Da “Due
tigri all’università” di Daria Galateria, pubblicato sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” dell’8 di luglio 2022: Ci sono viaggi di studio che
valgono una rivoluzione. "Salire verso il continente allungava", dice
Marianna Ciccone, che, nel 1915, andava da Noto a studiare matematica alla
Sapienza di Roma. Con i vasi di provviste e la cassetta delle lenti - è
appassionata di spettrometria; bambina, leggendo dell'"occhialino" di
Galilei, ha rubato due lenti al padre per costruirne uno - sarebbe l'unica
matricola donna, ma c'è la guerra, e la facoltà chiude. Marianna legge in
bacheca che alla Normale di Pisa c'è un concorso, con alloggio e borsa di
studio: legge tutte le clausole, non ci sono preclusioni per le donne. Così,
può non avvisare i genitori, che sono ostili, e cercano di sposarla: è
graziosa, ma ha un occhio storto. Alla Normale, Ciccone insegnerà Matematica e
Fisica, e nel '35 viene chiamata a Darmstadt - ha imparato il tedesco studiando
Einstein; lavora con Gerhard Herzberg, che fuggirà in Canada: è ebreo, e lo
fanno accedere ai telescopi solo il sabato! Sarà premio Nobel, e gli intitoleranno
l'asteroide 3316 Herzberg. Marianna invece vincerà due concorsi, ma nessuna
università "chiama" (assume nei suoi quadri) una donna; resterà da
sola a vegliare la Normale nella guerra, a sotterrarne i libri. Il 23 giugno
del '44 i nazisti fanno una razzia all'Istituto di Fisica; intendono requisire
duemila volumi, il patrimonio librario ebraico della Biblioteca; Ciccone li
affronta fisicamente, e in tedesco, "come una tigre": ed è così che
conosciamo la sua storia, da una lettera di ringraziamento del rettore Luigi
Russo - e grazie alla magistrata e scrittrice Simona Lo Iacono che ha
ricostruito la sua vicenda (La tigre di Noto, Neri Pozza). È simile la storia
di Marussia Bakunin, terzogenita dell'anarchico, nata a Krasnojarsk e venuta a
Napoli a laurearsi, prima donna in Italia, in Chimica; temutissima docente,
rimase a vegliare la sua facoltà: il 12 settembre del '43 le truppe tedesche
appiccano il fuoco alla sua casa, limitrofa all'università, e danno fuoco alla
biblioteca (e alle carte di Bakunin); ne scrive disperata la sorella, Sofia
Caccioppoli - madre del grande matematico napoletano Renato. A lui dedica ora
un'affascinante indagine Lorenza Foschini, L'attrito della vita (La nave di
Teseo) dove si racconta tra l'altro della sua grande amicizia con Maria Del Re,
"salita" da Reggio Calabria a Napoli e prima donna professore
incaricato in una disciplina matematica. A lei Renato Caccioppoli invia lettere
deliziose: "Una sbarra di ferro" (la canna della bici di un amico
matematico: sono in gita sui Colli Euganei) "faceva aspro governo della
parte meno appariscente della mia persona". Di seguito, «Mio cugino Aldo
Moro? Tutto sua mamma» di Annachiara Valle, pubblicato sul
settimanale “Famiglia Cristiana” del 13 di marzo ultimo: Alla
«sacra memoria» di sua madre Aldo Moro dedicò il suo primo libro. Era il 1939 e
Fida Maria Stinchi si era spenta da qualche settimana. Il futuro leader
democristiano, appena ventitreenne, aveva dato alle stampe la sua tesi di
laurea sulla Capacità giuridica penale e non aveva potuto fare a meno di
suggellare, in quella dedica, il suo strettissimo legame con la donna,
insegnante e giornalista prima e dedita all'educazione dei suoi cinque figli
poi, che così tanta parte aveva avuto nella sua formazione.«Si
dice che dietro un grande uomo c'è sempre una grande donna. E in genere si
pensa alle mogli», dice oggi Renato Moro, cugino dello statista democristiano e
autore del volume Storia di una maestra del Sud che fu la madre di Aldo Moro,
«ma, come questo libro conferma, bisognerebbe pensare talvolta anche alle
madri. È lei che ha un ruolo decisivo nello sviluppo della personalità e del
carattere dei suoi figli». Cinque in tutto ne erano nati dal suo matrimonio con
Renato. Lei calabrese, lui salentino, entrambi figli di maestri, cosa piuttosto
rara per l'epoca, si erano sposati il 17 febbraio del 1914. Nove mesi dopo era
nato Alberto e poi erano seguiti Aldo, Salvatore, Maria Rosaria, Carlo Alfredo.
