Scrive M. G. lettrice del settimanale “L’Espresso”
del 3 di luglio 2022, che ne riporta la lettera “Se gli allarmi restano inascoltati”: (…), che pena vedere certi video
e leggere certi articoli e guardare certi tg. Come se il mondo si fosse
d'improvviso svegliato da piedi. Ammoniscono ormai da tutte le parti: mancherà
il gas, l'elettricità e persino l'acqua. Ci illustrano la siccità e le
temperature altissime di questi giorni. E tutti gli allarmi dei climatologi da
decenni, terra di nessuno. I politici pensano alle prossime elezioni, a come
risollevarsi dalle batoste quelli che le hanno subite, a come sfruttare il
momento chi ha visto lievitare i consensi. Come Giorgia Meloni. L'ho vista
sbraitare in Spagna in un video. E ho visto anche Putin che parla di fine di
un'epoca e che gli Usa non sono i padroni del mondo. E poi vedo Zelensky che
accoglie Boris Johnson a Kiev. Loro due insieme sembrano un cartone animato.
Zelensky ha lo sguardo stanco e sfiduciato, mentre Boris ha l’aria di un
sopravvissuto all'attacco di una tribù di Apache. Di Maio contro Conte, Conte
contro Draghi, Letta che parla di campi larghi o larghissimi e Salvini che
paventa la leadership di una donna della destra che sembrava in mano sua e gli
è scappata come un bambino ai giardinetti. Solo papa Francesco sembra
ottimista, gli altri hanno facce da funerale che basta guardarli per sentirsi
salire l'attacco di panico. E il nostro ministro della Salute che si è preso il
Covid con tutta la mascherina che avrà portato anche quando stava da solo e le
quattro dosi che si sarà fatto. E noi? Da che parte ci giriamo? C'è
l'inflazione i risparmi prendono il volo, in che investiamo? In libri rari? È
appena passata l'ennesima norma che toglie le mascherine quasi ovunque e ci
avvertono che i contagi salgono. Evviva. E la guerra continua in Ucraina ma
ormai sembra che non faccia neppure più notizia. Ebbene, anche questa
volta ho inserito il post nella sezione “virale” confermando la meritoria impresa
del “virus” uomo nella micidiale azione di distruzione di Madre Terra. Un’azione
continua e senza tentennamenti stante la improrogabile necessità di consumare e
consumare tutte quelle ricorse che Madre Terra ha immeritatamente consegnato al
“virus” umano. Si ha memoria di cosa sia stato il “Club di Roma” nel presagire le terribili giornate di questa afosissima
estate? Che saranno tutte le estati a venire. Ma il “virus” uomo è un
corpaccione smodato senza memoria. Basterebbe una occhiatina su “Wikipedia” per
scoprire che il “Club di Roma” è ben datato poiché “fu fondato nell'aprile del 1968
dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander
King, insieme a premi Nobel e leader politici e intellettuali fra cui Elisabeth
Mann Borgese. Il nome del gruppo nasce dal fatto che la prima riunione si
svolse a Roma, presso la sede dell'Accademia dei Lincei alla Villa Farnesina. Conquistò
l'attenzione dell'opinione pubblica con il suo Rapporto sui limiti dello
sviluppo, meglio noto come Rapporto Meadows, pubblicato nel 1972, il quale
prediceva che la crescita economica non potesse continuare indefinitamente a
causa della limitata disponibilità di risorse naturali, specialmente petrolio,
e della limitata capacità di assorbimento degli inquinanti da parte del pianeta
[…]. La crisi petrolifera del 1973 attirò ulteriormente l'attenzione
dell'opinione pubblica su questo problema. In realtà le previsioni del rapporto
riguardo al progressivo esaurimento delle risorse del pianeta erano tutte
relative a momenti successivi al primo ventennio del XXI secolo, ma il
superamento della crisi petrolifera degli anni settanta contribuì alla nascita
dell'opinione secondo cui le previsioni del Club di Roma non si sarebbero
avverate. Nella pratica, l'andamento dei principali indicatori ha sinora
seguito piuttosto bene quanto previsto nel Rapporto sui limiti dello sviluppo,
