«Calenda, il tatuato della “Roma bene” rimasto in cameretta», testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, venerdì 21 di novembre 2025: Carlo Calenda vuole disperatamente essere preso sul serio, ma fa di tutto per rendersi ridicolo. Ha appena proposto di alzare uno “scudo democratico europeo” per proteggere il voto degli elettori contro le ingerenze di Russia e Cina. Come? Con apposita commissione che salvi le informazioni vere e bombardi quelle false, proprio come in Russia e in Cina: un capolavoro. Ma il meglio l’ha fatto sulla sua propria pelle. Con formidabile tempismo, mentre da Kiev andavano in onda le immagini dei cessi d’oro e dei bancali di euro rubati ai soldati ucraini che al fronte buttano il sangue, Carletto ha mostrato in tv un minuscolo tridente tatuato sul polso sinistro che sembra quello della Maserati. Invece no: “È il simbolo del principato dell’Ucraina”, ha spiegato con una certa fierezza, lasciando intendere di avere anche sofferto per quel centimetro quadrato di pelle coraggiosamente inciso: “È il mio modo di dirmi vicino a chi ha un disperato bisogno di aiuto”. Intendendo di sicuro il popolo ucraino. Ma forse anche lui, poveraccio. Se è vero come è vero che da quando bazzica il defatigante cabaret Voltaire della politica – un po’ a sinistra, un po’ a destra, di solito al centro, svuotandolo – nessuno straccio di amico, moglie, mamma, prete, santone o almeno uno psichiatra gli abbia ancora suggerito di smettere di farsi del male. Scendere dalla giostra, scegliersi un Ashram con sostanze adeguate, dormire, forse sognare. Invece niente. In una ventina d’anni di psico-peripezie, la sua è diventata una odissea da mal di testa. Partito che fu dalla Roma bene, si tuffa nelle spiagge della sinistra, transita in Confindustria, suo mentore Luca Cordero di Montezemolo, compagno di scuola di babbo, che lo accomoda a vendere Ferrari. Procede in Confindustria dove partecipa al think tank di “Italia futura”, un serbatoio di pensieri che evapora senza lasciare traccia, tranne un bel po’ di stipendi. Approda al loden di Mario Monti, “Scelta civica”, che è un po’ il Circolo della Pipa della politica, con una manciata di riccastri come Ilaria Borletti Buitoni, Stefania Giannini, l’insonne Montezemolo, l’eterno Pier Furby Casini. Arrivando pomposi e infiocchettati alle elezioni del 2013, vanno a fondo tra litigi e ripicche. Carletto odia i 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini. A ondate la destra di Berlusconi che non lo prende mai sul serio. Dunque rimasto senza patria, cerca di nuovo una sponda a sinistra. Lancia il manifesto “Siamo europei”. E dichiarando “ho sempre votato Pd”, chiede asilo politico nel blando manicomio democratico diretto da Nicola Zingaretti. Gli danno talmente spago che per tre volte di seguito Calenda sale al governo, con Enrico Letta e Matteo Renzi da sottosegretario allo Sviluppo economico. Con Paolo Gentiloni addirittura da ministro. Consapevole del suo alto sapere manageriale palleggia tra 150 crisi industriali, dall’Ilva all’Alitalia, passando per Fincantieri. Ne lascia a bordo campo 162. In vista delle elezioni europee chiede e (incredibilmente) ottiene un posto a Bruxelles. Siamo nel 2019. Incassa l’elezione. Ringrazia. Due mesi dopo ripaga la fiducia, uscendo dal Partito democratico per fondare “Azione!” con il punto esclamativo che sembra uno sberleffo, il gesto dell’ombrello stilizzato. Da lì in poi iniziano i giri di giostra con Matteo Renzi, prima alleati, pronti a fondersi, poi nemici, pronti a menarsi. Entrambi sognano il centro tavola della politica. Con la sinistra e la destra che se li contendono e se li rinfacciano nei momenti di stanca. Renzi, zufolando, monetizza con le conferenze in giro per gli Emirati. Calenda intigna, presidia i talk, litiga, minaccia. Talvolta anche sé stesso: “Se mi candidassi a sindaco di Roma sarei un vero cialtrone!”. Poi fa il contrario, candidandosi contro Roberto Gualtieri, giudicato “incompetente e inutile”. Punta tutto sulle signore di Roma centro, che hanno un debole per il suo eloquio e il suo ciuffo, ma purtroppo non sono abbastanza numerose per vincere. La polemica e il risentimento tornano a essere il suo pane quotidiano. Ne ha per tutti. “Quella del Pd è una leadership svogliata”. “Renzi e Zingaretti sono riformisti rammolliti”. Il sindacato? “Populisti”. Confindustria? “Condannata all’irrilevanza”. Giuseppe Conte? “È un avvocato di provincia capitato lì per caso”. Giorgia Meloni? “Una semifascista”. Gli italiani? Sono “inconsapevoli”, anzi “ignoranti”. Per curarli ha una sua “soluzione ardimentosa”. Che sarebbe? “Far loro dei corsi sulla complessità”.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".
