A lato. Particolare della "Allegoria del buon governo" (1338) di Ambrogio Lorenzetti .
Ha scritto Michele Serra in “Tra San Clemente e Gino Strada” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 29 di aprile 2022:
(…), la guerra è la più atroce di
tutte le ingiustizie. È un assassinio di massa deciso da pochi capoccia ai
danni di milioni di innocenti. Dirlo, in questo momento, sembra un puro
esercizio retorico. Non dirlo, però, vale a darla vinta a quelli come Putin, e
affini, che sulla guerra puntano tutto il loro miserabile gruzzolo umano
illudendosi di moltiplicarlo. (…). In questi giorni sono state spese molte
ironie, e anche molte bastonature, contro l’inconsistenza del pacifismo, che ci
sa dire come si dovrebbe vivere, non come si deve fare, operativamente, qui e
adesso, con i carri armati davanti alla porta. Però dovrebbero spiegarci, se la
pace è inutile, in che cosa consiste l’utilità della guerra, se non per quei
pochi che sulle macerie ingrassano, e ad ogni cannonata vedono salire le loro
quotazioni in Borsa. Di quali passi avanti è portatrice la guerra, di quali
miglioramenti e di quale incremento della civiltà, della convivenza, dell’amore
per il mondo? (…). Di seguito, “L’ultima
guerra senza vincitori” di Raniero La Valle pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 29 di aprile 2022: Se non si riesce a porre fine a questa
guerra nefasta che ha già distrutto l'anima del mondo prima ancora che le
istituzioni che ne assicurano la vita, è perché non è stato esorcizzato lo
spettro della vittoria. È un luogo comune, ma del tutto falso, che la vittoria
sia la conclusione migliore di una guerra. Si tratta di un mito antico: la
vittoria è il premio della guerra; la vittoria alata si libra sul trionfo del
condottiero, schiaccia l'elmo del vinto; non è concepibile se non la vittoria
come uscita dalla guerra, padre e principio di tutte le cose, come è stata
teorizzata da sempre, almeno a partire dal detto di Eraclito. Perfino Gesù, che
amava i nemici, ammetteva che la guerra si fa per vincerla: "Quale re, partendo
in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con
diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è
ancora lontano gli manda dei messaggeri per chiedergli pace". Ma in realtà
non è affatto vero che, una volta precipitati nella guerra, la cosa migliore è vincerla.
Se oggi celebriamola vittoria del 25 aprile, è perché avevamo perso la guerra,
ed era stata una fortuna, con i tedeschi in casa! Chi oggi rimpiange di non
aver vinto quella guerra? Nemmeno i fascisti. Altri orrori si sarebbero
aggiunti agli orrori. E non avremmo avuto la Costituzione, la libertà,
l'industria, il denaro, tutte le cose di cui oggi ci gloriamo. Eppure siamo
sempre là. Il segretario di Stato americano Antony Blinken e il capo del
Pentagono Lloyd Austin nella loro fuggevole visita a Kiev di qualche giorno fa
hanno promesso all'Ucraina di Zelensky di farle vincere la guerra, che poi vuol
dire che a vincerla saranno gli Stati Uniti. La stessa cosa aveva promesso
qualche giorno prima il presidente Biden in un tweet (che sono le nuove
dichiarazioni di guerra che una voltasi consegnavano agli ambasciatori)
enumerando le armi e i soldi che gli Stati Uniti avrebbero fornito all'Ucraina,
mentre Lloyd Austin ha aggiunto che bisogna fiaccare la Russia in modo che non possa
fare più nessuna guerra. Più vittoria di questa! Naturalmente anche Putin vuole
vincere, tanto più ora quando gli hanno detto in tutti i modi che in gioco c'è
non solo la sua sopravvivenza ma quella stessa della Russia; però non sa come
fare, perché certo non basta, come ha chiesto al ministro della Difesa Shoigu,
non far volare nemmeno una mosca sull'acciaieria Azovstal (che non sembra la
metafora di una vittoria). E vincere vuole soprattutto Zelensky, ben contento
che ora le armi, come ha detto, gli arrivino “in tempo reale”; cioè subito e
quante ne vuole. Ma l'Ucraina ha già pagato un alto prezzo al mito della
vittoria, questo spettro che viene dal regno dei morti, dagli Stati Uniti
attraversa l’Atlantico, da Ramstein si aggira per l'Europa e minaccia il mondo
dal mucchio di cadaveri su cui sale in Ucraina. Già una rovina era stata per
l'Ucraina aver insistito con puntiglio a volere la Nato, nonostante ci fossero
ben più di ventimila russi a premere sulla frontiera del Paese (e chissà per quale
inconfessato disegno incoraggiati da Biden a entrarvi, come sostengono
