Lucio Caracciolo: «Trovo affascinante l'interpretazione della guerra a partire dal paradigma omerico. Siamo però in ambito poetico e la ricostruzione è successiva agli avvenimenti che si presume siano accaduti sul terreno. La narrazione che noi facciamo oggi è tutto fuorché poetica, ed è una narrazione "in tempo reale", contemporanea a ciò che ci fanno vedere che accade sul campo di battaglia. Soprattutto, non avendo il privilegio della visione distaccata degli eventi, se leggiamo la guerra così come ci viene raccontata in tv e sui social abbiamo l'immagine di un quadro puntinista in cui non c'è assolutamente né una visione di insieme né tantomeno una profondità. Siamo nelle due dimensioni, ci sono punti come singoli fatti di cronaca dell'orrore, che non riusciamo a congiungere e che vengono selezionati in base alla capacità di informazione e/o di propaganda delle parti in causa o di chi racconta la guerra. Tutto non al servizio di una rappresentazione dall'alto, e neppure di una rappresentazione dal basso, ma rasoterra, in cui se una persona non ha informazioni precedenti sulle origini, le cause, gli eventi passati, difficilmente riesce a capire qualcosa. Fondamentale nella narrazione è poi la demonizzazione dell’avversario, Sia l'attuale Stato ucraino che lo Stato russo escono di risulta dalla decomposizione dell'impero zarista prima, e dell'unione sovietica poi. La narrazione ignora la complessità, tende piuttosto a demonizzare da una parte dall’altra il nemico, sia l'imperialismo russo che il cosiddetto nazismo ucraino. Mancano tutte le premesse per una narrazione che racconti spiegando, contestualizzando, unendo i puntini. Non possiamo certo pretendere che rinasca Omero, ma il modo in cui stiamo raccontando questa guerra, più di altre, è deviante. E ci lascerà basiti anche davanti al suo esito: perché non spiegato, non previsto. Quale sarà? Non so. Ma non sarà - per usare un termine di Scurati - "decisivo", perché è una guerra con troppa profondità per risolversi con una campagna militare».
Scurati: «Caracciolo usa un termine preso a prestito dalla storia della pittura, "puntinismo", illuminante. E non è in contrasto con ciò che dicevo. Nel senso che, durante tutta la modernità, il paradigma omerico della guerra è stato conte-stato. Penso a Don Chisciotte, romanzo fondativo della modernità europea, che è una parodia dei poemi cavallereschi. O al passo della Certosa di Parma di Stendhal in cui il giovane Fabrizio del Dongo parte alla ricerca di Napoleone, finisce nel mezzo della più grande battaglia di tutti i tempi, Waterloo. Ma in una prospettiva rasoterra, appunto, è talmente frastornato da non capire di trovarsi in battaglia. Cosa accade con la contemporaneità? Prima guerra del Golfo, la notte tra il 18 il 19 gennaio 1991, il paradigma omerico viene riabilitato in maniera surrettizia. Seduti sul divano, a migliaia di chilometri di distanza, abbiamo l'illusione di essere lì perché in quel momento ci viene raccontata la guerra, attraverso immagini poverissime di contenuto informativo - i traccianti della contraerea sul cielo di Baghdad e il corrispondente Peter Arnett nella stanza dell'Al Rashid Hotel che dice: io sono qui, ma di quello che sta accadendo so meno dei miei colleghi nella sede di Atlanta - ma quella diretta genera in noi l'illusione della presenza. La narrazione della guerra è all'insegna della frammentazione. Ma ciò non toglie che il puntinismo dia a noi, guerrieri da salotto, l'illusione della presenza, e della comprensione. Bisogna capire anche quanto sia pregiudicante la demonizzazione dell'avversario. Perché la demonizzazione è reciproca. Pensiamo al paradosso per cui i due contendenti militari si accusano reciprocamente di nazismo, come per gettarsi addosso lo stigma del male assoluto. Ripenso a una delle più importanti teorie politiche della guerra, quella di Carl Schmitt, che li distingueva tra "nemici giusti", ai quali si riconosceva la legittimità a muovere guerra, e l'inimicus in senso ampio, cui non si riconosceva alcuna legittimità: potevi solo sterminarlo o essere sterminato. In questa guerra ci sono solo nemici. Da distruggere».
Scurati: «C'è anche un diverso valore attribuito alla vita umana individuale e un diverso rapporto con la violenza. Noi europei d'Occidente avvertiamo Putin come il nemico della nostra civiltà. L'ipotesi stessa che si possa invadere militarmente un Paese ce lo fa sentire come nemico. Ma anche la disponibilità degli Stati Uniti a inserire questo conflitto nella loro strategia geopolitica, ci risulta estranea. Questo "noi" non si estende sulle due sponde dell'Atlantico ma è molto più circoscritto, abbraccia le nazioni dell'Europa continentale ma probabilmente non arriva neanche fino alla Gran Bretagna. E non sono solo le strategie che non coincidono più, ma anche i valori: siamo più un solo popolo».
È il futuro dell'Europa, che la guerra sta denudando. Scurati: «Dell'Europa vanno ripensati i confini, e non nel senso di continuare ad allargarli ma di rimettere in discussione gli allargamenti degli ultimi decenni. Non può esserci unità politica se non all'interno di una comunità di interessi e di valori. Non può esserci unità politica europea senza una forza militare autonoma. E questa comunità di interessi non può estendersi oltre l'Europa a 17, a 13?... non l'Europa a 27».
Caracciolo: «Su dove passino i confini europei resto dell'idea che dobbiamo affidarci all'acume di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto, che avevano stabilito la frontiera romana tra i fiumi Reno ed Elba, il confine che separava le due Germanie nella guerra fredda. L'ideologia di Putin cammina guardando indietro. Lui non sta facendo altro che riportare la Russia dove doveva stare. Quando ricorda la grande guerra del nord di Pietro il Grande, 1700-1721, non fa solo riferimenti geografici. Dice che sarà una guerra lunga, in continuità con altre con gente etnicamente, culturalmente russa».
Scurati: «Cosa dovremmo fare noi? Rafforzare questo "noi". Guardo con stupore a chi vorrebbe avviare una procedura per l'ingresso dell'Ucraina nell'Europa: sanno quello che fanno? Non dovremmo invece avviare una procedura per estromettere dall'Europa l'Ungheria, la Polonia e quei Paesi che non condividono i principi fondamentali del trattato?».
Caracciolo: «Non credo che la proposta possa essere realizzata in tempi visibili: siamo la parte di mondo più intrisa di identità, culture nazionali e subnazionali. Una delle poche cose positive della guerra è il ricordarci la fortuna di cui godiamo: di vivere in un sistema di libertà e di diritti incommensurabilmente superiori a chi è in un regime, in cui per dire ciò che pensa deve bisbigliare. Teniamolo presente. Non per entrare in una logica di guerra tra democrazia contro tutti, ma per essere consapevoli del privilegio che abbiamo».
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