e l'umanità è destinata a confrontarsi nei prossimi decenni con le conseguenze
del superamento dei limiti fisici del pianeta […]. (…)”. Ha ben ragione
Michele Serra quando in “Tutti giù per
Terra”, pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 15 di luglio
ultimo, scrive: (…), temo proprio che ad essere “misantropa” sarà la nostra amata madre
Gea. Si scrollerà di dosso buona parte del genere umano attraverso epidemie,
catastrofi climatiche, guerre per l’acqua e per le risorse energetiche. La fiducia
nella tecnologia ci assiste ma, se portata a Fede, è proprio lei che ci
dannerà: illudersi che la soluzione di ogni male sia tecnologica porta a non
azzardare alcuna soluzione politica. Ridurre i consumi? Nessun governo oserà
mai farlo per il terrore di perdere voti, e alla fine sarà più probabile la
riduzione dei consumatori. Controllo delle nascite? Non c’è religione che non
lo consideri blasfemo, e dunque saremo presto dieci miliardi, con un’impronta
ambientale micidiale, perché è ovvio che tutti debbano mangiare, viaggiare,
vestirsi. Non sono misantropo e anzi mi sento, e sono, un animale sociale. Una
Terra senza uomini, governata da bacarozzi e corvi, con tutto il rispetto per
entrambe le genìe, non rientra tra le mie distopie preferite. Ma in termini di
riequilibrio ambientale, non mi sento di essere ottimista. Troppo in là si è
spinto l’impulso a produrre e consumare ben più di quanto ci sia necessario per
vivere, e lo dico senza voler dare lezioncine; lo dico guardando anche a me
stesso. Le merci non sono più necessità, sono feticcio. Ribaltare il paradigma
che governa il mondo, e cioè puntare alla qualità, non più alla quantità, mi
sembra la più grande delle utopie. Ma spero tanto di sbagliarmi. (…). Ha
riportato il settimanale “L’Espresso”, nel suo ultimo numero del 17 di luglio, due
straordinari, struggenti racconti della scrittrice messicana Guadalupe Nettel, “Due
cartoline del nostro tempo”.
“Prima
cartolina”. Poche volte ho sentito la mancanza della natura come durante i mesi che
ho passato confinata a Città del Messico dal Covid. Poche volte ho sentito di
più la mancanza del mare, della montagna, della campagna. Immagino che questa
sensazione mi accomuni a molte persone. L'estate scorsa sono stata con i miei
figli e il mio compagno nei boschi dell'Oregon. Una coppia di amici che nel
2020 ha campeggiato per più di trecento giorni si è offerta di iniziarci
all'arte di dormire per più notti in mezzo alla natura, cosa che, come sa
qualunque cittadino che ci abbia provato, è meno semplice di quanto sembri.
Bisogna sbarazzarsi di molte abitudini, di molte manie e nevrosi, per scoprire
che in realtà gli oggetti che ci sembrano imprescindibili, cellulare compreso,
non sono così necessari. Nel posto in cui ci siamo accampati la vita straripava
in ogni pianta, dimora di decine di insetti. Abbiamo visto un alce e diversi
cerbiatti, conigli, procioni, uccelli canterini, insetti di tutte le
dimensioni, che splendevano come piccoli gioielli volanti. L'acqua del fiume
era potabile, ma anche talmente limpida che sul fondale si vedevano nuotare i
pesciolini colorati. Una mattina siamo andati a camminare in montagna, in un
luogo che si poteva raggiungere soltanto a piedi, dopo aver attraversato il
fiume. Un luogo visitato di rado dagli esseri umani. Volevamo andare a
raccogliere i funghi. I funghi Reishi e Coda di tacchino, ci hanno spiegato, si
sono rivelati utilissimi nella cura di malattie come il cancro, perché
contribuiscono a rigenerare i tessuti. Sono più efficaci quando si raccolgono
in boschi isolati, lontani da qualunque agente contaminante. Quella mattina mi
è sembrato logico partire alla ricerca di una medicina o dell'elisir della vita
in luoghi preservati, dove la natura è ancora intatta. I luoghi dove nessuno ne
ha ancora abusato sono quelli in cui la madre terra esprime tutto il suo
potere. I funghi, lo sanno tutti, si nutrono di organismi in decomposizione.
