A lato. "Today's Life and War" (2008), foto di Gohar Dashti.
Ha scritto Tomaso Montanari in “Un tè nel deserto” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 6 di maggio 2022:
(…). …ha dichiarato Dashti (l’artista
iraniana Gohar Dashti n.d.r.). «Sono nata durante i primi anni della rivoluzione
islamica in Iran e la mia infanzia l'ho trascorsa durante la sanguinosa guerra Iran-Iraq.
Ho vissuto con la mia famiglia a Ahwaz, vicino al confine con l'Iraq. Pertanto
sono cresciuta con la guerra. Crescere durante la guerra ha costretto me e la
mia generazione a vivere costantemente in uno stato di tensione. Tutto è un
ricordo della guerra. Il profondo impatto che la guerra ha avuto nella mia vita
e in quello della mia generazione rimane sino a oggi. La guerra e la vita sono
inseparabili e procedono in parallelo». Di quante guerre ci siamo dimenticati?
Di quanti popoli massacrati dalla guerra non ci curiamo - forse perché non sono
cristiani, bianchi e biondi come noi? La guerra in Ucraina, questa inutile
strage che alimentiamo dalle due parti (dando armi agli ucraini invasi, e
pagando con i soldi del gas quelle dell'invasore Putin), può forse riuscire a
scuoterci? Riusciremo a non vedere più con lo stesso occhio distratto le guerre
che devastano il mondo, troppo spesso scatenate o tollerate in difesa dei
nostri interessi (cui teniamo ben più che ai nostri sbandierati valori)? (…).
Proviamo a metterci, letteralmente, nei panni di questi "atri", così
simili a noi, eppure così lontani. L'arte figurativa, da sempre, serve anche a
questo: a far sentire vicini i lontani, diceva Leon Battista Alberti. Vicini
affettivamente, certo. Ma anche vicini sul piano morale, su quello
esistenziale. Anche solo per provare a meritarci la fortuna sfacciata di esser nati
e vissuti in un Paese senza guerra: almeno finora. Di seguito, “Requiem per l’Europa” di Paolo Rumiz
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 6 di maggio: (…). Pur nelle abissali differenze,
sorprendono le somiglianze. Entrambi gli antagonisti (Russia, Usa
n.d.r.) guardano alla guerra come a un videogioco e alla terza guerra mondiale
come a una cosa lontana. Ma soprattutto né l'uno né l'altro sembrano ricordare
che fra le due potenze esiste una cosa chiamata Europa, intesa al massimo come
una protuberanza dell'America. Forse non se ne sono mai accorti: e li capisco.
Come accorgersi di una terra che non ha una sua politica estera né un suo
esercito, e resta inchiodata al palo, in bilico tra le strategie di Washington
e i rifornimenti di gas dal Cremlino? Un'alleanza incapace di agire in modo
autonomo, forte e unitario? E lì, per la prima volta, ho sentito il rischio che
l'Europa unita sparisse davvero, o fosse già scomparsa, schiacciata fra due
mondi che giocano alla guerra ignorando la sua presenza, in preda a un ebete
sonnambulismo come nel 1914, quando si gettò nel baratro. Una percezione
fisica. Come se dovessi prendere improvvisamente atto della fine di un'idea.
Come se, dopo aver scritto un "Canto" per lei, la dea-madre che sta
all'origine della nostra stirpe, oggi dovessi dedicarle un "Requiem".
Un epitaffio, dove non resta che consolarsi con la nostalgia dei padri
fondatori, che nel '45 concepirono il Sogno sulle sue rovine. Ripenso a come,
prima della Grande Guerra, i vecchi imperi hanno saputo trasformare in
spazi-cuscinetto l'antica linea di faglia fra Baltico e Mar Nero, per impedire
lo scontro tra le due Europe. E a come noi, al contrario, ce li siamo fatte
smantellare, a partire dalla Jugoslavia, una terra plurale dove il disastro ha
avuto il suo innesco - guarda un po' - dalla rivolta di una Krajina, parola che
come "Ucraina" vuol dire "frontiera". Ma la storia non
insegna niente. L'America ha due oceani per tutelare la sua sicurezza. Noi no.
Abbiamo a disposizione solo un'intercapedine di spazi neutrali, e proprio di
quegli spazi ci priviamo, con la Nato che ora va a "proteggere" anche
Svezia e Finlandia. Quanto ti ho cercata, Europa, nelle nostalgie dei profughi
dalmati, nelle ninne-nanne in tedesco della nonna, nel confine alle porte di
casa e nella quotidiana intimità col mondo slavo! Da adulto, ti ho inseguita
dal Libano all'Egeo in cerca del tuo mito; ti ho percorsa dall'Artico a Odessa,
da Trieste a Kiev e Mosca, e da Berlino a Istanbul su treni d'inverno. Mi sono
affacciato dai Carpazi sulla pianura dove il sole arriva dagli Urali, ti ho
seguita sul Danubio, il Niemen e il Guadalquivir. Dall'Irlanda al Monte Athos,
ho bussato ai monasteri che ti hanno salvata dalla devastazione barbarica. Ho
esposto la tua bandiera, ti ho dedicato libri. Ti ho narrata in un'orchestra
sinfonica di giovani stupendi. Tutti figli tuoi, dalla Spagna alla Russia. Esisti
ancora, Europa? Non ti trovo più, tu che sei la mia essenza, la mia fede ma
anche il mio infinito sconforto; sedimento di millenni, lingue, religioni,
incubi, speranze e convulsioni, dai quali è nata, come per miracolo, l'Idea. Il
tuo silenzio è assordante. Ti leggo come un corpo inerte, spezzato e
subalterno. Un'alleanza incapace di pensare in grande, ossessionata dalla
sicurezza, crocefissa da reticolati, dimentica delle guerre che hanno lacerato
la tua carne. Quasi nessuno scatta in piedi al suono del tuo inno. Generi
sbadigli. Sei una rovina nel vento, come un anfiteatro romano o una sinagoga vuota.
