Ha scritto Alessandro Robecchi in “Ha ragione Bukowski. I soldi o sono troppi
o sono (sempre) pochi”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 25 di
maggio 2022: Per una volta almeno darei ragione al vecchio Charles Bukowski: “I
soldi hanno solo due cose che non vanno: o sono troppi o sono troppo pochi”. Il
rapporto che Oxfam ha sventolato di fronte ai potenti (e ricchi) del mondo
l’altro giorno a Davos è una fotografia perfetta, piuttosto spaventosa, della
polarizzazione estrema tra ricchezza e povertà, o meglio la certificazione che
stiamo seduti su un mondo solo, ma i mondi sono almeno due. Aumentano i
miliardari, 573 in più, in totale sono 2.668. Aumentano i poveri, 263 milioni
in un solo anno. Naturalmente si possono fare tanti giochetti con le cifre, ma
insomma, alcune sono impressionanti comunque la pensiate: la ricchezza di tutti
i miliardari messi insieme nel 2000 valeva il 4,4 per cento del Pil mondiale, e
oggi, vent’anni dopo, il 13,9. Sembrerebbe che l’intera economia mondiale si
sia messa al lavoro per arricchire un paio di migliaia di tizi che erano già
ricchi. E tra l’altro, se avessimo tutti in tasca un dollaro per ogni volta che
abbiamo sentito parlare di “lotta alle diseguaglianze”, saremmo miliardari
anche noi. A proposito di casa nostra, da marzo 2020 a novembre 2021 (pandemia,
vi dice qualcosa?) i miliardari sono aumentati di 13 unità (auguri!
Champagne!). In Italia, una quarantina di persone detengono la stessa ricchezza
del 30 per cento degli italiani più poveri (calcolati in 18 milioni di persone
adulte), un milione e quattrocentomila famiglie sono scese sotto la soglia di
povertà durante il periodo del Covid. Insomma, abbiamo un problema, cioè, ne
abbiamo tanti. Uno è, se si può dire, semi-letterario. Questi leader del “miliardariesimo”, nuova
religione mondiale, capita che sclerino, che diventino delle straordinarie
auto-caricature, macchiette. Uno va su Marte, quell’altro mi diventa guru della
sanità planetaria. I listini di Borsa sono la loro sala giochi, trattano coi
governi, alla pari e in qualche caso in condizione di vantaggio, graduano alla
bisogna la libertà d’espressione, pagano tasse percentualmente inferiori a
quelle che paga un ragioniere di Vimodrone. La “diseguaglianza”, insomma, è
così plateale da risultare grottesca. Non solo per questioni di giustizia (già
mi vedo arrivare quelli dell’”invidia sociale”, porelli, così ansiosi che dalla
tavola imbandita cada qualche briciola per loro), ma proprio per questioni
sistemiche e strutturali. Non è pensabile che la forbice si allarghi ancora.
Anche perché è una forbice che non riguarda solo poveri e miliardari, ma un
ritorno palpabile, visibile nelle nostre città, a una netta divisione per
classi sociali, un proletariato sempre più compresso (e l’inflazione al sei per
cento, poi…), con diritti un po’ evaporati, a cui nessuno sembra in grado di
dare aperta rappresentanza politica. Insomma, aumentano i ricchi, a decine, e
aumentano i poveri, a centinaia di migliaia, e questo in un Paese dove ogni
giorno si sente il mantra della “lotta alle diseguaglianze”. Lo stesso Paese
dove il solo pronunciare la parola “patrimoniale” genera svenimenti e crisi di
panico alla classe dirigente, lamenti infiniti e repentine marce indietro,
grida di allarme perché una tassa sui grandi patrimoni sarebbe indizio e
sintomo di “socialismo” (ahahah, ndr). Non se ne esce. L’unica è aspettare il
prossimo rapporto Oxam che dirà di un altro aumento di miliardari (non sarà la
pandemia, sarà la guerra), e noi saremo qui a dire le stesse cose, e nel
frattempo avremo sentito un migliaio di volte che si sta facendo una strenua
lotta alle diseguaglianze. Di seguito, “Il triste successo del capitalismo” di Massimo Fini pubblicato
su “il Fatto Quotidiano” di ieri, sabato 28 di maggio: (…). Partiamo dalle cose più
semplici. Ludwig von Mises, uno dei più estremi ma anche dei più coerenti