Il primo e l'ultimo magistrati, l'unica figlia femmina insegnante delle scuole
superiori, funzionario dell'Inps il terzogenito, erano stati tutti cresciuti
con uno spirito religioso illuminato e devoto, con una visione del mondo
attenta alle classi più disagiate e alla costruzione di una società inclusiva.
Renato Moro, che del nonno porta il nome e della famiglia l'impronta di
studioso attento soprattutto ai movimenti intellettuali del mondo cattolico, in
queste pagine scava nel tessuto della vitadella Calabria dell'epoca, «tra
le regioni con il più alto tasso di analfabetismo», esplora la condizione
femminile di quegli anni e la formazione giovanile di suo zio Aldo. «Anni fa
avevo già scritto un libro su di lui e avevo raccolto le testimonianze dei suoi
fratelli, in primis di mio padre Carlo Alfredo, che mi avevano raccontato
quanta parte avesse avuto mia nonna Fida nel forgiare il suo pensiero. Mi resi
conto, allora, grazie anche alla spinta di mia moglie, che questo capitolo
meritava uno studio a parte, perché faceva luce su uno spaccato della vita del
Paese di cui la Stinchi era stata protagonista. Immaginatela in quegli anni, a
Cosenza, figlia di genitori separati, andare a insegnare a bambini e bambine
altrimenti destinati all'emarginazione e allo sfruttamento, scrivere articoli e
partecipare a dibattiti». Renato Moro, partendo dalle lettere che la nonna
inviava al nonno durante gli anni di fidanzamento e poi raccogliendo una serie
di testimonianze, descrive una giovane che predica e testimonia «l'importanza
per la donna di una indipendenza economica, che non significa però uno strappo
dalla famiglia. Il suo è un "femminismo maternalista" che spinge
all'emancipazione, ma tenendo in massimo conto i figli e la loro educazione.
Non è un caso che il tema più difficile che affrontano i due giovani fidanzati
in vista delle nozze sia proprio quello dell'insegnamento. Fida convinta a
mantenere il suo lavoro, Renato, invece, che vorrebbe che lo lasciasse».
Trasferitasi in Puglia, «la nonna insegnò "lavori donneschi" e, fino
al 1919, continuò a scrivere articoli per la Cronaca di Calabria. In quegli
anni, appena dopo il matrimonio, progetta anche un libro sulla necessità
dell'educazione per le donne. Poi, però, man mano che aumenta il numero dei
figli, sarà costretta a lasciare il lavoro e a dedicarsi alla cura della prole.
Non smette, però, di interessarsi alla vita sociale e politica e di usare le
sue grandi doti di pedagogista anche con i suoi ragazzi». Era infatti convinta
che «le donne avessero un grande ruolo nell'educazione morale e civile del
marito, dei figli, dei parenti, del vicinato, della società tutta», conclude
Renato Moro. Un pensiero che era all'avanguardia in quel Sud dei primi del
Novecento in cui «c'era da insegnare non solo a leggere e a scrivere, ma, come
diceva lei, a pensare, perché solo il pensiero critico può renderci davvero
liberi».
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