"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 1 maggio 2022

Eventi. 64 «Marx denunciava l'alienazione "nel" lavoro, oggi siamo in presenza di un'alienazione più grande, quella "da" lavoro».

Oggi è la festa del primo di maggio, la “festa del lavoro”. Quest’anno, molto tristemente, una “festa di guerra”. Ritrovo tra le “sudate carte” uno scritto profetico, “Lavoro e felicità”, di Umberto Galimberti, con una data molto incerta di pubblicazione – 30 di luglio dell’anno 2006? – e nessuna notizia del quotidiano o della rivista che lo abbia ospitato: È evidente che più la società si fa tecnologica, più si riducono i posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più antico dell'uomo: la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo. Siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti mirati, i contratti d'area, i lavori socialmente utili e altre ideazioni che la politica tenta di escogitare per scongiurare l'incubo, forse non c'è altra via d'uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l'economia capitalistica da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno a tal punto identificato con l'esistenza, da rendere a tutti evidente l'equazione secondo cui: chi non lavora, dal punto di vista sociale, non esiste. Ma è davvero così? O questa equazione si legittima solo a partire dalla nozione di lavoro che l'economia capitalistica da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno messo in circolazione, senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, dietro ogni lavoro, c'è un uomo che lavora? Se Marx, a suo tempo, denunciava l'alienazione "nel" lavoro, oggi siamo in presenza di un'alienazione più grande, quella "da" lavoro, che consiste nel completo appiattimento dell'uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta l'unico indicatore della riconoscibilità dell'uomo. E allora la domanda che dobbiamo porci è: i fini della tecnica e dell'economia capitalistica sono anche i nostri fini? O siamo noi diventati semplici strumenti della tecnica la quale ci impiegherebbe come momenti della sua organizzazione, semplici anelli insignificanti della sua catena, o, se preferiamo, mezzi imprescindibili, ma anche fra i più intercambiabili di qualsiasi altro mezzo, all'interno di un apparato economico-tecnologico divenuto fine a se stesso? Se così non vogliamo essere, la proposta è quella di passare gradatamente dal "lavoro come produzione" (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al "lavoro come servizio", dove la produzione non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri "indotti", cioè a loro volta "prodotti"), ma anche erogazione di tempo, di cura, di relazione. I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio l'esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico, se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i suoi prodotti e cominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le persone. E questo anche perché la felicità, nonostante la pubblicità serva delle merci vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di detersivi, di telefonini o di computer, e più in generale di prodotti, ma da uno straccio di relazioni in più che il lavoro come "servizio" e non solo come "produzione" potrebbe cominciare a garantire.   
Domani, lunedì 2 di maggio, Umberto Galimberti compirà i Suoi (primi) ottant’anni. Il settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” - nel numero in edicola dal 30 di aprile ultimo - Lo ha voluto festeggiare – “Buon compleanno Professore” – con una intervista a firma di Rita Balestriero dalla quale tracima, copiosamente, quell’umanità che ne ha guidato e ne guida tuttora i Suoi passi: (…). Parliamo nel suo grande studio milanese, libri ovunque, ma ordinati, luminoso come un sesto piano in una giornata di sole. Accanto c'è la stanza rettangolare con il lettino dello psicoanalista, dove il lunedì riceve i suoi pazienti.

Quanti sono? «Dodici. Non ne prendo mai di più».

Perché? «Così posso dedicargli un giorno a settimana, sempre il lunedì. Inizio alle 8 e finisco alle 20, ogni seduta dura 45 minuti, in mezzo un pranzo leggero. Entro nel giro della pazzia e ci sto bene. Se dovessi interrompere lo studio o la scrittura per vedere un paziente, non riuscirei a entrare in relazione con lui allo stesso modo».

Ma la sera poi non è distrutto? «Sì, e allora guardo le repliche di Chi la visto?, è il mio modo per staccare».

Quanto stanno in cura da lei, in media? «Se sono interessati a stare bene, in due anni riescono a farcela. Sa, io gli parlo molto, insegno, così che sappiano imputare le loro azioni a qualcosa. Una volta che hanno imparato il criterio, stanno meglio».

Preferisce i pazienti maschi o femmine? «Di solito gli uomini non sono interessati a conoscere se stessi, cercano soluzioni ai problemi. Vorrebbero risolvere in 20 sedute, ma come si fa? Magari si sono rovinati in 40 anni! Le donne sono più interessanti».

In che senso? «Gli uomini hanno solo l'intelligenza logico matematica, le donne invece hanno anche un'intelligenza intuitiva - capiscono come finirà una situazione - e una sentimentale. Ecco perché i maschi spesso non le comprendono e finiscono per rimproverarle invitandole a ragionare».

