, Google News, Translate per citare le più
conosciute ma poi ce ne sono tantissimi altri diretti a ogni tipo di esigenza.
Tutti servizi che ci vengono "regalati" in cambio dei nostri dati o
in cambio di visualizzazioni di pubblicità se pensiamo a youtube o al motore di
ricerca che come primi risultati ha sempre "annunci". La forza di Google.
Non è un. caso che i telefonini con il sistema operativo Android (di Google)
abbiano molte di queste applicazioni preinstallate come non è un caso che il
motore di ricerca preimpostato fosse proprio Google, finché l'Europa non ha multato
il colosso di Mountain View per 4,3 miliardi di euro per abuso di posizione
dominante. Google questi dati non li rivende come pensano in molti. Almeno, non
in modo diretto. A parte il fatto che è vietato ma poi è davvero inimmaginabile
la quantità di lavoro che c'è dietro la collezione, l’archiviazione e
l'organizzazione di tutti questi dati. Google se li tiene ben stretti. La
realtà è che li usa facendosi pagare molto bene la possibilità di fare
inserzioni pubblicitarie mirate con una profilazione particolarmente accurata.
In questo senso li "rivende" o meglio li utilizza per monetizzare.
Nell’ultimo trimestre del 2021 Google ha fatturato 65,1 miliardi di dollari
solo vendendo e gestendo spazi pubblicitari. Ghinozzi, che della non profilazione
ha fatto la bandiera del motore di ricerca che dirigeva, ci invita a leggere
attentamente tutti i punti nelle impostazioni della privacy di Google. «Vedrete
che in alcuni casi si rifanno alle leggi e alle e alle limitazioni del governo
degli Stati Uniti e questo è un problema. Anche perché, un esempio tra tutti,
negli Stati Uniti la polizia ha la possibilità di accedere a email, foto e
dati, purché archiviati da più di 6 mesi, senza nessuna autorizzazione. Né nostra
né di un magistrato. Sembra assurdo ma è così perché la legge di riferimento
per la tutela della privacy è del 1986 quando gli spazi di archiviazione in
rete erano molto più piccoli ed estremamente più costosi e quindi le persone
cancellavano regolarmente tutto. Quello che era più vecchio di 6 mesi veniva
considerato obsoleto o dimenticato. Ma oggi dopo 36 anni la realtà è tutt'altra
ma le leggi non sono state aggiornate e poi soprattutto non sono quelle
italiane». Se utilizziamo un motore di ricerca che non ci profila possiamo
vedere un internet più "aperto" con risposte a 360°. Ma per farlo non
basta scegliere il motore giusto ma anche un browser che non ci profili e
ricordarci di ripulire il computer da tutti i cookies. Certo quando poi apriremo
una pagina dovremo rimettere, a mano, tutte le nostre password e user id per
entrare sui nostri siti preferiti. Dovremo leggere tutte le informative e scegliere
con attenzione i cookies a cui diamo il permesso bloccando quelli che non sono
strettamente necessari e di sicuro non ritroveremo la nostra lista della spesa
già preselezionata pronta da cliccare per la consegna. Nella vita bisogna fare
delle scelte o almeno, essere molto consapevoli.
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