"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 13 maggio 2022

Eventi. 69 Di Cesare: «L'Ue non ha saputo essere il terzo tra le due parti, tra l’aggressore e l'aggredito, l'unico ruolo, politico ed etico».

 

“Guerraperinterpostisoggetti”. Ha scritto il magistrato Domenico Gallo in «“Vincere”: il conto arriva alla fine» pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, 13 di maggio 2022: (…). …una cosa è chiara, grazie alla coraggiosa resistenza degli ucraini e alle generose forniture di armi di USA, GB e NATO, oltre al prezioso supporto dell’intelligence, la guerra ha cambiato segno. Nella fase iniziale l’obiettivo era quello di bloccare l’offensiva della Russia per dare una chance all’Ucraina di avviare un negoziato che consentisse di pervenire rapidamente al cessate il fuoco, sulla base di un compromesso con concessioni reciproche. In questa fase le trattative sono andate avanti e il 15 marzo il Financial Times ha pubblicato una bozza di accordo in 15 punti che prevedeva uno status di neutralità per l’Ucraina, che avrebbe dovuto riconoscere l’annessione della Crimea alla Russia e la proclamata indipendenza delle due Repubbliche del Donbass. Su questa bozza è calato un silenzio di tomba nelle Cancellerie occidentali. Dopo il primo mese di combattimenti che hanno testato la notevole capacità di resistenza delle forze armate ucraine, addestrate, guidate e rifornite dalla NATO, è stata mandata in soffitta ogni prospettiva di mediazione ed è stata avviata a Ramstein, il 26 aprile, la fase due che si pone l’obiettivo di porre le forze armate ucraine, previo un adeguato rifornimento di armi pesanti, in grado di pervenire alla sconfitta della Russia, sia pure a prezzo di un conflitto destinato a durare mesi, se non anni. Dopo Ramstein, il Presidente Zelensky, si è lasciato sfuggire che l’Ucraina non avrebbe sollevato al tavolo del negoziato il tema della Crimea, annessa alla Federazione Russa nel 2014. Immediatamente è stato zittito dal Segretario della NATO Stoltenberg che, in un’intervista al giornale tedesco Die Welt, ha dichiarato: “l’Ucraina deve vincere questa guerra perche’ difende il suo territorio. I membri della Nato non accetteranno mai l’annessione illegale della Crimea. Ci siamo inoltre sempre opposti al controllo russo su parti del Donbass nell’Ucraina orientale”. Commentando quest’intervento, l’ambasciatore Umberto Vattani ha osservato: “Gli occidentali avevano sin dall’inizio dichiarato di voler intervenire a difesa dell’Ucraina per salvaguardarne l’indipendenza e la sovranità di fronte alla prepotenza e ai soprusi del Cremlino. Ma chi difenderà Zelensky dalle pretese della Nato che vuole imporre la sua linea a quella di Kiev in vista delle trattative da intavolare con Putin?” (Avvenire, 9/05/2022). È inaccettabile che Stoltenberg parli anche a nome nostro e ci faccia sapere che noi non accetteremo mai l’annessione della Crimea alla Federazione russa, mantenendo vivo anche questo fronte di conflitto fra Russia e Ucraina. È vero che la NATO ci ha sempre dato gli ordini e che noi li abbiamo sempre eseguiti, però nelle sedi proprie; non era mai accaduto che qualcuno ci dicesse, con un’intervista ad un giornale, cosa dovessimo fare. Certo se la parola d’ordine che arriva d’oltreatlantico è “vincere”, l’Europa deve stringere i ranghi e abbassare la testa. Invece, come osserva l’ambasciatore Alberto Bradanini sul Manifesto del 10 maggio: “I governi europei dovrebbero lavorare a un compromesso, perché è così che finiscono le guerre. Si eviterebbero altri guai per il popolo ucraino e le economie europee, oltre a una pericolosissima escalation nucleare. Attraverso la Nato, gli Usa tengono l’Europa sotto vigilanza, sterilizzandone ogni anelito verso la sovranità, semmai ve ne fossero le condizioni endogene”. Intanto siamo arrivati al settantottesimo giorno di guerra e all’orizzonte non si intravede niente di buono, anzi si va delineando quanto sia elastico il concetto di vittoria. Lo stanziamento di un fiume di dollari (l’11 maggio la Camera ha approvato aiuti per 40 miliardi) e la firma da parte di Biden di una legge per velocizzare i trasferimenti di armi all’Ucraina, dà slancio alle ambizioni ucraine in ordine agli obiettivi della guerra, tanto da puntare alla liberazione di tutto il territorio, anche di quella parte di cui avevano perso il possesso dal 2014. Lo ha esplicitato in un’intervista al “Financial Times” il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. “L’immagine della vittoria è un concetto in evoluzione – ha spiegato al quotidiano britannico – nei primi mesi ci sarebbe sembrata una vittoria se avessimo ottenuto il ritiro delle forze russe alle posizioni che occupavano prima del 24 febbraio e il pagamento dei danni inflitti. Ora, se siamo forti abbastanza sul fronte militare e se vinciamo la battaglia per il Donbass, che sarà cruciale per le successive dinamiche del