Caracciolo e Limes). Ma la catastrofe è venuta per l'Ucraina quando ha
cominciato a credere che la guerra poteva vincerla davvero con tutti gli
incoraggiamenti e l'altruismo sospetto dell'Occidente, con gli aiuti di ogni
genere, politici, militari, economici, sacrali, con il suo straziato popolo narrato
come esercito, sia pure con lo stereotipo delle donne che accudiscono e portano
in salvo i bambini mentre gli uomini restano o sono mandati indietro a
combattere, e oltre cinque milioni di profughi, e le città bombardate e
distrutte, e la fama di invitti su tutti i teleschermi e in molti Parlamenti
del mondo, compreso il nostro. In realtà, a questo punto della storia, dopo tutti
gli errori che da una parte e dall'altra sono stati fatti, la vittoria, di chiunque
essa sia, è la peggiore sciagura che possa capitare. Come dice il papa: che
vittoria c'è sulle macerie? E Noam Chomsky, nell'intervista a Truthout che gli
chiede se siamo all'inizio di una nuova era di continuo confronto tra la Russia
e l'Occidente, risponde che è difficile sapere dove cadranno le ceneri, "e
questa potrebbe non essere una metafora". Infatti, secondo Chomky,
"che piaccia o no, le opzioni ora si riducono o a un brutto
risultato" che premia piuttosto che punire Putin per l'atto di
aggressione, o alla forte possibilità di una guerra terminale". E questa,
secondo Chomsky, sarebbe "una condanna a morte per la specie, senza
vincitori: siamo un punto di svolta nella storia dell'umanità. Non lo si può
negare. Non lo si può ignorare. "Senza vincitori": perché che cosa
sarebbe una vittoria per gli Stati Uniti e la Nato e l'Europa, se davvero essa
dovesse consistere nell'accendere la miccia della terza guerra mondiale,
mettendo fuori gioco la Russia, provocando la Cina e prospettando all'umanità
intera un mondo fatto del solo Occidente? E che cosa sarebbe una vittoria per
la Russia, che andasse al di là della rivendicazione iniziale di
un'interdizione della minaccia proveniente dall'Ovest, se ciò volesse dire
diventare l'anatema delle nazioni, essere votata alla negazione genocida del suo
esserci stesso, che si tratti del rublo, del popolo o del Lago dei cigni? E
cosa sarebbe una vittoria per l'Ucraina se anche recuperasse la Crimea, e il
Donbass, quando pur sempre rimarrebbe lì, a fare da antemurale dell'Occidente
contro la Russia che, Putin o non Putin, certamente non sparirebbe e sarebbe
pur sempre una grande Potenza ansiosa di rivincita, mentre l'Ucraina sarebbe
ancora lì, gloria sì del mondo libero, ma sua prima vittima sul monte Moria? E
l'Oscar all'attore protagonista! In questa situazione è del tutto
irresponsabile fare il tifo per la vittoria dell'uno o dell'altro, comunque questa
vittoria la si voglia chiamare, difesa della Patria o dominio del mondo; ed è
un'insensata complicità voler essere nel campo dei vincitori. Vera sapienza è
la ricerca di un'alternativa alla vittoria per mettere fine alla guerra. Tale
alternativa sta nel dialogo, nel negoziato, nel riconoscere ciascuno le ragioni
dell'altro, nello "scambiarsi con l'altro", nel sapere che la
sicurezza dell'altro è la sicurezza anche propria, perché la sicurezza non
consiste in uno "status", ma in un rapporto, o è di tutti o non è di
nessuno, come già aveva realizzato la saggezza dell'Onu. Tra le macerie di
questa guerra c'è l'illusione, o la speranza, che si potesse costruire un nuovo
ordine mondiale, fondato non sulla potenza ma sul diritto, non sulla ragion di
Stato, ma sulle ragioni dei popoli, non sulle guerre vinte, ma sulla guerra
ripudiata. In ogni caso si può sempre ricominciare di nuovo. Come ha scritto in
una sua poesia il politico Pietro Ingrao, "leva in alto la
sconfitta". Il vero germe della vocazione spirituale dell'Occidente, sia
nella versione greca che in quella cristiana come ci ha suggerito Simone Weil,
non è la gloria dei vincitori, ma è il sentimento della miseria umana, che è
una condizione della giustizia e dell'amore: in Grecia, sostiene la Weil, per
il trauma non rimosso del crimine della distruzione di Troia (l'Iliade!), nella
tradizione cristiana perché al patimento della miseria umana neppure uno
spirito divino può sottrarsi se unito alla carne (i Vangeli!), ciò che vuol dire
non soggiacere al dominio della forza, il rifiuto di tutti i rapporti di
dominio. Come ha ricordato papa Francesco celebrando la "resistenza e
resa" della Pasqua, "con Dio si può sempre tornare a vivere".
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