"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 28 maggio 2022

Piccolegrandistorie. 20 1943: «Con immensa gioia annunciamo che il compito di impadronirci della nostra meravigliosa città di Kiev è stato eseguito. Kiev è stata completamente ripulita dagli occupanti fascisti».

A lato. Irène Némirovsky.

“Guerra&Storia”. Spero tanto che almeno alcuni degli incauti navigatori della “rete”, approdati fortunosamente su questo blog, abbiano potuto conoscere ed apprezzare, se non amare, la fatica cinematografica di Saul Dibb in Suite francese” (2014) tratto dall’omonimo romanzo di Irène Némirovsky.

È un film, Suite francese”, ove si narra la storia di “Lucille Angellier (che) vive assieme all'autoritaria suocera in un piccolo paese della campagna francese. La donna attende notizie del marito, che non ha mai veramente amato, partito per la guerra e caduto prigioniero dei tedeschi e trova conforto nel suo pianoforte. La vita della tranquilla cittadina viene sconvolta dall'occupazione dei nazisti e Lucille incontra l'affascinante tenente tedesco Bruno von Falk, assegnatole come ospite nella sua abitazione. Nonostante le iniziali resistenze di lei, tra i due nasce un'intensa storia d'amore. A impedire che i due possano amarsi intervengono le vicende belliche” (tratto da Wikipedia n.d.r.). Parlare di Irène Némirovsky è come dar la parola alla Sua città natale, Kiev, ove nacque l’11 di febbraio dell’anno 1903 per finire poi, tragicamente, la Sua straordinaria vita in quel luogo di umane sofferenze e di morte, che è stata Auschwitz, il 17 di agosto dell’anno 1942. E di Irène Némirovsky ne ha scritto Daria Galateria sull’ultimo numero del settimanale “il Venerdì di Repubblica” di ieri – “La Finlandia della giovane Irene” -, venerdì 27 di maggio 2022: Irène Némirovsky non aveva ancora 15 anni quando fuggì in Finlandia in slitta, avvolta nelle coperte come in un letto. Il padre Leonid, amministratore della Banca dell'Unione di Mosca, abilissimo uomo d'affari (quando regalava alla figlia un gioiello, le diceva: "Attenta a non perderlo, l'ho preso la settimana scorsa e vale già il doppio") si era spostato dai magazzini di Odessa - Irène soffriva d'asma nella nativa Kiev immersa nei campi di segale - a Mosca e a Pietrogrado. Con la Rivoluzione il sistema bancario diventò monopolio di Stato, e a inizio gennaio 1918 Leonid, con una taglia sulla testa, partì con la famiglia in Finlandia. Mustamäki, in Carelia, era un villaggio di confine dove molti russi possedevano una dacia - anche Lenin ci era andato, prima dell'insurrezione d'ottobre. Nel vecchio albergo in cui ripararono i Némirovsky, l'elettricità era tagliata da novembre; Irène non aveva mai visto luogo più misero, si giocava a bridge, e "gli ebrei facevano affari per finta per non perdere l'abitudine"; però c'erano libri sparigliati di Balzac e di Dumas, e gli alberi erano "fragili edifici di zucchero, pezzi di specchio e scaglie di diamanti"; per la noia, Irène, futura scrittrice (…), cominciò a "scarabocchiare". Annessa nel 1808, la Finlandia aveva goduto di una certa autonomia, ritirata da Nicola II, e riconquistata nel 1905. Col 1917, il Paese sognò di recuperare l'indipendenza; quarantamila soldati bolscevichi stazionavano nel Paese, e Lenin, occupato a negoziare la pace con la Germania, le aveva accordato un'indipendenza di facciata; l'Ostrobotnia (Finlandia occidentale) aprì comunque le ostilità per "liberare il suolo nazionale". In primavera, la linea del fronte si spostò bruscamente a sud; dalle finestre dell'albergo, Irène avvistava ombre femminili cercare