conflitto, certamente la vittoria in questa guerra per noi sarà la liberazione del resto del nostro territorio”. (…). Di seguito, “L’Europa sia protagonista di pace e autonomia: è ora” del filosofo Donatella Di Cesare pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi: (…). La politica europea ha abdicato alla guerra assecondando colpevolmente una narrazione faziosa e parziale dello scontro che ha avuto sin qui effetti devastanti. In principio è l'invasione! Guai a scrutare oltre, nel passato più recente di quella regione dell'est fra Ucraina e Russia, dove il conflitto ferveva e ribolliva da anni, guai ad alzare lo sguardo dall'immediatezza emotiva della condanna alla ricerca ponderata delle soluzioni. L'Ue non ha saputo essere il terzo tra le due parti, tra l’aggressore e l'aggredito, l'unico ruolo, politico ed etico che avrebbe consentito di mediare e negoziare in vista della pace. Invece ha parteggiato. Senza prendere fisicamente parte, intervenendo con le armi in una guerra per procura eticamente abietta e politicamente miope. Gli altisonanti sermoni dei falchi che, nella loro putinologia speculativa, risalivano alla mente malata del tiranno "maligno e autodistruttivo" per spiegare la catastrofe bellica o lanciavano la crociata della democrazia contro le autocrazie per dare un retorico senso posticcio a scelte compiute per altri fini, non hanno certo aiutato il popolo ucraino. Le morti crudeli, le vite spezzate, le città distrutte dicono il contrario. Le bombe sono in gran parte russe: su questo non ci sono dubbi. Ma l'Europa porta già davanti alla Storia la colpa politica di quel che non ha fatto, di ciò che avrebbe dovuto fare. Quel che nei primi giorni era chiaro a chi volesse leggere oltre l'indignazione, adesso è palese a tutti. In questa guerra, che va confinata regionalmente, e non ampliata in un'ineludibile catastrofe apocalittica, ci sono due obiettivi che non possono essere conciliati: difendere il popolo ucraino oppure mirare al cambio di regime a Mosca. Il primo obiettivo è - e deve essere - quello europeo. Il secondo obiettivo è quello statunitense. L'uno è inconciliabile con l'altro, perché non si può pensare di ricostruire a Kiev se si immagina di avventurarsi in una distruttiva campagna di Russia. L'atlantismo duro e puro, ideologico e fanatico, si rivela per l'Europa un vero impedimento alla propria iniziativa politica. Le direttive di Biden e Johnson sono rischiose. L'intempestivo ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato sarebbe una escalation ulteriore, una sfida alla Russia, un atto di guerra mentre si tenta faticosamente il negoziato. Prima delle paure di svedesi e finlandesi c'è l'esigenza di pace. A essere chiamata in causa da questo conflitto tra nazionalismi, che qui e là assume i tratti di guerra civile, è infatti l'Europa del Mediterraneo e del Baltico. Germania, Francia e Italia: sono i tre Paesi direttamente coinvolti. Gli altri sono troppo lontani in senso storico e geografico, come la Spagna, o troppo vicini, come la Polonia, ancora pervasa, come altre nazioni dell'est, da un vecchio revanchismo antisovietico. La vera novità di questo drammatico periodo non è tanto l'impegno di Macron e del suo tentativo di rilanciare la comunità politica europea (ma non era appunto già prevista?), quanto la risposta dell'opinione pubblica che, dopo un primo momento di sdegno e sbigottimento, sta reagendo in modo fermo all'ipotesi di una guerra duratura nel contesto europeo. Nei tre grandi Paesi, che sono il nucleo fondante dell'Europa post nazista, i cittadini chiedono una concreta e lungimirante politica di pace. Non è solo paura, né tanto meno mancanza di coraggio, incapacità vigliacca – come alcuni insinuano - di prendere le armi e affrontare il "nemico". Piuttosto sono la consapevolezza storica e la maturità democratica. Non potranno non tenerne conto i rappresentati politici, dai "verdeoliva" tedeschi, presi di mira per i loro accenti bellicistici, agli esponenti del Pd italiano sin dall'inizio su posizioni di fervente e bellicoso atlantismo, che solo ora viene tardivamente corretto. In questo momento l'Europa non è né unita né compatta. Non sempre, però, l'unione è di per sé positiva. Anziché pensare a un ulteriore ampliamento in una fase così delicata sarebbe invece importante riprendere lì dove ci siamo fermati. Il nucleo dell'Europa è la parte socialmente più avanzata, quella del welfare ancora funzionante, dell'istruzione pubblica, del sistema sanitario per tutti, ma anche dei diritti umani e di una cultura aperta, senza preclusioni razziste. Questa Europa non può perdere e non può perdersi per correre dietro a fantomatiche vittorie sbandierate da pericolosi "amici" che mirano solo ai propri interessi. Autonomia e pace sono perciò ormai quasi sinonimi nel lessico politico di cui oggi abbiamo bisogno.

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