Oggi è la festa del primo di
maggio, la “festa del lavoro”. Quest’anno, molto tristemente, una “festa di
guerra”. Ritrovo tra le
“sudate carte” uno scritto
profetico,
“Lavoro e felicità”, di
Umberto Galimberti, con una data molto incerta di pubblicazione – 30 di luglio
dell’anno 2006? – e nessuna notizia del quotidiano o della rivista che lo abbia
ospitato:
È evidente che più la società si fa tecnologica, più si riducono i
posti di lavoro. E paradossalmente quello che è sempre stato il sogno più
antico dell'uomo: la liberazione dal lavoro, si sta trasformando in un incubo.
Siccome il processo è irreversibile, nonostante i correttivi, i finanziamenti
mirati, i contratti d'area, i lavori socialmente utili e altre ideazioni che la
politica tenta di escogitare per scongiurare l'incubo, forse non c'è altra via
d'uscita se non quella di ripensare il concetto di lavoro, che l'economia capitalistica
da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno a tal punto identificato con
l'esistenza, da rendere a tutti evidente l'equazione secondo cui: chi non
lavora, dal punto di vista sociale, non esiste. Ma è davvero così? O questa
equazione si legittima solo a partire dalla nozione di lavoro che l'economia
capitalistica da un lato e l'apparato tecnico dall'altro hanno messo in
circolazione, senza prendere minimamente in considerazione il fatto che, dietro
ogni lavoro, c'è un uomo che lavora? Se Marx, a suo tempo, denunciava
l'alienazione "nel" lavoro, oggi siamo in presenza di un'alienazione
più grande, quella "da" lavoro, che consiste nel completo
appiattimento dell'uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse divenuta
l'unico indicatore della riconoscibilità dell'uomo. E allora la domanda che
dobbiamo porci è: i fini della tecnica e dell'economia capitalistica sono anche
i nostri fini? O siamo noi diventati semplici strumenti della tecnica la quale
ci impiegherebbe come momenti della sua organizzazione, semplici anelli
insignificanti della sua catena, o, se preferiamo, mezzi imprescindibili, ma
anche fra i più intercambiabili di qualsiasi altro mezzo, all'interno di un
apparato economico-tecnologico divenuto fine a se stesso? Se così non vogliamo
essere, la proposta è quella di passare gradatamente dal "lavoro come
produzione" (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza
ragione e senza perché) al "lavoro come servizio", dove la produzione
non ha in vista solo beni e merci (di cui al limite non sappiamo neanche cosa
farcene, se non fosse per i bisogni e i desideri "indotti", cioè a
loro volta "prodotti"), ma anche erogazione di tempo, di cura, di
relazione. I profili lavorativi che potrebbero nascere da questa nuova
visualizzazione del lavoro (di cui la società già sente a livello massiccio
l'esigenza, se dobbiamo giudicare dal gran numero di persone che si dedicano al
volontariato) sarebbero profili lavorativi che potrebbero trovare non solo una
reale e massiccia domanda, ma anche un significativo riconoscimento economico,
se l'economia, che pensa sempre e solo alla produzione, sapesse diversificare i
suoi prodotti e cominciare a produrre non solo merci e sempre più merci, ma
anche e in misura crescente servizi per la persona e per la relazione tra le
persone. E questo anche perché la felicità, nonostante la pubblicità serva
delle merci vi alluda, non ci viene dall'ultima generazione di detersivi, di
telefonini o di computer, e più in generale di prodotti, ma da uno straccio di
relazioni in più che il lavoro come "servizio" e non solo come
"produzione" potrebbe cominciare a garantire. Domani, lunedì
2 di maggio, Umberto Galimberti compirà i Suoi (primi) ottant’anni. Il
settimanale
“d” del quotidiano “la Repubblica” - nel numero in edicola dal 30 di aprile ultimo - Lo ha voluto festeggiare –
“Buon compleanno Professore” – con una
intervista a firma di Rita Balestriero dalla quale tracima, copiosamente,
quell’umanità che ne ha guidato e ne guida tuttora i Suoi passi:
(…).
Parliamo nel suo grande studio milanese, libri ovunque, ma ordinati, luminoso
come un sesto piano in una giornata di sole. Accanto c'è la stanza rettangolare
con il lettino dello psicoanalista, dove il lunedì riceve i suoi pazienti.
Quanti sono? «Dodici. Non ne
prendo mai di più».
Perché? «Così posso dedicargli un
giorno a settimana, sempre il lunedì. Inizio alle 8 e finisco alle 20, ogni
seduta dura 45 minuti, in mezzo un pranzo leggero. Entro nel giro della pazzia
e ci sto bene. Se dovessi interrompere lo studio o la scrittura per vedere un
paziente, non riuscirei a entrare in relazione con lui allo stesso modo».
Ma la sera poi non è distrutto?
«Sì, e allora guardo le repliche di Chi la visto?, è il mio modo per staccare».
Quanto stanno in cura da lei, in
media? «Se sono interessati a stare bene, in due anni riescono a farcela. Sa,
io gli parlo molto, insegno, così che sappiano imputare le loro azioni a
qualcosa. Una volta che hanno imparato il criterio, stanno meglio».
Preferisce i pazienti maschi o
femmine? «Di solito gli uomini non sono interessati a conoscere se stessi,
cercano soluzioni ai problemi. Vorrebbero risolvere in 20 sedute, ma come si
fa? Magari si sono rovinati in 40 anni! Le donne sono più interessanti».