i cadaveri nella neve. Vide anche tagliare la mano a un ladro, ma le donne erano "emancipate, potevano prendere tutti i posti, tutti i diplomi, come gli uomini", e tutti erano ferocemente patrioti. A maggio, settantamila guardie rosse si arresero; dodicimila erano morti di fame e di ferite; fu proclamata una reggenza monarchica a Helsinki. I Némirovsky vi si erano intanto installati, nel Grand Hotel sul porto: Irène stupita di quel "confort nordico", dei telefoni dappertutto e soprattutto della libreria "così grande e ricca, come non ne aveva mai viste". Passò a Stoccolma e poi nella definitiva Parigi; lì ritrovò il padre, smagrito per ricreare dal nulla la sua fortuna (…). Il 26 di febbraio ultimo, due giorni appena dalla brutale aggressione patita dalla Ucraina, Ezio Mauro, sul quotidiano “la Repubblica”, consegnava, alla nostra lettura, la città di Kiev come in un reportage che ha per titolo “Il principe e il Drago il destino della sacra Kiev”, che di seguito riporto nella sua interezza: Nella città santa tutto era già scritto, fin dall’anno leggendario 6476 (il 968 dopo Cristo) quando i nomadi Peceneghi, di lingua turca, dal basso Volga si avventurarono nella Rus’ assediando con le loro schiere Kiev, «cingendola tutt’intorno con una moltitudine innumerevole - racconta il testo medievale della Cronaca di Nestore - tanto che non si poteva uscire né inviare messaggi e gli abitanti presto furono stremati dalla fame e dalla sete». D’altra parte c’era stato un presagio: «Un segno apparve a Occidente, una stella smisurata si alzava la sera dopo il tramonto, e ciò si ripeté per sette giorni. Quella stella era come di sangue e versamento di sangue preannunciava». Altri segni erano sparsi nei versi del Canto della schiera di Igor: «Neri nembi vengono dal mare/copriranno i quattro soli/ rabbrividiscono lampi azzurri/ dilagò l’amarezza e un dolore greve/ si riversò dentro la terra russa./ Intanto, fratelli/ gemeva Kiev sotto l’angoscia». Oggi Vladimir Putin con il suo smisurato esercito è tornato davanti a quegli stessi bastioni dove più di mille anni fa si era rinserrata Olga, la madre del Gran Principe, coi suoi tre nipoti, incitando il popolo alla resistenza. Il Principe Svjatoslav, affascinato dal Danubio e dall’avventura (dormiva senza una tenda, appoggiato alla sua sella d’oro) era rimasto a Perejaslavec col suo esercito di 60 mila uomini, dopo aver preso il controllo del bacino del Don, del corso del Volga, della sponda sul mar Caspio, e dopo aver attaccato i Balcani e sconfitto i bulgari. Ma Kiev sulle acque del Dnepr rimaneva il cuore del commercio sulla via che collega i variaghi scandinavi ai greci del Sud, il Baltico a Costantinopoli, attraversando la steppa, passando per le foreste. Ogni anno in autunno il Principe e la corte viaggiavano dalle tribù slave che Kiev aveva sottomesso, riscuotevano i tributi in miele, pellicce, cera, barche e schiavi e col disgelo che schiudeva il gran fiume tornavano nella capitale annunciati dal suono del corno a palazzo. Ma la città era anche l’anima dell’antica Rus’, la culla del mondo slavo raccontata da tre leggende. La prima vuole che sia stata fondata da un barcarolo di nome Kij, affascinato dalla vista della collina quando traghettò sull’altra sponda del Dnepr. La seconda narra di tre fratelli che si unirono per costruire le prime dimore sull’altura di Boricev, dove viveva uno di loro, Kij. La terza vuole che i russi variaghi (i quali forse avevano preso il nome dal Volga, allora chiamato Rha) venissero invitati da alcune tribù slave in discordia a comandare