In fatto di “Scuola” non temiamo rivali. Siamo imbattibili.
Intendo riferirmi a quella spregiudicatezza ed a quella incompetenza di
inventare ed applicare le cosiddette “riforme” a tutto ciò che riguarda quella “benemerita”
istituzione. Ne ha scritto, nella remotissima domenica del 6 di luglio dell’anno
2014, su “il Fatto Quotidiano”, Furio Colombo in “L’ultima del Governo: riforma della scuola a caso”, imperante ed
imperversante, a quel tempo, quell’uomo venuto da Rignano sull’Arno: Sentite
questa: “Taglieremo una delle quattro sedi ministeriali, il Palazzo della
ricerca, all’Eur, oggi in affitto. Ho scoperto che per i 1.200 dipendenti
ministeriali ci sono 80 metri quadrati a testa. Per ogni studente italiano, in
classe, ce ne sono otto”. Autore della dichiarazione (che cito da la
Repubblica, 2 luglio) è il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi.
Nessuno studente la passerebbe liscia, in un tema scolastico, con un simile
salto logico. Infatti a) non sappiamo che cosa è, e che cosa si fa, nel Palazzo
della ricerca e se sia uno spreco o una attività indispensabile, con tutta
quella gente (1.200) che passa le ore di lavoro nella solitudine di vastissime
stanze vuote; b) non sappiamo se il rapporto fra dipendenti e vastità della costruzione
sia dovuto alla precedente spensieratezza di una quarantina di governi, oppure
se il rapporto 80 metri-una persona sia determinato dal fatto che la
costruzione prevede aree vuote per ragioni di progetto (per esempio vastissima
area di ingresso, balconi sproporzionati); impossibile vedere la connessione
fra gli 80 metri di cui godono i perdigiorno che saranno immediatamente aboliti
dal rigoroso sottosegretario, e gli otto metri destinati agli studenti. Il
salto logico è pauroso. Come dire che il problema delle carceri troppo
affollate si risolve abolendo i saloni troppo grandi del ministero della
Giustizia in Via Arenula. Però è un parere autorevole, e i poveri insegnanti
dovranno tenerne conto. Pare che Reggi sia il vero riformatore della nuova scuola
italiana o così ci viene presentato, e lui incoraggia affermando “Ho scoperto…
Che significa una severa ispezione in prima persona in una remota sede
ministeriale all’Eur” (Sud di Roma). Sentite questa. Domanda: “Volete togliere
un anno ai licei?” Risposta: “È un’altra scelta europea. E poi se vuoi fare più
musica, più storia dell’arte e non hai soldi, devi rimodulare quello che hai”.
Quando sia stata compiuta la scelta europea, e se sia vincolante non è detto.
Ma è il concetto che spaventa: se tagli un anno di scuola, hai più soldi, se
hai più soldi, insegni più e meglio per gli anni che ti restano. Inevitabile
una riflessione che sembra sfuggita al riformatore: se invece di un anno se ne
tagliano due, il risparmio permetterebbe ancora più musica e più storia
dell’arte. Dunque con tre anni di meno si raggiungerebbe una scuola
d’eccellenza, anche se resterà qualche ragazzino in più per la strada.
L’affermazione, nel Paese europeo che ha la più alta percentuale di abbandono
scolastico prima del diploma, appare di una leggerezza allarmante. Ma proprio
questo è il tratto tipico del giovane governo Renzi, un tratto che si
ripresenta intatto, dopo le prove di chiarezza, rigore logico e consapevolezza
delle condizioni reali, dimostrate nella riforma del Senato (composto di
sindaci con immunità parlamentare), nella riforma della Pubblica
Amministrazione (mobilità forzata dei dipendenti entro cinquanta chilometri),
nella legge Franceschini (nei musei pagano soltanto i vecchi) e che già si
intravedono nella riforma della Giustizia (soprattutto un bel taglio alle
fastidiose intercettazioni). Sono rappresentazioni che puntano a meravigliare,
con taglio spettacolare in cui deve esserci sempre qualcosa di sorprendente, ma
non necessariamente qualcosa di vero e di utile. Soprattutto nessun rapporto
con fatti e persone e pubblico realmente coinvolti nei settori “riformati”. Ma
nella "Riforma della Scuola" (responsabile il ministro Giannini,
direttore dei lavori il sottosegretario Reggi) ci sono altre cose incredibili
nel senso di radicalmente separati dalla realtà. Uno è che le supplenze saranno
fatte dagli insegnanti già in ruolo e già al lavoro nell'Istituto che ha
bisogno di un supplente. In altre parole, il prof Rossi, se necessario (e se
non vuole essere trasferito, nell'ambito di 50 chilometri) deve insegnare in
Prima A, ma contemporaneamente assumere anche la supplenza della Prima B. Altro
che "fermare l'attimo". Un'altra è che i giorni di scuola passeranno
da 208 a 230. Tutti diranno "bravi! così si studia di più!", dimenticando
che, intanto, viene annunciato il taglio niente meno che di un anno intero di
liceo, perché altrimenti i soldi non bastano per insegnare musica e storia
dell'arte (senza badare al fatto che, nelle scuole italiane, la musica non si
insegna). Tra le "idee nuove" per un nuovo mondo della scuola, c'è
anche il principio che, in teoria, è possibile compensare i docenti che
lavarono di più, pagando qualcosa in più. Non si dice quanto. Si dice però che
la decisione spetta ai dirigenti scolastici. Diventano, in tal modo, depositari
di un arbitrio che promette tempesta. Ma è bene essere preparati alla vera
grande novità: senza soldi e senza supplenti, le scuole non solo funzioneranno
230 giorni e non 208, ma dovranno anche restare aperte dalle ore 7 alle ore 22
