"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 5 luglio 2022

Notiziedalbelpaese. 62 Galimberti: «Viviamo in una società caratterizzata da una sorta di solitudine di massa».

In fatto di “Scuola” non temiamo rivali. Siamo imbattibili. Intendo riferirmi a quella spregiudicatezza ed a quella incompetenza di inventare ed applicare le cosiddette “riforme” a tutto ciò che riguarda quella “benemerita” istituzione. Ne ha scritto, nella remotissima domenica del 6 di luglio dell’anno 2014, su “il Fatto Quotidiano”, Furio Colombo in “L’ultima del Governo: riforma della scuola a caso”, imperante ed imperversante, a quel tempo, quell’uomo venuto da Rignano sull’Arno: Sentite questa: “Taglieremo una delle quattro sedi ministeriali, il Palazzo della ricerca, all’Eur, oggi in affitto. Ho scoperto che per i 1.200 dipendenti ministeriali ci sono 80 metri quadrati a testa. Per ogni studente italiano, in classe, ce ne sono otto”. Autore della dichiarazione (che cito da la Repubblica, 2 luglio) è il sottosegretario all’Istruzione Roberto Reggi. Nessuno studente la passerebbe liscia, in un tema scolastico, con un simile salto logico. Infatti a) non sappiamo che cosa è, e che cosa si fa, nel Palazzo della ricerca e se sia uno spreco o una attività indispensabile, con tutta quella gente (1.200) che passa le ore di lavoro nella solitudine di vastissime stanze vuote; b) non sappiamo se il rapporto fra dipendenti e vastità della costruzione sia dovuto alla precedente spensieratezza di una quarantina di governi, oppure se il rapporto 80 metri-una persona sia determinato dal fatto che la costruzione prevede aree vuote per ragioni di progetto (per esempio vastissima area di ingresso, balconi sproporzionati); impossibile vedere la connessione fra gli 80 metri di cui godono i perdigiorno che saranno immediatamente aboliti dal rigoroso sottosegretario, e gli otto metri destinati agli studenti. Il salto logico è pauroso. Come dire che il problema delle carceri troppo affollate si risolve abolendo i saloni troppo grandi del ministero della Giustizia in Via Arenula. Però è un parere autorevole, e i poveri insegnanti dovranno tenerne conto. Pare che Reggi sia il vero riformatore della nuova scuola italiana o così ci viene presentato, e lui incoraggia affermando “Ho scoperto… Che significa una severa ispezione in prima persona in una remota sede ministeriale all’Eur” (Sud di Roma). Sentite questa. Domanda: “Volete togliere un anno ai licei?” Risposta: “È un’altra scelta europea. E poi se vuoi fare più musica, più storia dell’arte e non hai soldi, devi rimodulare quello che hai”. Quando sia stata compiuta la scelta europea, e se sia vincolante non è detto. Ma è il concetto che spaventa: se tagli un anno di scuola, hai più soldi, se hai più soldi, insegni più e meglio per gli anni che ti restano. Inevitabile una riflessione che sembra sfuggita al riformatore: se invece di un anno se ne tagliano due, il risparmio permetterebbe ancora più musica e più storia dell’arte. Dunque con tre anni di meno si raggiungerebbe una scuola d’eccellenza, anche se resterà qualche ragazzino in più per la strada. L’affermazione, nel Paese europeo che ha la più alta percentuale di abbandono scolastico prima del diploma, appare di una leggerezza allarmante. Ma proprio questo è il tratto tipico del giovane governo Renzi, un tratto che si ripresenta intatto, dopo le prove di chiarezza, rigore logico e consapevolezza delle condizioni reali, dimostrate nella riforma del Senato (composto di sindaci con immunità parlamentare), nella riforma della Pubblica Amministrazione (mobilità forzata dei dipendenti entro cinquanta chilometri), nella legge Franceschini (nei musei pagano soltanto i vecchi) e che già si intravedono nella riforma della Giustizia (soprattutto un bel taglio alle fastidiose intercettazioni). Sono rappresentazioni che puntano a meravigliare, con taglio spettacolare in cui deve esserci sempre qualcosa di sorprendente, ma non necessariamente qualcosa di vero e di utile. Soprattutto nessun rapporto con fatti e persone e pubblico realmente coinvolti nei settori “riformati”. Ma nella "Riforma della Scuola" (responsabile il ministro Giannini, direttore dei lavori il sottosegretario Reggi) ci sono altre cose incredibili nel senso di radicalmente separati dalla realtà. Uno è che le supplenze saranno fatte dagli insegnanti già in ruolo e già al lavoro nell'Istituto che ha bisogno di un supplente. In altre parole, il prof Rossi, se necessario (e se non vuole essere trasferito, nell'ambito di 50 chilometri) deve insegnare in Prima A, ma contemporaneamente assumere anche la supplenza della Prima B. Altro che "fermare l'attimo". Un'altra è che i giorni di scuola passeranno da 208 a 230. Tutti diranno "bravi! così si studia di più!", dimenticando che, intanto, viene annunciato il taglio niente meno che di un anno intero di liceo, perché altrimenti i soldi non bastano per insegnare musica e storia dell'arte (senza badare al fatto che, nelle scuole italiane, la musica non si insegna). Tra le "idee nuove" per un nuovo mondo della scuola, c'è anche il principio che, in teoria, è possibile compensare i docenti che lavarono di più, pagando qualcosa in più. Non si dice quanto. Si dice però che la decisione spetta ai dirigenti scolastici. Diventano, in tal modo, depositari di un arbitrio che promette tempesta. Ma è bene essere preparati alla vera grande novità: senza soldi e senza supplenti, le scuole non solo funzioneranno 230 giorni