“Guerraperinterpostisoggetti”. Ha scritto il
magistrato Domenico Gallo in «“Vincere”: il conto arriva alla fine»
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 13 di maggio 2022: (…). …una
cosa è chiara, grazie alla coraggiosa resistenza degli ucraini e alle generose
forniture di armi di USA, GB e NATO, oltre al prezioso supporto
dell’intelligence, la guerra ha cambiato segno. Nella fase iniziale l’obiettivo
era quello di bloccare l’offensiva della Russia per dare una chance all’Ucraina
di avviare un negoziato che consentisse di pervenire rapidamente al cessate il
fuoco, sulla base di un compromesso con concessioni reciproche. In questa fase
le trattative sono andate avanti e il 15 marzo il Financial Times ha pubblicato
una bozza di accordo in 15 punti che prevedeva uno status di neutralità per
l’Ucraina, che avrebbe dovuto riconoscere l’annessione della Crimea alla Russia
e la proclamata indipendenza delle due Repubbliche del Donbass. Su questa bozza
è calato un silenzio di tomba nelle Cancellerie occidentali. Dopo il primo mese
di combattimenti che hanno testato la notevole capacità di resistenza delle
forze armate ucraine, addestrate, guidate e rifornite dalla NATO, è stata
mandata in soffitta ogni prospettiva di mediazione ed è stata avviata a
Ramstein, il 26 aprile, la fase due che si pone l’obiettivo di porre le forze
armate ucraine, previo un adeguato rifornimento di armi pesanti, in grado di
pervenire alla sconfitta della Russia, sia pure a prezzo di un conflitto
destinato a durare mesi, se non anni. Dopo Ramstein, il Presidente Zelensky, si
è lasciato sfuggire che l’Ucraina non avrebbe sollevato al tavolo del negoziato
il tema della Crimea, annessa alla Federazione Russa nel 2014. Immediatamente è
stato zittito dal Segretario della NATO Stoltenberg che, in un’intervista al
giornale tedesco Die Welt, ha dichiarato: “l’Ucraina deve vincere questa guerra
perche’ difende il suo territorio. I membri della Nato non accetteranno mai
l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo inoltre sempre opposti al
controllo russo su parti del Donbass nell’Ucraina orientale”. Commentando
quest’intervento, l’ambasciatore Umberto Vattani ha osservato: “Gli occidentali
avevano sin dall’inizio dichiarato di voler intervenire a difesa dell’Ucraina
per salvaguardarne l’indipendenza e la sovranità di fronte alla prepotenza e ai
soprusi del Cremlino. Ma chi difenderà Zelensky dalle pretese della Nato che
vuole imporre la sua linea a quella di Kiev in vista delle trattative da
intavolare con Putin?” (Avvenire, 9/05/2022). È inaccettabile che Stoltenberg
parli anche a nome nostro e ci faccia sapere che noi non accetteremo mai
l’annessione della Crimea alla Federazione russa, mantenendo vivo anche questo
fronte di conflitto fra Russia e Ucraina. È vero che la NATO ci ha sempre dato
gli ordini e che noi li abbiamo sempre eseguiti, però nelle sedi proprie; non
era mai accaduto che qualcuno ci dicesse, con un’intervista ad un giornale,
cosa dovessimo fare. Certo se la parola d’ordine che arriva d’oltreatlantico è
“vincere”, l’Europa deve stringere i ranghi e abbassare la testa. Invece, come
osserva l’ambasciatore Alberto Bradanini sul Manifesto del 10 maggio: “I
governi europei dovrebbero lavorare a un compromesso, perché è così che
finiscono le guerre. Si eviterebbero altri guai per il popolo ucraino e le
economie europee, oltre a una pericolosissima escalation nucleare. Attraverso
la Nato, gli Usa tengono l’Europa sotto vigilanza, sterilizzandone ogni anelito
verso la sovranità, semmai ve ne fossero le condizioni endogene”. Intanto siamo
arrivati al settantottesimo giorno di guerra e all’orizzonte non si intravede
niente di buono, anzi si va delineando quanto sia elastico il concetto di
vittoria. Lo stanziamento di un fiume di dollari (l’11 maggio la Camera ha
approvato aiuti per 40 miliardi) e la firma da parte di Biden di una legge per
velocizzare i trasferimenti di armi all’Ucraina, dà slancio alle ambizioni
ucraine in ordine agli obiettivi della guerra, tanto da puntare alla
liberazione di tutto il territorio, anche di quella parte di cui avevano perso
il possesso dal 2014. Lo ha esplicitato in un’intervista al “Financial Times”
il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. “L’immagine della vittoria è
un concetto in evoluzione – ha spiegato al quotidiano britannico – nei primi
mesi ci sarebbe sembrata una vittoria se avessimo ottenuto il ritiro delle
forze russe alle posizioni che occupavano prima del 24 febbraio e il pagamento
dei danni inflitti. Ora, se siamo forti abbastanza sul fronte militare e se
vinciamo la battaglia per il Donbass, che sarà cruciale per le successive
dinamiche del conflitto, certamente la vittoria in questa guerra per noi sarà
la liberazione del resto del nostro territorio”. (…). Di seguito, “L’Europa sia protagonista di pace e
autonomia: è ora” del filosofo Donatella Di Cesare pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di oggi: (…). La politica europea ha abdicato alla
guerra assecondando colpevolmente una narrazione faziosa e parziale dello
scontro che ha avuto sin qui effetti devastanti. In principio è l'invasione!
