A lato. "Sarlat", acquerello (2019) di Anna Fiore.
Claudia de Lillo – in arte “Elasti”, al tempo della
Sua preziosissima collaborazione con il settimanale “D” del quotidiano “la
Repubblica” – è stata sempre una attenta osservatrice dei “moti” del cuore, o
forse meglio ancora, dell’animo umano. Di recente, sul quotidiano “la
Repubblica” del 20 di aprile ultimo, ha scandagliato, da par Suo, quella condizione
che viene definita di “felicità”, di una felicità da ostentare “senza vergogna”,
anche al tempo della barbarie perpetrata in terra d’Ucraina. Titolo del “pezzo”:
“La felicità, senza vergogna”, per l’appunto:
Chiedimi
se sono felice. Risponderò soltanto se non lo sono. Non parlerò delle vacanze,
della maestosa fioritura dei glicini sui balconi, di un grande uovo di
cioccolato al latte. Non menzionerò la leggerezza, i sorrisi, i colori delle
nostre esistenze, il calice di vino bianco prima di cena. Perché delle
quotidiane fragole che la vita si ostina a offrirci, ci vergogniamo. Le
consideriamo irriguardose dell’altrui dolore.
Come possiamo ridere,
imbellettarci, amare, gioire quando poco lontano da noi, in Ucraina, ogni
giorno si muore? La prossimità della guerra è un motore emotivo potente che
scuote le coscienze ma anche i nostri sensi di colpa. La più parte di noi ha
così scarsa consuetudine con l’orrore da provarne imbarazzo sulla propria pelle
e nei propri gesti. Al cospetto del buio, la soluzione è una luce spenta? In
carcere, Sandro Pertini, partigiano e presidente della Repubblica, ogni sera,
prima di dormire, riponeva i pantaloni da galeotto sotto il materasso per
averli in ordine la mattina dopo. A Bucha, Iryna Filkina, operaia che sognava
di diventare estetista, portava smalto rosso sulle unghie il giorno in cui,
rientrando dal lavoro, è stata colpita dal fuoco russo e lasciata morire per
strada. Non c’era vanità in quei pantaloni stirati e nemmeno in quelle unghie
dipinte. C’erano resistenza e cura. La dignità passa per il rispetto e per
l’amore di sé, non richiede mortificazione. Per Pasqua ho mandato gli auguri a
un amico. Ha risposto che non capiva il senso del mio messaggio: «Non c’è nulla
da celebrare di questi tempi». Stavo cucinando per un grande pranzo familiare e
d’improvviso il profumo buono della festa si è fatto inopportuno e sguaiato,
proprio come me. La penitenza mi avrebbe assolta? A pochi mesi dallo scoppio
della Prima Guerra Mondiale, il 25 dicembre del 1914, a Ypres, in Belgio, i
soldati inglesi e quelli tedeschi uscirono dalle rispettive trincee, si
augurarono Buon Natale e, per quel giorno, deposero le armi. Si racconta che si
abbracciarono, si regalarono tabacco e cibo, qualcuno tirò fuori un pallone e
giocarono a calcio. La tregua fu effimera e la guerra riprese l’indomani per
altri quattro anni. Eppure quel bagliore di umanità parla del nostro
insopprimibile desiderio di leggerezza. Al museo ebraico di New York c’è un
candelabro a nove braccia. Proviene dal campo di concentramento di
Theresienstadt. Fu intagliato da un blocco di legno trafugato ai nazisti, fu
tenuto nascosto e utilizzato, una volta l’anno, per celebrare Hanukkah, a
dispetto dei divieti. Siamo creature fallibili e sciocche, combiniamo disastri
e inciampiamo nei nostri stessi passi. Nella nostra pasta scadente tuttavia si
trova un seme vitale che germoglia, malgrado noi, una luce feconda e proterva. Quella
luce è la nostra parte migliore e dobbiamo tenercela stretta. Grazie a lei
continuiamo a stirarci i pantaloni, a metterci lo smalto rosso, ad avere voglia
di giocare e di abbracciarci. Grazie a lei cantavamo dai balconi durante il
lockdown ogni sera alle 18, proprio quando la Protezione civile comunicava il
numero quotidiano di morti per Covid. Non c’è integrità senza leggerezza, senza
gioia, senza la nostra caparbia voglia di vivere. La censura e l’imbarazzo
uccidono la solidarietà. L’empatia ha bisogno di luce, di fragole e di sorrisi.
Non vergogniamoci di aprire le finestre, di coltivare la fiducia e la speranza.
La consapevolezza richiede equilibrio e onestà. Sono preoccupata, la guerra mi
fa orrore, a volte di notte ho paura e non riesco a dormire. Eppure ogni tanto
la felicità fa capolino. In una Sua rubrica su quel settimanale,
pubblicata il 20 di maggio dell’anno 2017, “Elasti” veniva a scandagliare, per scriverne,
di quel “moto” dell’animo non proprio commendevole che viene definito “invidia”.
