"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 28 luglio 2022

Lavitadeglialtri. 23 Vite violate. «Ognuno di noi naviga in una sorta di bolla, in cui viene proposto quello che gli algoritmi pensano ci possa piacere».

Ha scritto Thierry Vedel in «Capire la “Bestia” e poi evitarla», riportato su “il Fatto Quotidiano” del 29 di gennaio dell’anno 2020: Nel mondo digitale in cui siamo bombardati di notizie e in cui il rischio di “sovraccarico” è reale preferiamo affidarci a messaggi che fanno appello alle nostre emozioni piuttosto che quelle che veicolano un contenuto complesso. È così che invece di analizzare razionalmente il contenuto di un messaggio leggiamo solo le notizie che confermano ciò in cui crediamo. Ecco perché molti politici populisti non provano a trasmettere informazioni razionali, ma favole caricate emotivamente, al fine di lasciare un’impressione duratura ai destinatari. (…). Non è ancora chiaro come una fake news possa influenzare il risultato elettorale, è tuttavia evidente che la comunicazione politica veicolata attraverso messaggi emozionali è efficace. L’unico modo per evitare che influenzi la nostra vita è allora reimparare a dare un peso a ciò che leggiamo, nella consapevolezza che un’educazione allo spirito critico è l’unica soluzione possibile. Di seguito, “Una giornata on line ecco come regaliamo i dati sensibili” di Marco Fubini pubblicato sul mensile “FQMillennium” di luglio 2022: (…). Quanto sanno di noi le app che scarichiamo sul nostro telefonino o i siti che visitiamo quando navighiamo in internet? Tim Kendall, che per Facebook ha progettato il modo di monetizzare le visualizzazioni degli utenti, fa un esempio chiarificatore: «Stai rientrando a casa e come tutte le sere, dopo aver parcheggiato la macchina, apri il tuo smartphone e ti godi 5 minuti di relax prima di ripiombare nella routine casalinga. Vibra il telefono... è una notifica. Instagram sa che è un buon momento per catturare la tua attenzione, che sei tranquillo, che abitualmente in quei minuti usi il tele-fono per svago. Perfetto! "Il post di Alex (tuo carissimo amico) ha ottenuto un sacco di like", Clicchi ed eccoti da loro. A questo punto l'algoritmo, che ti conosce molto bene, farà di tutto per tenerti più tempo possibile da loro, con foto, notizie, post che ti incuriosiscono per cercare di trasformare quei 5 minuti in 20. Più tempo vuol dire più pubblicità. Più pubblicità vuol dire più soldi. Questo è un esempio molto realistico su come le app studino, con grande precisione, quando e come attirare la tua attenzione, Non c'è nulla di casuale». «Ma il calcolo può essere ancora più sofisticato!» continua Kendall «l'algoritmo può capire quando sei più propenso a comprare qualcosa! Per esempio, nota che tu la sera, tra le 21.30 e le 22.30, clicchi molto sulle pubblicità e che spesso i tuoi click si convertono in acquisto. Bene, quello è il momento migliore per mandare più pubblicità». Tim Kendall non è un complottista ma è la persona che ha inventato e implementato personalmente questo modus operandi. Ormai sappiamo che quello che ci viene "regalato" in internet, in realtà lo paghiamo in altro modo. Ma cosa diamo esattamente in cambio forse non è chiaro a tutti. Appena svegli. Sono le 7:00, la sveglia suona. Il 70% · degli italiani come primo gesto della giornata apre il telefonino e la maggior parte guarda un social (…). Non abbiamo neanche idea della quantità di dati e di permessi che diamo ogni giorno senza neanche rendercene conto. Un social oltre conoscere tutto quello che ci piace tramite i nostri like, sa quanto tempo passiamo a leggere un post e quindi quali post preferiamo, quali sono gli argomenti che ci interessano, qual'è il nostro orientamento politico, quanto tempo guardiamo una foto, ma anche cosa c'è in quella foto e se facciamo pinch (cioè allargare l'immagine usando due dita) in che punto della foto lo facciamo, quali sono i prodotti che preferiamo, quali compriamo, quanto siamo abituati a » spendere. Spesso senza neanche saperlo diamo accesso alla nostra geolocalizzazione, che permette di sapere dove siamo in ogni momento della giornata, alla nostra rubrica telefonica, alle informazioni sulle altre app che usiamo sul nostro telefono. Tutti dati che per loro sono importantissimi. Grazie a quelle informazioni che affinano le strategie per catturare la nostra attenzione, farci stare più tempo possibile appiccicati alla loro pagina e proporci la pubblicità giusta con la speranza che si trasformi in acquisto. Tutto