Sono i grandi riciclatori, alchimisti capaci di trasformare la morte in vita,
un po' come il dottor Frankenstein che cercava di animare una creatura creata
con pezzi di cadaveri diversi, ma senza tecnologia. I funghi assumono forme e
comportamenti di ogni genere. Per me sono le macchie verdi che crescono sul
pane, usate per produrre gli antibiotici, ma anche tutti gli altri esseri che
fanno risorgere la vita o la mantengono quando il mondo sembra soccombere
all'entropia. Le amiche di mia madre che badavano a me e a mio fratello quando
lei era malata o in viaggio erano funghi, a modo loro. Sono funghi anche i
giovani che si sono organizzati spontaneamente per estrarre le vittime dalle
macerie durante il terremoto che ha devastato Città del Messico nel 2017; i
medici e gli infermieri che hanno messo a repentaglio la propria vita
assistendo i malati di Covid quando nessuno era vaccinato. I bambini e gli
studenti che hanno sopportato stoicamente la reclusione di mesi e mesi per
evitare che gli anziani si contagiassero durante la pandemia. Vorrei, come
molte altre persone, lasciare ai miei figli e alla loro generazione un pianeta pulito,
un luogo sano, insegnare loro ad avere un rapporto armonioso con la natura.
Vorrei dire loro che è importante preservarla e difenderla, ma se il nostro
mondo dovesse finire prima che questo accada, vorrei incoraggiarli anche a
essere come i funghi che trasformano la putrefazione in vita. E - visto che la
storia è una spirale - vorrei trasmettere loro la certezza che dalle macerie
rinasceranno sempre gli alberi, il muschio, il micelio, l'arte, la poesia e
altre cose belle.
“Seconda cartolina”.
Dice
la leggenda che la città maya di Uxmal fu costruita in una notte da un esercito
di folletti, gli aluxes. Le rovine della città si possono visitare e danno l'idea
di quanto fosse magnifico questo luogo, con terrazzamenti e piramidi in cui
vivevano fianco a fianco sacerdoti, guerrieri, studenti di medicina e di
astronomia, sportivi e alcune famiglie. Per edificare la sontuosa città fu
necessario abbattere gli alberi presenti nei boschi circostanti. Il legno fu
utilizzato per sculture, panche, parapetti e abitazioni, ma anche all'interno
dei templi dedicati a Chaac, il dio della pioggia. Tuttavia, nonostante le
offerte - recipienti d'oro e di giada, copricapo con piume di quetzal, riserve
di ortaggi e granaglie - nonostante gli innumerevoli sacrifici di splendidi
animali e fiere vergini fatti in suo nome, il dio della pioggia non concesse
mai i propri favori agli abitanti di Uxmal. Forse non per disprezzo, come
credevano loro, ma perché neanche un dio può produrre la pioggia dove gli
alberi sono stati decimati. Gli abitanti dovettero abbandonare tre volte la
città per via delle prolungate siccità. Oxmal significa "costruita tre
volte" in lingua maya. Eppure altri sostengono che l'origine etimologica
del nome sia nel vocabolo Uch, che significa "futuro". Uchmal sarebbe
dunque "ciò che deve arrivare". Basandosi sulle stelle, i maya
predissero che l'apocalisse sarebbe giunta nel secondo millennio, ma si
sbagliavano: il loro mondo finì molto prima, con lo sbarco degli spagnoli, le malattie
sconosciute che portarono e il genocidio che intrapresero ai danni dei nativi
americani. In realtà il mondo, a causa di invasioni o di grandi catastrofi
naturali, è già finito per molti popoli, che tuttavia continuano a esistere. E
proprio loro posseggono le chiavi della sopravvivenza. In una sua poesia
Octavio Paz dice che la storia è circolare o, per meglio dire, una spirale che
ripete il suo corso ininterrottamente. Un paio di anni fa il governo messicano
ha avviato la costruzione di una ferrovia che attraverserà la foresta dello
Yucatan per ricavarne legno ed estrarre altre materie prime, soprattutto
carbone e petrolio. «Ciò che deve accadere» è esattamente ciò che successe agli
abitanti di Uxmal, ma su vasta scala, perché l'abbattimento di alberi in quella
zona contribuirà alla desertificazione del territorio maya e al riscaldamento
di tutto il pianeta.
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