sabato 22 novembre 2025
MadeinItaly. 67 Pino Corrias: «Carletto ha mostrato in tv un minuscolo tridente tatuato sul polso sinistro che sembra quello della Maserati. Invece no: “È il simbolo del principato dell’Ucraina”, ha spiegato con una certa fierezza».
Il signor Gogol' ha raccontato la storia di un naso di Leningrado,
che se ne andava a spasso in carrozza e ne combinava di tutti i colori. Una
storia del genere è accaduta a Laveno, sul Lago Maggiore. Una mattina un
signore che abitava proprio di fronte al pontile dove si prendono i battelli si
alzò, andò in bagno per farsi la barba e nel guardarsi allo specchio gridò: -
Aiuto! Il mio naso! Il naso, in mezzo alla faccia, non c'era più, al suo posto
c'era tutto un liscio. Quel signore, in vestaglia come stava, corse sul balcone,
giusto in tempo per vedere il naso che usciva sulla piazza e si avviava di buon
passo verso il pontile, sgusciando tra le automobili che si stavano imbarcando
sulla motonave traghetto per Verbania. - Ferma, ferma! - gridò il signore. - Il
mio naso! Al ladro, al ladro! La gente guardava in su e rideva: - Le hanno
rubato il naso e le hanno lasciato la zucca? Brutto affare. A quel signore non
rimase che scendere in strada e inseguire il fuggitivo, e intanto si teneva un
fazzoletto davanti alla faccia come se avesse il raffreddore. Purtroppo arrivò
appena in tempo per vedere il battello che si staccava dal pontile. Il signore
si buttò coraggiosamente in acqua per raggiungerlo, mentre passeggeri e turisti
gridavano: Forza' Forza! Ma il battello aveva già preso velocità e il capitano
non aveva nessuna intenzione di tornare indietro per imbarcare i ritardatari. -
Aspetti l'altro traghetto, - gridò un marinaio a quel signore, - ce n'è uno
ogni mezz'ora! Il signore, scoraggiato, stava tornando a riva quando vide il
suo naso che, steso sull'acqua un mantello, come San Giulio nella leggenda,
navigava a piccola velocità. - Dunque non hai preso il battello? È stata tutta
una finta? - gridò quel signore. Il naso guardava fisso davanti a sé, come un
vecchio lupo di lago, e non si degnò neanche di voltarsi. Il mantello
ondeggiava dolcemente come una medusa. - Ma dove vai? - gridò il signore. Il
naso non rispose, e il suo disgraziato padrone si rassegnò a raggiungere il
porto di Laveno e a passare in mezzo a una folla di curiosi per tornare a casa,
dove si tappò, dando ordine alla domestica di non lasciar entrare nessuno, e
passava il tempo a guardarsi nello specchio la faccia senza naso. Qualche
giorno dopo un pescatore di Ranco, tirando su la rete, ci trovò il naso
fuggitivo, che aveva fatto naufragio in mezzo al lago perché il mantello era
pieno di buchi, e pensò di portarselo al mercato di Laveno. La serva di quel
signore, che era andata al mercato per comprare il pesce, vide subito il naso,
esposto in bella vista in mezzo alle tinche e ai lucci. - Ma questo è il naso
del mio padrone! - esclamò inorridita. - Datemelo subito che glielo porto. - Di
chi sia non so, - dichiarò il pescatore, - io l'ho pescato e lo vendo. - A
quanto? - A peso d'oro, si sa. È un naso, non è mica un pesce persico. La
domestica corse a informare il suo padrone. Dàgli quello che domanda' Voglio il