questo, a cui noi, senza neanche rendercene conto, abbiamo dato accesso, ha un valore enorme. Pensate che il gruppo Meta (padrone di app come Instagram, Facebook, Messenger, WhatsApp e tantissime altre) nell'ultimo quadrimestre del 2021 ha fatturato 33,7 miliardi dollari. Chi vuole mettere pubblicità sui loro social ha la possibilità di scegliere un target molto preciso di utenti. Si può scegliere età, sesso, potere d'acquisto, interessi specifici, zona geografica in cui mostrare l'annuncio e mille altri parametri che la piattaforma ha a disposizione. La privacy è garantita perché il nome dell'utente non viene fuori, ma questo meccanismo porta con se risvolti abbastanza inquietanti perché ad essere profilate non sono solo le pubblicità ma anche i contenuti delle pagine che leggiamo. In gruppi estesi come Meta c'è di più perché avendo 3 miliardi di utenti precisa Tim Kendall «dobbiamo considerare che ognuno di noi fa parte di un sottoinsieme formato da centinaia di migliaia di persone. Di "Mario Rossi" a cui piace viaggiare, appassionato di moto che ama cucinare e se ne intende di vini ce ne sono tantissimi. Quindi quando 2 mila "Mario Rossi" nel mondo si comprano l'ultimo modello di interfono da usare in moto è probabile che anche il Mario Rossi di Milano sia interessato a quel gadget e quindi glielo propongono». Tim ci tiene anche a sfatare un falso mito «Non è assolutamente vero che ci ascoltano. Le pubblicità non sono legate a quello che abbiamo detto a cena con gli amici la sera prima, semplicemente chi vende gli spazi pubblicitari ci conosce meglio di quanto conosciamo noi stessi. I server non dimenticano nulla e incrociano sapientemente tutti i dati riuscendo a volte a prevenire nostri desideri». Durante la mattinata. Mentre facciamo colazione leggiamo le notizie del giorno o guardiamo qualsiasi altra pagina web. Qui si apre un altro mondo. Come racconta Paolo Dal Checco perito informatico forense: «Quando entri su una pagina web, Google, il principale gestore delle pubblicità in rete, apre un'asta che si svolge in qualche millisecondo in cui sostanzialmente "ti mette in vendita". Il meccanismo è molto semplice, sul sito che stiamo aprendo c'è uno spazio pubblicitario, Google segnala che su quella pagina sta per arrivare Mario Rossi, 50 anni, amante delle moto, che ama viaggiare, compra spesso borse di pelle di buona marca, scarpe sportive e gadget per la moto e lo vende al miglior offerente. Ovviamente chi vende borse di pelle sarà disposto a pagare di più di un marchio di collant. L'asta si chiude, la pagina si apre e affianco ai contenuti appare la pubblicità frutto della profilazione». Non è come sui giornali cartacei che la pubblicità è uguale per tutti, qui è ad hoc, per ognuno diversa in base ai gusti e al portafoglio di chi la guarda. Come fanno ad avere tutte queste informazioni su di noi lo spiega molto bene Dal Checco: «Quando visitiamo un sito, spesso diamo il permesso ai cosiddetti cookies, dei micro files, dei gettoni identificativi, che le pagine web lasciano nel nostro computer. In quelle stringhe di testo c'è scritto tutto quello che abbiamo fatto su quel sito: cosa abbiamo cliccato, quanto tempo ci siamo stati, se e come ci siamo loggati e tanto altro. Così quando il computer di Mario Rossi entrerà in un altro sito, basterà leggere i cookies che si porta dietro per sapere che ha visitato 14 siti in cui vendono borse di pelle, quanto tempo c'è stato se ha comprato qualcosa e magari anche quanto l'ha pagata. Questo banalmente è il motivo per cui se cerchiamo un paio di scarpe per giorni verremo invasi di pubblicità di scarpe. Alcuni di questi cookies, quelli tecnici, sono essenziali per accedere, altri sono molto comodi come quelli che servono per fare il login automatico o per memorizzare la lista della spesa nel nostro supermercato online ma molti, a noi, non servono a nulla. Come ad esempio i cookies di terze parti che trasmettono informazioni a siti diversi da quello visitato. Se invece di accettare e basta leggessimo le lunghissime informative, scritte con caratteri minuscoli e spesso con un linguaggio incomprensibile, ci accorgeremmo che sostanzialmente stiamo dando le nostre chiavi di casa al primo sconosciuto». Prosegue Dal Checco: «Vero è anche che se di ogni pagina che apriamo dovessimo leggere tutto, non riusciremmo più a navigare. In quella lunga lista però spesso diamo il consenso alle cose più impensate: sistemi di tracciamento, accesso ai dati di utilizzo del nostro dispositivo, geolocalizzazione, analisi