In che senso? «Gli uomini hanno
solo l'intelligenza logico matematica, le donne invece hanno anche
un'intelligenza intuitiva - capiscono come finirà una situazione - e una
sentimentale. Ecco perché i maschi spesso non le comprendono e finiscono per
rimproverarle invitandole a ragionare».
Anche lei è così? «Io vengo da
una famiglia povera in canna, eravamo in 10 fratelli (lui è l'ottavo, ndr), mia
madre faceva la maestra, mio padre è morto quando avevo 14 anni. Non c'era
tempo per insegnare i sentimenti, mangiava chi arrivava per primo. Però in casa
ho imparato il senso di realtà, che è molto utile nella vita e anche quando
faccio analisi».
In che modo l'aiuta? «A volte
striglio i pazienti chiedendogli bruscamente: ma questi le sembrano problemi?
Oppure, dico loro che è da un paio di sedute che mi sto annoiando, così
reagiscono e iniziano a lavorare per davvero».
Dopo 26 anni non si annoia mai a
rispondere ai lettori di d? «No, perché la verità è che io non scrivo risposte,
ma prendo le loro domande come spunti per trattare un argomento. È una gran
fatica, sa?»
Quanto ci impiega? «Mezza
giornata, mai di meno. Anche se ogni volta divento più bravo: non c'è niente
come l'esercizio per migliorare. La parte più difficile è trovare la lettera
giusta e poi, certo, qualcosa di nuovo da scrivere. Il mio desiderio è riuscire
ad allargare la testa delle persone, suscitare nuove domande. Se rispondessi e
basta, invece, farei esattamente il contrario».
In questi anni sono cambiate le
lettere che riceve? «Molto, direi che il livello si è alzato, a volte ricevo
lettere che mi rendono orgoglioso. E mi piace anche essere considerato
"quello di d”, come se questa rubrica ormai fosse parte di me».
Si ritiene un uomo fortunato?
«Qualche volta la fortuna mi ha aiutato. Per esempio, è stata una gran fortuna
non essere bravo a sparare perché - per una serie concatenata di eventi -
durante il militare sono finito nella caserma di Trieste e li ho conosciuto mia
moglie Tatjana (Simonic, ndr). Ma lei non è che mi filasse molto. Se suo padre
un giorno non mi avesse cacciato in malo modo perché l'avevo riportata a casa
mezz'ora in ritardo, probabilmente non si sarebbe mai decisa. Insomma, anche
quella strigliata è stata una gran fortuna. Sa cosa mi diceva?».
No, che cosa le diceva sua
moglie? «Che mi aveva scelto perché le davo l'impressione che con me avrebbe
potuto sperimentare una libertà che non aveva mai avuto».
E lei ha mantenuto le sue
aspettative? «Siamo stati insieme 41 anni e non ho mai conosciuto una donna più
bella e intelligente di lei. Guardando la nostra vita si capisce bene cos'è la
deviazione della libido: io l'ho deviata nei libri e lei nella ricerca
scientifica, di cui era appassionatissima. Ma questo non ci divideva, al
contrario, non avevamo neanche bisogno di parlare, ci intendevamo guardandoci.
Eravamo innamorati come matti. Quando è mancata non sapevo più perché stavo al
mondo».
La sua morte, nel 2008, è
coincisa con l'attacco per le accuse di plagio. Sarà stato un periodo
durissimo. «Fino al 2013 sono stati anni feroci, ma io li ho vissuti da greco:
sùbstine e àbstine, quando arriva il dolore reggilo ed evita di metterlo in
scena. Ad aiutarmi poi, c'era la consapevolezza che la colpa non era dentro di
me».
A cosa sta lavorando adesso? «A
un libro che mi tormenta dal 1996: è pronto, manca solo l'introduzione. Ne ho
scritte tante, ma con questa fatico».
Di cosa parla il libro? «Dell'etica
del viandante. Non del viaggiatore, che prende un areo per andare da un luogo
all'altro, magari in un hotel a cinque stelle. Ma di colui che cammina senza
meta, senza mappe, che nel percorso è costretto a prendere delle scelte: guado il
fiume, oppure cerco un ponte?».
E lei si sente un viandante? «Non
mi sono mai prefisso un obiettivo nella vita, appena mi sono laureato, per
dire, mi sono messo a insegnare perché avevo bisogno di guadagnare.
All'università neanche ci pensavo. Poi le cose sono capitate».
Sua moglie però non è capitata, è
stato lei a rincorrerla. «Ha ragione, sa? Lei è stata l'unica meta che ho
cercato di raggiungere in tutti i modi, l’unica donna che abbia corteggiato
nella mia vita».
"Siamo nell'età della tecnica, dove non è possibile vivere se non al prezzo di una completa omologazione al mondo dei prodotti che ci circonda, e da cui dipendiamo come produttori e consumatori". (U. Galimberti). "Il carattere afinalistico della tecnica, che non si muove in vista di fini, ma solo di risultati che scaturiscono dalle sue procedure, abolisce qualsiasi orizzonte di senso, determinando così la fine della storia come tempo fornito di senso". (U. Galimberti). "In una cultura come la nostra... il nostro cuore si è fatto duro e si è persa la fiducia nel carattere terapeutico che la comunicazione e la relazione sociale possiedono, come ognuno di noi può verificare quando sta male".(U.Galimberti).Senza dubbio, Umberto Galimberti è una voce preziosa da ascoltare. I suoi libri, le sue interviste sono sempre ricchissimi di spunti di riflessioni che scavano nella profondità e aiutano a comprendere il presente tanto critico in cui viviamo. Grazie per questo stupendo post che considero un nuovo gioiello da conservare gelosamente. Buona continuazione.
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