mio naso! La domestica fece il conto che ci voleva un sacco di denaro, perché
il naso era piuttosto grosso: ci volevano tremendamila lire, tredici tredicioni
e mezzo. Per mettere insieme la somma dovette vendere anche i suoi orecchini,
ma siccome era molto affezionata al suo padrone li sacrificò con un sospiro. Comprò
il naso, lo avvolse in un fazzoletto e lo portò a casa. Il naso si lasciò
ricondurre buono buono, e non si ribellò nemmeno quando il suo padrone lo
accolse tra le mani tremanti. - Ma perché sei scappato? Che cosa ti avevo
fatto? Il naso lo guardò di traverso, arricciandosi tutto per il disgusto, e
disse: - Senti, non metterti mai più le dita nel naso. O almeno tagliati le
unghie. (“Il naso che scappa” di Gianni Rodari, racconto
riportato nella raccolta “Il gatto viaggiatore e altre storie” – 1990 –
pubblicato da l’Unità/Editori Riuniti).
Qualche
volta prova persino a incontrarli, gli italiani. Celebre – nell’ottobre del
2023 – quando riuscì da solo a mettere in fuga una intera fabbrica, quella
della Magneti Marelli, solo presentandosi ai cancelli con un suadente “Voglio
parlare con voi, fermi…”. Ma quelli niente, gambe in spalla man mano che lui si
avvicinava e addirittura provava a inseguirli: “Davvero non mi volete parlare?
Dove andate? Vi pare un buon metodo?”. Il tutto immortalato da impietose
telecamere come ai tempi indimenticabili dello Specchio segreto di Nanni Loy e
più recentemente dalle fanta-cronache di Maurizio Crozza. C’è un prima che
forse spiega il marasma del dopo. Carletto nasce nella bambagia, nonna
principessa di Partanna, nonno ambasciatore. Il babbo fa il giornalista. La
mamma, Cristina Comencini, regista per il cinema sull’onda del padre, il grande
Luigi. A 16 anni, in piena adolescenza, Carletto fa il guaio. Mette incinta la
segretaria del patrigno, interrompe il liceo Mamiani, sprofonda nella vita vera
del ragazzo padre. Ma dedicandosi “con serietà” della crescita della figlia
Tay, si azzuffa con la propria. E invece di elaborare il colpo di scena
esistenziale, reagisce facendosi mangiare il tempo dalla fretta. Il panico
delle incombenze fa il resto, rendendolo fumantino nel carattere, ondivago
nelle decisioni, instabile persino nella propria estetica: a ondate magro, poi
grasso, con barba, senza barba, con giacca e cravatta, sbrindellato in Lacoste
sudata, perplesso in costume da bagno, con la panza e l’ombelico di fuori.
L’aria sempre imbronciata del cacciatore contemporaneamente di farfalle e di
nemici mortali. Compatisce i pacifisti, “ragazzi inconsapevoli”. Critica
Israele, ma con tutti i distinguo del caso. In compenso odia Putin, il bugiardo
aggressore. Chiede a gran voce il muro di droni e il porcospino d’acciaio.
Crede sul serio che “ogni euro investito in difesa, allontani la guerra”.
Pretende più armi persino del ministro Guido Crosetto che negli arsenali ci fa
il bagno da una vita. Ora che si è tatuato, Carletto si prepara alla guerra
contro la disinformazione di tutte le dittature. Prima o poi si alzerà anche
lui in volo. Proprio come faceva tanto tempo fa nella sua bella cameretta
d’infanzia.
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