“Storie dalla Calabria”. Storia tratta da “Paese mio non ti lascio preferisco la restanza”, intervista di Nicola Mirenzi al professor Vito Teti – antropologo, già docente presso l’Università della Calabria, vive e lavora nel natio paese di San Nicola da Crissa – pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 20 di maggio 2022:
La pandemia ha cambiato le cose? «Durante la pandemia si è tessuto l'elogio del piccolo borgo, nel quale lavorare a distanza, con lentezza, comodità, relax, e buon cibo».
E non è così? «No, il borgo è diverso dal paese».
In che senso? «Nel senso che il borgo è un luogo illusorio, un piccolo paradiso in cui si vive come i turisti, con tutti i comfort, e poi si torna a casa. Il paese, invece, non è un luogo paradisiaco. Le case in cui si vive non costano un euro, come nelle campagne promozionali dei borghi. Sono costate fatica. Costruite una generazione dopo l'altra. C'è una comunità, ci sono relazioni, c'è una memoria, e una natura non addomesticata».
Meglio lasciarli vuoti? «Ma portare mille persone in un borgo, con una connessione internet per lo smart working e l'agriturismo per fargli assaggiare i marchi dell'autenticità, non significa far vivere un paese spopolato. Quello riempirà semmai un vuoto fisico, ma rimarrà il vuoto antropologico, ciò che fa di un paese un paese. Non è indifferente scegliere l'Italia dei borghi, anziché quella dei paesi».
Ma perché i paesi non dovrebbero morire, come tutto il resto? «Innanzitutto perché un luogo che si ama, fintanto che è ancora vivo, lo si custodisce e lo si preserva. Non ci si allea con la morte per aprirgli la strada e mortificarlo».
Ma ha senso? «Sono contro l'accanimento terapeutico. Però osservo che, parallelamente alla globalizzazione, si è realizzato anche un movimento contrario e sovrapposto: un ritorno alle identità specifiche, alle culture particolari. Al mito dell'altrove, si è affiancato un bisogno di radicamento. Un desiderio che i paesi possono proporsi di soddisfare adeguatamente. Se si costruissero le condizioni».
Il suo paese però è sempre più vuoto. «Soffro nel vederlo scomparire piano piano. E mi addolora quando chi è rimasto indugia in una nostalgia passatista, nel lamento del tempo che non c'è più, anziché rivolgere la nostalgia al futuro».
Lei perché non se n'è andato? «Me lo domando continuamente. Ma, allo stesso tempo, mi dico: "Se te ne fossi andato, ora non avresti voluto tornare?". Infinite volte mi sono sentito in esilio a casa mia. Ho viaggiato con le idee, i racconti degli altri, con lo studio, con le nebbie e il vento. Sempre immobile, ma continuamente altrove con la mente. Spaesato nel mio paese. Estraneo nel posto più familiare che ho. Trascinato dal flusso delle pagine, ho definito, questa, "la mia lunga follia"».
Che, poi, è il cuore del suo lavoro, no? «Le fonti dell'antropologo solitamente sono le altre persone. Nel mio caso, sono io l'informatore di me stesso. Immerso completamente nell'oggetto del mio studio. Ho speso la mia vita per testimoniare il mondo che racconto. Le catastrofi che l'hanno sconvolto. Le macerie che sono rimaste. La vita che è stata e quella che è. Sono arrivato alla conclusione che il paese è un luogo molto complesso. Più complesso di alcuni luoghi della modernità».
Non resta anche chi vive in città? «Senz'altro. E a volte rimane più fermo di chi vive in un paese. Restanza significa interrogare il luogo in cui si è. Qualunque esso sia: la periferia di una metropoli, oppure il quartiere residenziale di una grande cittadina. Significa avere attenzione per ciò che ci circonda. Dargli un senso. Inserirlo in una trama. Difenderlo e proteggerlo. Ma anche rinnovarlo e proiettarlo nel futuro».
In città, però, è più difficile parlare coni morti. «Nel mondo contadino, invece, i vivi sono sempre in compagnia di chi non c'è più. Si fa festa in loro memoria, li si ricorda nei pasti e nei discorsi. Le assicuro che non soffro di allucinazioni, ma quando cammino sulla via di casa, a volte, mi sembra di vedere ancora mia madre che parla con le altre donne della ruga».
E si ferma a parlare anche lei con loro? «Ora non vorrei sembrarle in preda a un delirio mistico».
Ma si figuri. «Però, come diceva Jung, abbiamo il dovere di ascoltare la voce dei morti. Perché questo è l'unico modo per sentire ciò che ha da dirci il passato. E, dialogando, portarlo con noi nel futuro».
RispondiElimina"È possibile spostarsi anche senza allontanarsi dal posto in cui si è nati... Restare è difficile e non ci sono, nonostante gli annunci, politiche reali in grado di sostenere chi fa questa scelta. Manca il lavoro, non ci sono infrastrutture, la criminalità è una presenza ancora marcata... La restanza è il viaggio da fermo, è l'attesa attiva... Ecco quindi che restare e viaggiare diventano due immagini dello stesso senso di mobilità ". (Vito Teti). " Una destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose ". (Henri Miller). " Del passato dovremmo riprendere i fuochi e non le ceneri ". (Jean Leon Jaures). " Il passato è come una lampada posta all'ingresso del futuro ". (Felicite' Robert de Lamennais). " Il passato è un segnale di direzione, non un palo dove appoggiarsi". (Thomas Holcroft). Grazie, carissimo Aldo, per questo stupendo post che non posso fare a meno di definire straordinario. E non solo perché rivaluta il "Passato", cosa che, verso la fine della vita, avviene, credo, quasi sempre... Ma soprattutto perché ritengo che tutti, anche i giovani, dovrebbero sentire come una forte necessità, quella di portare il Passato nel futuro. Grazie ancora e buona continuazione.