delle performance degli annunci, personalizzazione delle pubblicità, ricerche di mercato, utilizzo dati provenienti dai nostri social, ma anche la possibilità di collegare più dispositivi tra di loro. Cioè chi ha accesso a quei cookies, una volta che ci ha individuato, pub unire e incrociare i dati del nostro telefonino, del nostro computer o del nostro tablet per affinare la profilazione. L'elenco è lunghissimo e tra decine di altri permessi spunta anche "performance e personalizzazione dei contenuti"». Le info quotidiane. Personalizzazione dei contenuti che come spiega molto semplicemente Marco Montemagno esperto di marketing e strategie web, vuol dire che se io sono convinto che la terra sia piatta o che il covid sia una banale influenza allora è più facile che mi vengano proposte notizie scritte da terrapiattisti o novax che confermano il mio modo di pensare. «All'algoritmo non importa se un'informazione sia giusta o sbagliata», ricorda Kendall «importa solo quanto riesce a tenere l'utente attaccato alla pagina web o all'app per potergli proporre più pubblicità. Hanno fatto centinaia di esperimenti e hanno capito che le persone preferiscono sentirsi affermate, vogliono pensare di avere ragione e scelgono chi glielo conferma. Quando hanno proposto contenuti che mettevano in dubbio il pensiero di chi leggeva, hanno visto che la gente tornava alla vita reale, spengeva, non rimaneva connessa e questo ovviamente non è quello che vuole chi guadagna su visualizzazioni e tempo di permanenza. C'è poi un altro studio che dimostra che generalmente quando ci troviamo in una pagina in linea con i nostri pensieri, ci sentiamo più "a casa" e accettiamo più facilmente i consigli che vengono dalla pubblicità e clicchiamo». Se ci trovassimo su un sito in cui professano lo sterminio degli italiani come razza inferiore, o semplicemente su una pagina di terrapiattisti (quando non lo siamo), cliccheremmo mai sulla pubblicità di un paio di scarpe? «Non esiste più un internet "democratico" uguale per tutti», ci ricorda Montemagno, «esiste il mio internet, quello del barista sotto casa e quello del mio dottore. Ognuno di noi naviga in una sorta di bolla, in cui viene proposto quello che gli algoritmi pensano ci possa piacere. Con l’unico scopo di massimizzare i profitti. Per capire al volo questo concetto basta aprire la home di Instagram e confrontarla con quella di un amico e a colpo d'occhio si vede che sono completamente diverse. Stesso meccanismo, magari meno evidente, vale per tutto il resto. La chiamano Filter bubble cioè un micro cosmo proposto dagli algoritmi che ci hanno profilato, dentro al quale, se non stiamo attenti, continuiamo a navigare convinti che quello che vediamo e troviamo sia identico per tutti e che sia la verità». La realtà percepita. Jean Claud Ghinozzi, quando era Presidente e ceo di Qwant, un motore di ricerca sovvenzionato dalla Stato francese che ha come bandiera la non-profilazione, raccontava quanto possa essere pericolosa e invadente questo tipo di raccolta dati. «Se ad esempio penso che l'immigrazione sia un problema è probabile che continuino a propormi notizie in cui stranieri senza permesso di soggiorno commettono violenze, furti e stupri. Il problema fondamentale, continua Ghinozzi, è che la realtà non esiste di per se stessa, esiste la realtà che percepiamo, per cui se in Italia questo tipo di reati commessi dagli stranieri diminuiscono ma i media ne parlano moltissimo la percezione è che siano in aumento». Questo problema era già stato sollevato 20 anni fa da Micael Moore in Bowling a Columbine, dimostrando che molti americani si armavano convinti che la violenza delle strade stesse aumentando semplicemente perché la copertura mediatica era enorme, mentre analizzando i dati reali forniti della polizia veniva fuori l'esatto contrario». Quello che è davvero inquietante è che oggi, questo tipo di distorsione, con la filter bubble, può avvenire su moltissimi fronti. Pensiamo alla politica ad esempio. In America hanno fatto degli studi in cui hanno trovato una correlazione tra estremizzazione politica e filter bubble. Se l'utente continua ad avere continue conferme del suo pensiero e tutti i giorni legge solo notizie che rafforzano le sue convinzioni penserà di essere nel giusto, arriverà a pensare, in casi estremi, che chi ha idee diverse dalle sue sia matto. Questo, forse, spiega come durante le ultime due elezioni presidenziali in America i toni siano stati così accesi e violenti. Con episodi impensabili come