di ogni giorno scolastico. Difficile capire che cosa può avere motivato, in un
mondo informato di genitori, insegnanti, cittadini, una affermazione così priva
di ogni possibile rapporto con la realtà. Ma c'è una risposta. Siamo qui a
parlarne. Con l'aiuto dei media, dimenticheremo (salvo le famiglie e gli
insegnanti) questi penosi dettagli e sentiremo dire: beh, dopo tutto hanno
fatto anche la riforma della scuola. E purtroppo ci saranno giornali che
prenderanno, tutto come se fosse possibile, come se fosse vero. Venendo
ai giorni nostri sulla “Scuola” e dintorni è tornato a scriverne Umberto
Galimberti in “Troppe diagnosi per i
nostri ragazzi” pubblicato sull’ultimo numero del settimanale “d” - del quotidiano
“la Repubblica” - del 2 di luglio ultimo: Le sindromi (da) studiare per superare il
concorso sono le etichette che, a partire dalla scuola elementare, in forma di
diagnosi, vengono attribuite a tutti quei ragazzini che hanno qualche
difficoltà nell'apprendimento. Siamo giunti alla patologizzazione della scuola
dove se un bambino è preoccupato è affetto da "sindrome di ansia
generalizzata", se è timido è affetto da "ansia sociale", se è
troppo vivace, se si ribella, se è iperattivo si ricorre addirittura ai
farmaci. Al di là di chi lo è veramente, non sono troppi oggi nelle nostre
scuole i dislessici che fanno fatica a leggere, i disgrafìci a scrivere, gli
affetti da acalculia a far di conto? Siamo sicuri che per molti di loro non sia
sufficiente un po' di esercizio invece di una diagnosi che li marchia? Davvero,
al di là dei casi in cui è indiscutibilmente necessario, è opportuno far
ricorso all'insegnante di sostegno? Quando lo si affianca a un bambino non gli
si fa arrivare come primo messaggio che ha un sé fragile e debole e che nel
corso della sua esistenza avrà sempre bisogno di ricorrere a pratiche
terapeutiche, come i suoi amici che lamentano, stress, ansie, disturbi di ogni
genere, depressioni e perciò vanno dallo psicologo o dall'analista? Nel 1992
James Hillman e Michael Ventura scrissero un libro dal titolo Cent'anni di
psicoterapia. E il mondo va sempre peggio (Cortina) in cui si sostiene che se
la terapia si propone di adattare l'individuo a una società che genera
malessere, finisce per generare ulteriore malessere all'individuo e nella
società. Viviamo infatti in una società caratterizzata
da una sorta di solitudine di massa, che a pandemia ha accentuato, ma che
preesisteva, se è vero che oggi studiare o lavorare significa interfacciarsi a
un computer, parlare a distanza, non staccarsi mai da quella protesi che è il
cellulare. Scenari questi che comportano da un lato forme di de-realizzazione
(viviamo più nel virtuale che nel reale) e dall'altro di de-socializzazione
(perché anche se posso parlare con il mio amico in Australia, poi non conosco
il mio vicino di casa, il compagno di scuola, l'amico del bar). James Hillman
avverte che la psicoanalisi non di rado, concentrando l'attenzione
dell'individuo su se stesso, corre il rischio di accrescere il suo solipsismo,
da cui ci può salvare solo un sentimento comunitario e quella passione civile
che oggi latita, perché, "Io non sono se non in un campo psichico con gli
altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante". In una parola
sono al mondo e non nel chiuso della mia anima autistica. E quando la ferita
non sembra rimarginabile, quando il dolore è intenso al punto da non poter
essere comunicato, anche in questi casi c'è sempre una breccia di
partecipazione che, come diceva Platone, si chiama Amore: "Fra gli dei
l'amico degli uomini, il medico che cerca di medicare l’umana natura". Da
ultimo (…) dico, (…) che "funziona" anche la filosofia, perché
conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie
dell'anima, per nulla le malattie delle idee dalle quali dipende la nostra
visione del mondo, che magari necessita di un cambiamento, e la ricerca di
senso che, sotterraneo e ignorato, sottende la nostra vita a nostra insaputa.
Dove trovare l'una e l'altra cosa se non in quelle proposte di senso in cui
propriamente consiste la filosofia e la letteratura?
"Uno scopo nella vita non si deve cercarlo in terre straniere, ma nel proprio cuore". (Robert Louis Stevenson). "La domanda fondamentale è infatti : qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?". (Erich Fromm). "Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo". (Immanuel Kant). "Quello che conta nella vita non è il semplice fatto che abbiamo vissuto. È il modo, in cui abbiamo fatto la differenza nella vita degli altri, a determinare il significato della vita che conduciamo". (Nelson Mandela). "La vita non è un avere e un prendere, ma un essere e un diventare". (Myrna Loy). "Siamo nati tutti per amare : è il principio dell'esistenza e il suo unico fine". (Benjamin Disraeli). "Nella vita, come nella tavolozza del pittore, non c'è che un solo colore capace di dare significato alla vita e all'arte: il colore dell'amore". (Marc Chagall).Certamente, per dare una risposta a se stessi e scegliere il senso della vita, credo che si potrebbe inseguire sia la motivazione che scaturisce dalla ricerca della conoscenza che quella che fiorisce grazie all'amore... Grazie di cuore per questo meraviglioso post ricchissimo di preziose opportunità di riflessioni. Buona continuazione.
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