Ha lasciato scritto Kahlil Gibran (Bsharre, 6 di gennaio
dell’anno 1883 – New York, 11 di aprile dell’anno 1931) in “Il Profeta”: “E un giovane disse: parlaci dell’amicizia. Ed
egli rispose: l’amico è il vostro bisogno corrisposto. È il campo che seminate
con amore e mietete rendendo grazie. È la vostra mensa e il vostro focolare. Perché
a lui giungete affamati e in cerca di pace. Quando l’amico vi dice quel che
pensa, non abbiate timore di dire il no, o il sì, che sono nella vostra mente. E
quand’è silenzioso, il vostro cuore non cessi di ascoltare il suo cuore;
giacché nell’amicizia, senza parlare, tutti i pensieri e desideri e aspettative
nascono e vengono condivisi con gioia non acclamata. Quando lasciate l’amico,
non rattristatevi; perché ciò che più amate in lui può sembrarvi più chiaro
durante la sua assenza, come la montagna allo scalatore appare più nitida dal
piano. E fate che nell’amicizia non vi sia altro fine, se non l’approfondimento
dello spirito. (…)”. Di seguito,
“L’amicizia. L’unico spazio che ci
resta per un residuo di sincerità” di Umberto Galimberti, letto –
su cortese segnalazione dell’amica carissima Agnese A. – sul sito della CasaEditrice Feltrinelli: L’amicizia. O solitudini di massa, ciascuno
davanti al suo computer, vittime di bulimia informatica per non perdere neppure
un frammento di mondo, o adunate di massa in occasione di concerti, o davanti a
maxi-schermi per le partite di calcio, o in piazza San Pietro ad applaudire
parole di fede o di speranza, ma non più l’amicizia, che è quel rapporto duale
che evita alla solitudine di impazzire e alla gran massa di affogarci. Oggi
‟amicizia” è diventata una parola che cataloga amori che non si vogliono
svelare, rapporti coniugali resi esangui dalla quotidianità, conoscenze utili a
scambi di favori, relazioni ipocrite che un giorno possono rivelarsi
vantaggiose. Nulla di più, nulla di autentico, ma soprattutto nulla che possa
dare espressione a quel bisogno di narrazione, di racconto, di immaginazione,
di allusione, di cui si nutre la nostra anima quando nei fatti vuol trovare dei
significati, nel dolore un argine, nella gioia una comunicazione, nella
monotonia della ripetizione un lampo di novità. Tutto ciò non è possibile nella
solitudine dove il dolore dilaga e la gioia resta inespressa, e neppure nella
gran massa che concede espressione solo all’applauso o allo slogan, ma
unicamente nell’amicizia, dove la parola si fa affabulatoria, immaginifica,
confidenziale, segreta e soprattutto fuoriesce dalla ‟concretezza”, oggi da
tutti invocata ed eretta a valore, che altro non è se non un limitarsi del
linguaggio, un controllo delle parole, uno stare ai fatti, come richiede il
‟sano realismo” degli uomini di poche parole, a cui non verrebbe mai in mente
di chiedere alla luna ‟che ci fa in cielo” o a se stessi ‟che ci fanno qui
sulla terra”. In solitudine queste domande restano inespresse o soffocate. In
mezzo alla gente che quotidianamente frequentiamo possono generare qualche
sospetto, perché sono domande troppo cariche di senso per poterlo esplorare in
solitudine, e troppo fuori dall’usuale per poter essere accolte in pubblico
come domande ‟serie”. Eppure queste sono le domande di cui si nutre l’anima,
domande poco realistiche ma cariche di simbolismo, per dare spazio alle quali
gli antichi greci, accanto al singolare e al plurale, avevano inventato il
‟duale”, che è lo spazio dell’amicizia, dove ogni parola che rinvia a
un’eccedenza di senso non rischia di apparire parola folle, perché l’ascolto
dell’amico non è solo un ascolto razionale, ma aperto a tutti gli sconfinamenti
di senso, che è prerogativa del cuore. Ma dove trovare il tempo? Si
giustificano i più. Non a caso l’amicizia è diffusa tra i giovani che hanno a
disposizione tanto tempo, e riprende in età senile quando non si ha null’altro
a disposizione che il tempo. Ma che dire di una cultura che concepisce
l’amicizia come una ‟perdita di tempo”? Non inganniamoci. Non è il tempo che ci
manca, è la capacità di stare l’uno con l’altro in quella forma intermedia che
non è la fusione dell’amore e neppure l’anonimato dei rapporti impersonali
perché solo funzionali, è la capacità di muoverci in quella zona di confine tra
le prescrizioni della ragione e quegli sprazzi di follia che di continuo
attraversano la nostra anima e che solo l’amicizia sa accogliere. Perché
proibirci questo spazio? Quale spietata tirannide ci impone di stare ai fatti e
a nient’altro che ai fatti? Tra l’anonimato del pubblico e la solitudine del
privato vogliamo conservare quello spazio intermedio, propiziato dall’amicizia,
che ricuce quella dissociazione a cui la nostra cultura ci costringe quando ci
obbliga a non essere mai in pubblico quel che veramente siamo, e a vergognarci
un po’in privato delle nostre pubbliche performance. Tuteliamo l’amicizia.
Forse è l’unico spazio che ci rimane per un residuo di sincerità, una sorta di
riunificazione con noi stessi dalla dissociazione che ci è imposta, una forma
di autoriconoscimento secondo quel modulo che Platone ci indica là dove dice:
‟Se uno, con la parte migliore del suo occhio guarda la parte migliore
dell’occhio dell’amico, vede se stesso”. A meno che ciascuno non sia diventato
per se stesso il maggior ingombro da evitare, qualcuno con cui non si sa che
rapporti avere, qualcuno da evitare, quando non da affogare con le cose da
fare, per non trovarci mai a tu per tu con questo sconosciuto che lo sguardo
accogliente dell’amico potrebbe incominciare a raccontare, a delinearne i
contorni, a propiziarci l’incontro. È infatti la scoperta di noi quello che
l’amicizia favorisce e propizia.
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