teorici del capitalismo e dell’industrialismo, sostiene, considerandola come
cosa positiva, che il progresso del “mondo libero” è basato sulla competizione
e quindi sull’invidia. Usando le sue parole: “il vagabondo invidia l’operaio,
l’operaio invidia il capofficina, il capofficina invidia il dirigente, il
dirigente invidia il padrone che guadagna 1 milione di dollari, chi guadagna 1
milione di dollari invidia colui che ne guadagna 3”. Insomma non c’è mai un
momento di equilibrio, di riposo, di pace, di serenità. È la posizione di
Silvio Berlusconi che rappresenta al meglio il dramma dell’uomo moderno. E
l’invidia non è certamente un sentimento che fa star bene colui che ne è
posseduto. Le cose andavano meglio, dal punto di vista psicologico, nella
società feudale, premoderna, preindustriale. Quella società era divisa in caste
impermeabili. Ma non è colpa mia se non sono nato Re, se non sono nato nobile,
quelli partecipano a un altro campionato che non mi riguarda. E quindi io,
contadino o artigiano che sia, vivo in un mondo di pari, sia nel di qua che
nell’aldilà dove “ ’a livella”, come la chiamava Totò, finisce per eguagliare
tutti, anzi è più dolorosa per chi credette di viver bene (“Prelati, notabili e
conti / Sull’uscio piangeste ben forte / Chi bene condusse sua vita / Male
sopporterà sua morte / Straccioni che senza vergogna / Portaste il cilicio o la
gogna /Partirvene non fu fatica / Perché la morte vi fu amica”, Fabrizio De
André, La morte). Ma veniamo alle cose concrete, quantitative, misurabili anche
dai sociologi e dagli statistici. Nel 1650, un secolo prima del take off
industriale, i suicidi in Europa erano 2,6 per centomila abitanti, nel 1850,
con statistiche certamente più accurate, erano 6,9 per centomila abitanti,
triplicati, oggi sono mediamente vicini a 20 per centomila abitanti, quasi
decuplicati. E il suicidio non è ovviamente che la punta di un iceberg molto
più profondo. Nevrosi e depressione sono malattie della modernità. Negli Stati
Uniti, il Paese più ricco, più forte del mondo, che gode di rendite di
posizione che gli derivano dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale, più di
un americano su due fa uso abituale di psicofarmaci, cioè non sta bene nella
propria pelle. Il fenomeno devastante della droga, nel Medioevo inesistente, in
seguito riservato alle élite intellettuali, oggi coinvolge ogni classe sociale,
soprattutto i giovani ed è sotto gli occhi di tutti. Sono cose su cui varrebbe
la pena riflettere invece di continuare a credere ostinatamente, con l’ottuso
ottimismo di Candide, di vivere nel “migliore dei mondi esistiti finora”. Secondo
l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’avanzatissima Europa è la regione del
mondo dove avvengono più suicidi, 15,4 ogni centomila abitanti, mentre il Mediterraneo
orientale è la regione dove ne avvengono meno. Nella bistrattatissima Africa,
che da quando abbiamo cominciato ad “aiutare” per inserirla nei nostri mercati
si è ulteriormente impoverita (migrazioni docent), la percentuale dei suicidi è
del 7,4 ogni centomila abitanti, la metà di quella europea. In Italia il
primato dei suicidi spetta alle regioni meglio organizzate, la Lombardia e
l’Emilia-Romagna. Per i disturbi psichiatrici fra le regioni in testa figura
sempre la Lombardia insieme alla civilissima Toscana, mentre la Campania, di
cui continuamente segnaliamo le disastrose condizioni economiche e soprattutto
sociali, occupa il penultimo posto. C’è quindi del marcio nel “regno di
Danimarca”, nel nostro modello di sviluppo che dopo averci promesso,
propagandandolo su ogni suo media, uno straordinario benessere, si è rivelato
portatore di un ancor più straordinario malessere. (…). Joseph Ratzinger,
quando era ancora cardinale, ha scritto: “Il progresso non ha partorito l’uomo
migliore, una società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere
umano”.
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