Guai a scrutare oltre, nel passato più recente di quella regione dell'est fra
Ucraina e Russia, dove il conflitto ferveva e ribolliva da anni, guai ad alzare
lo sguardo dall'immediatezza emotiva della condanna alla ricerca ponderata
delle soluzioni. L'Ue non ha saputo essere il terzo tra le due parti, tra l’aggressore
e l'aggredito, l'unico ruolo, politico ed etico che avrebbe consentito di
mediare e negoziare in vista della pace. Invece ha parteggiato. Senza prendere
fisicamente parte, intervenendo con le armi in una guerra per procura eticamente
abietta e politicamente miope. Gli altisonanti sermoni dei falchi che, nella loro
putinologia speculativa, risalivano alla mente malata del tiranno "maligno
e autodistruttivo" per spiegare la catastrofe bellica o lanciavano la
crociata della democrazia contro le autocrazie per dare un retorico senso
posticcio a scelte compiute per altri fini, non hanno certo aiutato il popolo
ucraino. Le morti crudeli, le vite spezzate, le città distrutte dicono il
contrario. Le bombe sono in gran parte russe: su questo non ci sono dubbi. Ma l'Europa
porta già davanti alla Storia la colpa politica di quel che non ha fatto, di ciò
che avrebbe dovuto fare. Quel che nei primi giorni era chiaro a chi volesse
leggere oltre l'indignazione, adesso è palese a tutti. In questa guerra, che va
confinata regionalmente, e non ampliata in un'ineludibile catastrofe
apocalittica, ci sono due obiettivi che non possono essere conciliati: difendere
il popolo ucraino oppure mirare al cambio di regime a Mosca. Il primo obiettivo
è - e deve essere - quello europeo. Il secondo obiettivo è quello statunitense.
L'uno è inconciliabile con l'altro, perché non si può pensare di ricostruire a
Kiev se si immagina di avventurarsi in una distruttiva campagna di Russia. L'atlantismo
duro e puro, ideologico e fanatico, si rivela per l'Europa un vero impedimento
alla propria iniziativa politica. Le direttive di Biden e Johnson sono rischiose.
L'intempestivo ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato sarebbe una escalation
ulteriore, una sfida alla Russia, un atto di guerra mentre si tenta faticosamente
il negoziato. Prima delle paure di svedesi e finlandesi c'è l'esigenza di pace.
A essere chiamata in causa da questo conflitto tra nazionalismi, che qui e là
assume i tratti di guerra civile, è infatti l'Europa del Mediterraneo e del
Baltico. Germania, Francia e Italia: sono i tre Paesi direttamente coinvolti.
Gli altri sono troppo lontani in senso storico e geografico, come la Spagna, o
troppo vicini, come la Polonia, ancora pervasa, come altre nazioni dell'est, da
un vecchio revanchismo antisovietico. La vera novità di questo drammatico
periodo non è tanto l'impegno di Macron e del suo tentativo di rilanciare la
comunità politica europea (ma non era appunto già prevista?), quanto la
risposta dell'opinione pubblica che, dopo un primo momento di sdegno e
sbigottimento, sta reagendo in modo fermo all'ipotesi di una guerra duratura
nel contesto europeo. Nei tre grandi Paesi, che sono il nucleo fondante
dell'Europa post nazista, i cittadini chiedono una concreta e lungimirante politica
di pace. Non è solo paura, né tanto meno mancanza di coraggio, incapacità
vigliacca – come alcuni insinuano - di prendere le armi e affrontare il
"nemico". Piuttosto sono la consapevolezza storica e la maturità
democratica. Non potranno non tenerne conto i rappresentati politici, dai
"verdeoliva" tedeschi, presi di mira per i loro accenti bellicistici,
agli esponenti del Pd italiano sin dall'inizio su posizioni di fervente e
bellicoso atlantismo, che solo ora viene tardivamente corretto. In questo momento
l'Europa non è né unita né compatta. Non sempre, però, l'unione è di per sé
positiva. Anziché pensare a un ulteriore ampliamento in una fase così delicata
sarebbe invece importante riprendere lì dove ci siamo fermati. Il nucleo
dell'Europa è la parte socialmente più avanzata, quella del welfare ancora
funzionante, dell'istruzione pubblica, del sistema sanitario per tutti, ma anche
dei diritti umani e di una cultura aperta, senza preclusioni razziste. Questa
Europa non può perdere e non può perdersi per correre dietro a fantomatiche
vittorie sbandierate da pericolosi "amici" che mirano solo ai propri
interessi. Autonomia e pace sono perciò ormai quasi sinonimi nel lessico politico
di cui oggi abbiamo bisogno.
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