E di una “invidia” in verità giovanile ne scriveva con il Suo inconfondibile “stile”
e “piglio”. Titolo di quel “pezzo” che di seguito riporto: “Benvenuti tra gli invidiosi anonimi”. Ché, tra “gli
invidiosi anonimi”, sentiva di appartenere “ruminando” quella rovinosissima,
diffusissima condizione propria dell’animo umano: L'invidia è una piantina
infestante che cresce rigogliosa nella vita di tutti. Per placarla si può
provare a fare un gioco: confessare. Verso la fine degli anni '70 arrivò in
Italia un oggetto prodigioso. All'inizio solo un'esigua schiera di fortunati, a
cui io non appartenevo, lo possedeva. Un sabato pomeriggio però ricevetti un
formale invito dalla mia amica Nina del terzo piano. Ricordo che sedevamo
vicine ed emozionate sui cuscini color senape del divano del salotto,
solitamente inaccessibile alle nostre scorribande bambine. Suo padre domandò:
«Siete pronte?». Lo eravamo. Lui pigiò un pulsante, l'apparecchio si accese e
comparve, come al cinema, l'intero arcobaleno: la televisione a colori era una
magia. Rientrata a casa, la sera a cena con mia madre ruminavo il mio livore.
«Nina si dà un sacco di arie. È odiosa. Non so nemmeno perché siamo amiche»,
borbottavo. «Non è che lì sta crescendo una piantina cattiva che si chiama
invidia?», mi domandò lei con l'infallibilità materna. «Invidiosa??? Io???». Ce
lo insegnano da piccoli: l'invidia è una pianta velenosa, un sentimento
meschino e vigliacco che ci fa brutti e cattivi. Mostra un lato oscuro e misero
di noi che non vogliamo riconoscere neppure quando ci fa le boccacce allo
specchio. «Io, nella mia vita, che è la vita di un uomo di 84 anni, non ho mai
conosciuto una persona che meritasse di essere invidiata. L'invidia è il
sentimento che trovo più stupido», disse Enzo Biagi, giornalista grande e
saggio che di persone invidiabili nel conobbe e ne intervistò moltissime. Aveva
ragione lui: la vita di ognuno è costellata di crepe, fratture, dolori piccoli
e grandi, abissi su cui non è prudente affacciarsi. Ogni esistenza ha luci
uniche, irripetibili, inestimabili. Dovremmo impegnarci ad alimentarle invece
di rosicare al bagliore di quelle altrui. L'invidia tuttavia è una piantina
infestante che cresce rigogliosa lungo le nostre strade. Non la esponiamo sui
nostri davanzali e insegniamo ai nostri figli a calpestarla. Eppure lei sta lì,
ipertrofica e visibile. Spunta nei nostri sguardi alzati al cielo, nei nostri
giudizi impietosi, nei nostri commenti sprezzanti, nella nebbia torbida che
appanna le nostre visioni, nel nostro vile ritrarci. Forse, se cominciamo a
riconoscerla, a puntarle il dito contro, a chiamarla con il suo nome senza
paura né reticenza, ci farà meno paura e impareremo a sconfiggerla. Inizierò
io, seduta sulla mia seggiolina del circolo degli invidiosi anonimi. Ebbene sì,
oggi come allora davanti ai fantasmagorici colori della televisione nuova di
Nina, mi succede di invidiare qualcuno. Non mi capita quasi mai, tuttavia, con
gli uomini. Forse perché, indipendentemente dai talenti, dai successi, dal
potere, dall'avvenenza o dal carisma, mai vorrei appartenere a un genere
diverso dal mio. Io invidio solo le donne. Difficilmente per la loro giovane
età che, almeno per ora, non mi infastidisce affatto. Talvolta per la loro
bellezza anche se solitamente mi suscita fascinazione incantata più che
fastidio. Non invidio le astronaute, le fisiche, le ingegnere, le menti
matematiche. Non invidio le rockstar e nemmeno le stelle del cinema. Anche se,
tra tutte, Natalie Portman, Emma Watson e Angelina Jolie, compresi i suoi sei
figli, non mi lasciano indifferente. Invidio modelli arrivabili come la vicina
di casa, professionalità affini, storie non troppo dissimili dalla mia ma
dotate dell'esotismo, del coraggio o del talento che a me mancano. L'invidia
non mi macera ma mi inquina, non mi avvelena ma mi imbarazza e mi mortifica.
Perché, come tutti, vorrei essere migliore di quella che sono e, come tutti, ho
luci da far splendere, crepe da nascondere e vergogne da confessare.
"Il cuore di un uomo è molto simile al mare, ha le sue tempeste, le sue maree e nelle sue profondità ha anche le sue perle". (Vincent van Gogh). "È il pensiero che suscita i più alti sentimenti nell'animo umano, poiché, se manca il pensiero, rimangono solo gli istinti e l'ego a rattrappire l'anima". (Marco Trevisan). "Ciò che rende l'esistenza preziosa e piacevole sono i nostri sentimenti e la nostra sensibilità".(Hermann Hesse). "Poi arriva la sera e capisci che ci sono cose che non puoi fare, cose che non puoi avere, cose che non puoi raggiungere. Ma non c'è niente che tu non possa sognare". (A. Curnetta). Bellissimo, e per me, particolarmente gradevole, questo post! Gli scritti di Claudia De Lillo riescono sempre ad accendere la mente ed il cuore, esercitando un fascino particolare su quanti si preoccupano di soffermarsi ad ascoltare "i moti" del proprio animo... Grazie di cuore e buona continuazione.
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