l'assalto al Campidoglio da parte di un gruppo di manifestanti sostenitori di Donald Trump. Tim Kendall ci confessa che la più grande paura per il futuro è che, a causa di questo inasprimento di posizioni dovute alla filter bubble, scoppi una guerra civile. La pausa pranzo. Sono le 13, dobbiamo scegliere dove andare a mangiare e apriamo un'app che offre la descrizione e la valutazione dei ristoranti nelle vicinanze. Una volta deciso il posto, magari usiamo il navigatore per farci indicare la strada. La profilazione avviene anche tramite app come queste: la prossima volta che cercheremo un posto in cui pranzare, se l'app sa che ci piace il sushi farà pagare più cara l'inserzione a chi vuole pubblicizzare un ristorante giapponese. Ci sono anche i macro sistema come quello di Google che con le sue 133 applicazioni ci offre la possibilità di fare tutto quello di cui abbiamo bisogno senza mai uscire dal suo ecosistema. Più usiamo le loro app più dati avranno di noi, più potranno mostrarci pubblicità tarata esattamente sui nostri gusti e che quindi più facilmente si convertirà in acquisto. Ovviamente chi vorrà inserire annunci che appariranno a clienti così dettagliatamente profilati pagherà molto di più. Pensate che un clìk può arrivare a costare anche un euro. Oltre a Chrome (che è il browser, cioè il programma che si usa per navigare in internet) il mondo Google ha applicazioni come GMail, GMaps, Documents, Youtube, Calendar, Google News, Translate per citare le più conosciute ma poi ce ne sono tantissimi altri diretti a ogni tipo di esigenza. Tutti servizi che ci vengono "regalati" in cambio dei nostri dati o in cambio di visualizzazioni di pubblicità se pensiamo a youtube o al motore di ricerca che come primi risultati ha sempre "annunci". La forza di Google. Non è un. caso che i telefonini con il sistema operativo Android (di Google) abbiano molte di queste applicazioni preinstallate come non è un caso che il motore di ricerca preimpostato fosse proprio Google, finché l'Europa non ha multato il colosso di Mountain View per 4,3 miliardi di euro per abuso di posizione dominante. Google questi dati non li rivende come pensano in molti. Almeno, non in modo diretto. A parte il fatto che è vietato ma poi è davvero inimmaginabile la quantità di lavoro che c'è dietro la collezione, l’archiviazione e l'organizzazione di tutti questi dati. Google se li tiene ben stretti. La realtà è che li usa facendosi pagare molto bene la possibilità di fare inserzioni pubblicitarie mirate con una profilazione particolarmente accurata. In questo senso li "rivende" o meglio li utilizza per monetizzare. Nell’ultimo trimestre del 2021 Google ha fatturato 65,1 miliardi di dollari solo vendendo e gestendo spazi pubblicitari. Ghinozzi, che della non profilazione ha fatto la bandiera del motore di ricerca che dirigeva, ci invita a leggere attentamente tutti i punti nelle impostazioni della privacy di Google. «Vedrete che in alcuni casi si rifanno alle leggi e alle e alle limitazioni del governo degli Stati Uniti e questo è un problema. Anche perché, un esempio tra tutti, negli Stati Uniti la polizia ha la possibilità di accedere a email, foto e dati, purché archiviati da più di 6 mesi, senza nessuna autorizzazione. Né nostra né di un magistrato. Sembra assurdo ma è così perché la legge di riferimento per la tutela della privacy è del 1986 quando gli spazi di archiviazione in rete erano molto più piccoli ed estremamente più costosi e quindi le persone cancellavano regolarmente tutto. Quello che era più vecchio di 6 mesi veniva considerato obsoleto o dimenticato. Ma oggi dopo 36 anni la realtà è tutt'altra ma le leggi non sono state aggiornate e poi soprattutto non sono quelle italiane». Se utilizziamo un motore di ricerca che non ci profila possiamo vedere un internet più "aperto" con risposte a 360°. Ma per farlo non basta scegliere il motore giusto ma anche un browser che non ci profili e ricordarci di ripulire il computer da tutti i cookies. Certo quando poi apriremo una pagina dovremo rimettere, a mano, tutte le nostre password e user id per entrare sui nostri siti preferiti. Dovremo leggere tutte le informative e scegliere con attenzione i cookies a cui diamo il permesso bloccando quelli che non sono strettamente necessari e di sicuro non ritroveremo la nostra lista della spesa già preselezionata pronta da cliccare per la consegna. Nella vita bisogna fare delle scelte o almeno, essere molto consapevoli.

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