Comunque vada a finire, l'Unione stellata uscirà a pezzi, stretta da una
durissima recessione, ridotta a pura essenza strategica, con gli ultimi entrati
nella Ue - gli ex comunisti del Patto di Varsavia - autorizzati a imporci una
linea bellicista, non "per" l'Ucraina, ma "contro" la
Russia. La fine di un mondo, quello in cui abbiamo creduto. Le frontiere e le
periferie sono formidabili sensori dei grandi eventi mondiali. Gli abitanti del
mio villaggio tra Italia e Slovenia hanno già capito tutto. Piantano patate e
carote più del solito, arano rabbiosamente spazi di campagna dimenticati da
anni e tra i meli in fiore erigono legnaie enormi per il prossimo inverno.
Cercano di riguadagnare l'autosufficienza perduta. Uno di loro, vedendomi
passare, ha gridato: "Italiano, preparati! Non vedi come il cielo è
diventato buio?". I contadini si attrezzano, mentre in città la gente
parla. Passa dal menefreghismo all'insonnia, dall'aperitivo della sera alla
visione spaventosa di un fungo nucleare. Ma il vero pericolo non arriva
dall'esterno. Viene da noi, da una balcanizzazione in cui ciascun paese europeo
sta già consumando la sua Brexit, il suo personale divorzio da Te. L'Ue spende
già ora il quadruplo della Russia in armamenti, ma è un nano strategico. Non ha
un suo esercito e una sua politica estera. Avere un'armata con bandiera blu
stellata non sarebbe una spesa, ma un risparmio. Noi, invece, abbiamo scelto di
spendere ancora, e in ordine sparso. Risultato? Mendichiamo senza vergogna
l'aiuto di paesi antidemocratici per trovare spiragli di via d'uscita. Invece
di fare un salto in avanti, ci lasciamo dettare la linea da chi un anno fa ha
scelto di smobilitare dall'Afghanistan senza nemmeno la cortesia di
preavvertirci. Chiediamocelo una buona volta: la nostra alleanza è fondata su
valori o interessi? Su un progetto di vita o un antagonismo armato? Abbiamo
favorito la secessione del Kosovo in nome della libertà o per piazzare una base
militare nel cuore di uno stato russofilo come la Serbia? Eravamo consci del
potenziale epidemico di quella scelta, che oggi autorizza Mosca a pretendere il
Donbass? E ancora: siamo sicuri di mandare armi all'Ucraina per amore della sua
indipendenza, se fino a ieri le abbiamo vendute alla Russia? Su quale principio
universale si gioca l'accoglienza dei profughi ucraini, se milioni di altri
rifugiati sono violentemente respinti o lasciati marcire nei gulag greci e
turchi? Mentre scrivo, la "Ocean Viking" con 295 naufraghi a bordo,
aspetta da undici giorni l'autorizzazione allo sbarco, in piena emergenza
sanitaria, col ponte intasato di corpi e di vomito. Intanto, sul mio confine, i
profughi ucraini passano liberamente, senza obbligo della quarantena da Covid,
che invece è richiesta agli africani anche se negativi al test. Non ci
vergogniamo di una così lampante disparità di trattamento? E non ci viene da
immaginare quali tensioni sociali potrà innescare la presenza dei migranti
ucraini che noi facciamo sentire di Serie A e che domani potrebbero anche
passare di moda? Non ti riconosco più, Europa. La tua femminilità si è
rattrappita, il tuo ventre è sterile. La tua gente è annoiata dalla pace e da
vent'anni si lascia governare da paure. Prima l'Islam, poi il terrorismo, poi
l'invasione dei migranti, poi la pestilenza virale. Ora, l'Ucraina. Una
successione di emergenze monotematiche che ci travolgono sul piano emozionale,
ma ci lasciano inerti, esposti a bruschi risvegli come chi ha dormito troppo.
Una nevrosi da informazione che diventa amnesia totale, e pare fatta apposta
per impedirci di leggere la realtà di una guerra globale per l'accaparramento
delle risorse. Che prosegue imperterrita, mascherata da eufemismi. Ho
incontrato profughe ucraine. Madri disperate, ma fiere. Alcune hanno stentato a
dirmi grazie per l'aiuto ricevuto e mi hanno fatto capire che, semmai, dovrei
essere io a ringraziarle perché i loro uomini rischiavano la vita per me,
"in difesa dell'Europa". All'inizio mi sono offeso. Ma poi qualcosa
mi ha avvertito che in quelle donne c'era una parte di ragione. Quel qualcosa
diceva: ammettilo, sei figlio di una terra menefreghista, che non è più quella
di Bella ciao e non si batte più per la libertà di nessuno. Il disastro ucraino
mi pungeva sul vivo. Mi rammentava la mancanza di un "noi", di un
simbolo che mi facesse sentire forte. Di una bella bandiera nella tempesta. Il
segno di un'appartenenza comune di popoli, figli della stessa terra madre.
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