"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 21 maggio 2022

Piccolegrandistorie. 18 Elasti: «La vita di ognuno è costellata di crepe, fratture, dolori piccoli e grandi, abissi su cui non è prudente affacciarsi».

 

A lato. "Sarlat", acquerello (2019) di Anna Fiore.

Claudia de Lillo – in arte “Elasti”, al tempo della Sua preziosissima collaborazione con il settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” – è stata sempre una attenta osservatrice dei “moti” del cuore, o forse meglio ancora, dell’animo umano. Di recente, sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di aprile ultimo, ha scandagliato, da par Suo, quella condizione che viene definita di “felicità”, di una felicità da ostentare “senza vergogna”, anche al tempo della barbarie perpetrata in terra d’Ucraina. Titolo del “pezzo”: “La felicità, senza vergogna”, per l’appunto: Chiedimi se sono felice. Risponderò soltanto se non lo sono. Non parlerò delle vacanze, della maestosa fioritura dei glicini sui balconi, di un grande uovo di cioccolato al latte. Non menzionerò la leggerezza, i sorrisi, i colori delle nostre esistenze, il calice di vino bianco prima di cena. Perché delle quotidiane fragole che la vita si ostina a offrirci, ci vergogniamo. Le consideriamo irriguardose dell’altrui dolore.