e non 208, ma dovranno anche restare aperte dalle ore 7 alle ore 22 di ogni giorno scolastico. Difficile capire che cosa può avere motivato, in un mondo informato di genitori, insegnanti, cittadini, una affermazione così priva di ogni possibile rapporto con la realtà. Ma c'è una risposta. Siamo qui a parlarne. Con l'aiuto dei media, dimenticheremo (salvo le famiglie e gli insegnanti) questi penosi dettagli e sentiremo dire: beh, dopo tutto hanno fatto anche la riforma della scuola. E purtroppo ci saranno giornali che prenderanno, tutto come se fosse possibile, come se fosse vero. Venendo ai giorni nostri sulla “Scuola” e dintorni è tornato a scriverne Umberto Galimberti in “Troppe diagnosi per i nostri ragazzi” pubblicato sull’ultimo numero del settimanale “d” - del quotidiano “la Repubblica” - del 2 di luglio ultimo: Le sindromi (da) studiare per superare il concorso sono le etichette che, a partire dalla scuola elementare, in forma di diagnosi, vengono attribuite a tutti quei ragazzini che hanno qualche difficoltà nell'apprendimento. Siamo giunti alla patologizzazione della scuola dove se un bambino è preoccupato è affetto da "sindrome di ansia generalizzata", se è timido è affetto da "ansia sociale", se è troppo vivace, se si ribella, se è iperattivo si ricorre addirittura ai farmaci. Al di là di chi lo è veramente, non sono troppi oggi nelle nostre scuole i dislessici che fanno fatica a leggere, i disgrafìci a scrivere, gli affetti da acalculia a far di conto? Siamo sicuri che per molti di loro non sia sufficiente un po' di esercizio invece di una diagnosi che li marchia? Davvero, al di là dei casi in cui è indiscutibilmente necessario, è opportuno far ricorso all'insegnante di sostegno? Quando lo si affianca a un bambino non gli si fa arrivare come primo messaggio che ha un sé fragile e debole e che nel corso della sua esistenza avrà sempre bisogno di ricorrere a pratiche terapeutiche, come i suoi amici che lamentano, stress, ansie, disturbi di ogni genere, depressioni e perciò vanno dallo psicologo o dall'analista? Nel 1992 James Hillman e Michael Ventura scrissero un libro dal titolo Cent'anni di psicoterapia. E il mondo va sempre peggio (Cortina) in cui si sostiene che se la terapia si propone di adattare l'individuo a una società che genera malessere, finisce per generare ulteriore malessere all'individuo e nella società. Viviamo infatti in una società caratterizzata da una sorta di solitudine di massa, che a pandemia ha accentuato, ma che preesisteva, se è vero che oggi studiare o lavorare significa interfacciarsi a un computer, parlare a distanza, non staccarsi mai da quella protesi che è il cellulare. Scenari questi che comportano da un lato forme di de-realizzazione (viviamo più nel virtuale che nel reale) e dall'altro di de-socializzazione (perché anche se posso parlare con il mio amico in Australia, poi non conosco il mio vicino di casa, il compagno di scuola, l'amico del bar). James Hillman avverte che la psicoanalisi non di rado, concentrando l'attenzione dell'individuo su se stesso, corre il rischio di accrescere il suo solipsismo, da cui ci può salvare solo un sentimento comunitario e quella passione civile che oggi latita, perché, "Io non sono se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante". In una parola sono al mondo e non nel chiuso della mia anima autistica. E quando la ferita non sembra rimarginabile, quando il dolore è intenso al punto da non poter essere comunicato, anche in questi casi c'è sempre una breccia di partecipazione che, come diceva Platone, si chiama Amore: "Fra gli dei l'amico degli uomini, il medico che cerca di medicare l’umana natura". Da ultimo (…) dico, (…) che "funziona" anche la filosofia, perché conosciamo le malattie del corpo, con qualche difficoltà le malattie dell'anima, per nulla le malattie delle idee dalle quali dipende la nostra visione del mondo, che magari necessita di un cambiamento, e la ricerca di senso che, sotterraneo e ignorato, sottende la nostra vita a nostra insaputa. Dove trovare l'una e l'altra cosa se non in quelle proposte di senso in cui propriamente consiste la filosofia e la letteratura?

1 commento:

  1. "Uno scopo nella vita non si deve cercarlo in terre straniere, ma nel proprio cuore". (Robert Louis Stevenson). "La domanda fondamentale è infatti : qual è lo scopo della vita? Diventare più umani o produrre di più?". (Erich Fromm). "Agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come scopo, e mai come semplice mezzo". (Immanuel Kant). "Quello che conta nella vita non è il semplice fatto che abbiamo vissuto. È il modo, in cui abbiamo fatto la differenza nella vita degli altri, a determinare il significato della vita che conduciamo". (Nelson Mandela). "La vita non è un avere e un prendere, ma un essere e un diventare". (Myrna Loy). "Siamo nati tutti per amare : è il principio dell'esistenza e il suo unico fine". (Benjamin Disraeli). "Nella vita, come nella tavolozza del pittore, non c'è che un solo colore capace di dare significato alla vita e all'arte: il colore dell'amore". (Marc Chagall).Certamente, per dare una risposta a se stessi e scegliere il senso della vita, credo che si potrebbe inseguire sia la motivazione che scaturisce dalla ricerca della conoscenza che quella che fiorisce grazie all'amore... Grazie di cuore per questo meraviglioso post ricchissimo di preziose opportunità di riflessioni. Buona continuazione.

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