Anche lei è così? «Io vengo da una famiglia povera in canna, eravamo in 10 fratelli (lui è l'ottavo, ndr), mia madre faceva la maestra, mio padre è morto quando avevo 14 anni. Non c'era tempo per insegnare i sentimenti, mangiava chi arrivava per primo. Però in casa ho imparato il senso di realtà, che è molto utile nella vita e anche quando faccio analisi».

In che modo l'aiuta? «A volte striglio i pazienti chiedendogli bruscamente: ma questi le sembrano problemi? Oppure, dico loro che è da un paio di sedute che mi sto annoiando, così reagiscono e iniziano a lavorare per davvero».

Dopo 26 anni non si annoia mai a rispondere ai lettori di d? «No, perché la verità è che io non scrivo risposte, ma prendo le loro domande come spunti per trattare un argomento. È una gran fatica, sa?»

Quanto ci impiega? «Mezza giornata, mai di meno. Anche se ogni volta divento più bravo: non c'è niente come l'esercizio per migliorare. La parte più difficile è trovare la lettera giusta e poi, certo, qualcosa di nuovo da scrivere. Il mio desiderio è riuscire ad allargare la testa delle persone, suscitare nuove domande. Se rispondessi e basta, invece, farei esattamente il contrario».

In questi anni sono cambiate le lettere che riceve? «Molto, direi che il livello si è alzato, a volte ricevo lettere che mi rendono orgoglioso. E mi piace anche essere considerato "quello di d”, come se questa rubrica ormai fosse parte di me».

Si ritiene un uomo fortunato? «Qualche volta la fortuna mi ha aiutato. Per esempio, è stata una gran fortuna non essere bravo a sparare perché - per una serie concatenata di eventi - durante il militare sono finito nella caserma di Trieste e li ho conosciuto mia moglie Tatjana (Simonic, ndr). Ma lei non è che mi filasse molto. Se suo padre un giorno non mi avesse cacciato in malo modo perché l'avevo riportata a casa mezz'ora in ritardo, probabilmente non si sarebbe mai decisa. Insomma, anche quella strigliata è stata una gran fortuna. Sa cosa mi diceva?».

No, che cosa le diceva sua moglie? «Che mi aveva scelto perché le davo l'impressione che con me avrebbe potuto sperimentare una libertà che non aveva mai avuto».

E lei ha mantenuto le sue aspettative? «Siamo stati insieme 41 anni e non ho mai conosciuto una donna più bella e intelligente di lei. Guardando la nostra vita si capisce bene cos'è la deviazione della libido: io l'ho deviata nei libri e lei nella ricerca scientifica, di cui era appassionatissima. Ma questo non ci divideva, al contrario, non avevamo neanche bisogno di parlare, ci intendevamo guardandoci. Eravamo innamorati come matti. Quando è mancata non sapevo più perché stavo al mondo».

La sua morte, nel 2008, è coincisa con l'attacco per le accuse di plagio. Sarà stato un periodo durissimo. «Fino al 2013 sono stati anni feroci, ma io li ho vissuti da greco: sùbstine e àbstine, quando arriva il dolore reggilo ed evita di metterlo in scena. Ad aiutarmi poi, c'era la consapevolezza che la colpa non era dentro di me».

A cosa sta lavorando adesso? «A un libro che mi tormenta dal 1996: è pronto, manca solo l'introduzione. Ne ho scritte tante, ma con questa fatico».

Di cosa parla il libro? «Dell'etica del viandante. Non del viaggiatore, che prende un areo per andare da un luogo all'altro, magari in un hotel a cinque stelle. Ma di colui che cammina senza meta, senza mappe, che nel percorso è costretto a prendere delle scelte: guado il fiume, oppure cerco un ponte?».

E lei si sente un viandante? «Non mi sono mai prefisso un obiettivo nella vita, appena mi sono laureato, per dire, mi sono messo a insegnare perché avevo bisogno di guadagnare. All'università neanche ci pensavo. Poi le cose sono capitate».

Sua moglie però non è capitata, è stato lei a rincorrerla. «Ha ragione, sa? Lei è stata l'unica meta che ho cercato di raggiungere in tutti i modi, l’unica donna che abbia corteggiato nella mia vita».

1 commento:

  1. "Siamo nell'età della tecnica, dove non è possibile vivere se non al prezzo di una completa omologazione al mondo dei prodotti che ci circonda, e da cui dipendiamo come produttori e consumatori". (U. Galimberti). "Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini, ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso". (U. Galimberti). "In una cultura come la nostra... il nostro cuore si è fatto duro e si è persa la fiducia nel carattere terapeutico che la comunicazione e la relazione sociale possiedono, come ognuno di noi può verificare quando sta male".(U.Galimberti).Senza dubbio, Umberto Galimberti è una voce preziosa da ascoltare. I suoi libri, le sue interviste sono sempre ricchissimi di spunti di riflessioni che scavano nella profondità e aiutano a comprendere il presente tanto critico in cui viviamo. Grazie per questo stupendo post che considero un nuovo gioiello da conservare gelosamente. Buona continuazione.

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