Come possiamo ridere, imbellettarci, amare, gioire quando poco lontano da noi, in Ucraina, ogni giorno si muore? La prossimità della guerra è un motore emotivo potente che scuote le coscienze ma anche i nostri sensi di colpa. La più parte di noi ha così scarsa consuetudine con l’orrore da provarne imbarazzo sulla propria pelle e nei propri gesti. Al cospetto del buio, la soluzione è una luce spenta? In carcere, Sandro Pertini, partigiano e presidente della Repubblica, ogni sera, prima di dormire, riponeva i pantaloni da galeotto sotto il materasso per averli in ordine la mattina dopo. A Bucha, Iryna Filkina, operaia che sognava di diventare estetista, portava smalto rosso sulle unghie il giorno in cui, rientrando dal lavoro, è stata colpita dal fuoco russo e lasciata morire per strada. Non c’era vanità in quei pantaloni stirati e nemmeno in quelle unghie dipinte. C’erano resistenza e cura. La dignità passa per il rispetto e per l’amore di sé, non richiede mortificazione. Per Pasqua ho mandato gli auguri a un amico. Ha risposto che non capiva il senso del mio messaggio: «Non c’è nulla da celebrare di questi tempi». Stavo cucinando per un grande pranzo familiare e d’improvviso il profumo buono della festa si è fatto inopportuno e sguaiato, proprio come me. La penitenza mi avrebbe assolta? A pochi mesi dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il 25 dicembre del 1914, a Ypres, in Belgio, i soldati inglesi e quelli tedeschi uscirono dalle rispettive trincee, si augurarono Buon Natale e, per quel giorno, deposero le armi. Si racconta che si abbracciarono, si regalarono tabacco e cibo, qualcuno tirò fuori un pallone e giocarono a calcio. La tregua fu effimera e la guerra riprese l’indomani per altri quattro anni. Eppure quel bagliore di umanità parla del nostro insopprimibile desiderio di leggerezza. Al museo ebraico di New York c’è un candelabro a nove braccia. Proviene dal campo di concentramento di Theresienstadt. Fu intagliato da un blocco di legno trafugato ai nazisti, fu tenuto nascosto e utilizzato, una volta l’anno, per celebrare Hanukkah, a dispetto dei divieti. Siamo creature fallibili e sciocche, combiniamo disastri e inciampiamo nei nostri stessi passi. Nella nostra pasta scadente tuttavia si trova un seme vitale che germoglia, malgrado noi, una luce feconda e proterva. Quella luce è la nostra parte migliore e dobbiamo tenercela stretta. Grazie a lei continuiamo a stirarci i pantaloni, a metterci lo smalto rosso, ad avere voglia di giocare e di abbracciarci. Grazie a lei cantavamo dai balconi durante il lockdown ogni sera alle 18, proprio quando la Protezione civile comunicava il numero quotidiano di morti per Covid. Non c’è integrità senza leggerezza, senza gioia, senza la nostra caparbia voglia di vivere. La censura e l’imbarazzo uccidono la solidarietà. L’empatia ha bisogno di luce, di fragole e di sorrisi. Non vergogniamoci di aprire le finestre, di coltivare la fiducia e la speranza. La consapevolezza richiede equilibrio e onestà. Sono preoccupata, la guerra mi fa orrore, a volte di notte ho paura e non riesco a dormire. Eppure ogni tanto la felicità fa capolino. In una Sua rubrica su quel settimanale, pubblicata il 20 di maggio dell’anno 2017, “Elasti” veniva a scandagliare, per scriverne, di quel “moto” dell’animo non proprio commendevole che viene definito “invidia”. E di una “invidia” in verità giovanile ne scriveva con il Suo inconfondibile “stile” e “piglio”. Titolo di quel “pezzo” che di seguito riporto: “Benvenuti tra gli invidiosi anonimi”. Ché, tra “gli invidiosi anonimi”, sentiva di appartenere “ruminando” quella rovinosissima, diffusissima condizione propria dell’animo umano: L'invidia è una piantina infestante che cresce rigogliosa nella vita di tutti. Per placarla si può provare a fare un gioco: confessare. Verso la fine degli anni '70 arrivò in Italia un oggetto prodigioso. All'inizio solo un'esigua schiera di fortunati, a cui io non appartenevo, lo possedeva. Un sabato pomeriggio però ricevetti un formale invito dalla mia amica Nina del terzo piano. Ricordo che sedevamo vicine ed emozionate sui cuscini color senape del divano del salotto, solitamente inaccessibile alle nostre scorribande bambine. Suo padre domandò: «Siete pronte?». Lo eravamo. Lui pigiò un pulsante, l'apparecchio si accese e comparve, come al cinema, l'intero arcobaleno: la televisione a colori era una magia. Rientrata a casa, la sera a cena con mia madre ruminavo il mio livore. «Nina si dà un sacco di arie. È odiosa. Non so nemmeno perché siamo amiche», borbottavo. «Non è che lì sta crescendo una piantina cattiva che si chiama invidia?», mi domandò lei con l'infallibilità materna. «Invidiosa??? Io???». Ce lo insegnano da piccoli: l'invidia è una pianta velenosa, un sentimento meschino e vigliacco che ci fa brutti e cattivi. Mostra un lato oscuro e misero di noi che non vogliamo riconoscere neppure quando ci fa le boccacce allo specchio. «Io, nella mia vita, che è la vita di un uomo di 84 anni, non ho mai conosciuto una persona che meritasse di essere invidiata. L'invidia è il sentimento che trovo più stupido», disse Enzo Biagi, giornalista grande e saggio che di persone invidiabili nel conobbe e ne intervistò moltissime. Aveva ragione lui: la vita di ognuno è costellata di crepe, fratture, dolori piccoli e grandi, abissi su cui non è prudente affacciarsi. Ogni esistenza ha luci uniche, irripetibili, inestimabili. Dovremmo impegnarci ad alimentarle invece di rosicare al bagliore di quelle altrui. L'invidia tuttavia è una piantina infestante che cresce rigogliosa lungo le nostre strade. Non la esponiamo sui nostri davanzali e insegniamo ai nostri figli a calpestarla. Eppure lei sta lì, ipertrofica e visibile. Spunta nei nostri sguardi alzati al cielo, nei nostri giudizi impietosi, nei nostri commenti sprezzanti, nella nebbia torbida che appanna le nostre visioni, nel nostro vile ritrarci. Forse, se cominciamo a riconoscerla, a puntarle il dito contro, a chiamarla con il suo nome senza paura né reticenza, ci farà meno paura e impareremo a sconfiggerla. Inizierò io, seduta sulla mia seggiolina del circolo degli invidiosi anonimi. Ebbene sì, oggi come allora davanti ai fantasmagorici colori della televisione nuova di Nina, mi succede di invidiare qualcuno. Non mi capita quasi mai, tuttavia, con gli uomini. Forse perché, indipendentemente dai talenti, dai successi, dal potere, dall'avvenenza o dal carisma, mai vorrei appartenere a un genere diverso dal mio. Io invidio solo le donne. Difficilmente per la loro giovane età che, almeno per ora, non mi infastidisce affatto. Talvolta per la loro bellezza anche se solitamente mi suscita fascinazione incantata più che fastidio. Non invidio le astronaute, le fisiche, le ingegnere, le menti matematiche. Non invidio le rockstar e nemmeno le stelle del cinema. Anche se, tra tutte, Natalie Portman, Emma Watson e Angelina Jolie, compresi i suoi sei figli, non mi lasciano indifferente. Invidio modelli arrivabili come la vicina di casa, professionalità affini, storie non troppo dissimili dalla mia ma dotate dell'esotismo, del coraggio o del talento che a me mancano. L'invidia non mi macera ma mi inquina, non mi avvelena ma mi imbarazza e mi mortifica. Perché, come tutti, vorrei essere migliore di quella che sono e, come tutti, ho luci da far splendere, crepe da nascondere e vergogne da confessare.

1 commento:

  1. "Il cuore di un uomo è molto simile al mare, ha le sue tempeste, le sue maree e nelle sue profondità ha anche le sue perle". (Vincent van Gogh). "È il pensiero che suscita i più alti sentimenti nell'animo umano, poiché, se manca il pensiero, rimangono solo gli istinti e l'ego a rattrappire l'anima". (Marco Trevisan). "Ciò che rende l'esistenza preziosa e piacevole sono i nostri sentimenti e la nostra sensibilità".(Hermann Hesse). "Poi arriva la sera e capisci che ci sono cose che non puoi fare, cose che non puoi avere, cose che non puoi raggiungere. Ma non c'è niente che tu non possa sognare". (A. Curnetta). Bellissimo, e per me, particolarmente gradevole, questo post! Gli scritti di Claudia De Lillo riescono sempre ad accendere la mente ed il cuore, esercitando un fascino particolare su quanti si preoccupano di soffermarsi ad ascoltare "i moti" del proprio animo... Grazie di cuore e buona continuazione.

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