sulle loro terre: «Il nostro territorio è ricco e grande, ma in esso non vi è ordine. Venite a governare e regnare su di noi»: quasi prefigurando il destino della “chiamata” dietro la quale il potere russo e sovietico ha sempre mascherato le sue azioni imperiali in ogni epoca, fino ad oggi. Nella leggenda si muove ancora il Principe Guerriero Oleg che dopo essersi spinto fino a Costantinopoli inchiodando il suo scudo sulle porte della città, a memoria perenne, occupa Kiev nell’882 stabilendo che «questa città sarà la madre di tutte le città della Rus’». È una capitale di guerra, sangue, conquiste e battaglie, con Svjatopolk il Maledetto che uccide due suoi fratelli, e con la tentazione perpetua per tutti i Principi di crescere a Nord sul Baltico, a Ovest nella Galizia, a Sud verso la Persia, e Vladimir II il Monomaco che nel suo testamento parla di 83 campagne belliche con 200 principi uccisi. Una fama che finisce in un’incisione sul cranio di Svjatoslav, trasformato dal Khan vincitore, dopo l’uccisione, in una coppa per il vino: «Chi è avido del bene altrui, spesso perde il proprio». Ma Kiev è anche una capitale spirituale, dopo che Vladimir il Santo obbliga il popolo a convertirsi, portando il cristianesimo al posto degli idoli pagani che sorvegliavano e proteggevano la città nel legno gigantesco delle statue, dal bosco sacro sulla collina di Boricev. Il Dio unico dei cristiani però non arriva da Roma, bensì da Costantinopoli, col greco antico al posto del latino, i canti, le vesti e l’incenso della liturgia bizantina, che da quel momento benedirà i sovrani in un rito separato rispetto alla tradizione di Roma, alla devozione dell’Europa, alla religione dell’Occidente. Il fondamento religioso della Rus’ si separa fin dalle origini dall’Ovest, scegliendo la dimensione dell’Oriente. Poi la modernità, con la rivoluzione, la guerra civile, quando la città conta dodici rovesciamenti di potere, anzi secondo qualcuno quattordici, addirittura diciotto, il busto nero di Marx che s’innalza davanti alla Duma e le vecchie che aspettano l’Anticristo: «I tempi leggendari si erano spezzati e improvvisamente e minacciosamente vi era entrata la storia». L’Holodomor, la carestia dei primi Anni Trenta con milioni di morti che l’Ucraina ricorda a novembre come genocidio. La guerra con l’offensiva dell’Armata Rossa a fine ’43 per liberare Kiev rompendo il fronte tedesco sulla linea del Dnepr e il telegramma del 6 novembre: «Con immensa gioia annunciamo che il compito di impadronirci della nostra meravigliosa città di Kiev è stato eseguito. Kiev è stata completamente ripulita dagli occupanti fascisti». Comincia la nuova era per la città, che torna a immergersi nei suoi vapori di brina e di fumo che salgono dai comignoli e dal fiume mentre passano i vetturini e le donne coi colletti di pelo argentato, sotto «i globi scintillanti dell’illuminazione elettrica, appesi in alto agli uncini dei pali». Mikhail Bulgakov usciva di casa, al 13 di Andrijvskij Uviz, camminava in discesa sui ciottoli verso la città bassa, inseguiva d’inverno l’energia che la città aveva accumulato nel sole e nei temporali d’estate, e la vedeva trasformarsi in luce. «Scintillava e traboccava la città, riluceva e danzava e baluginava nelle notti, fino al mattino, quando si spegneva e indossava il fumo e la nebbia». In alto splendeva la bianca croce elettrica tra le mani del gigantesco Vladimir sulla collina, e le barche la riconoscevano da lontano. Si stringeva negli appartamenti una popolazione nuova rifugiata da Mosca, «banchieri brizzolati, uomini d’affari, mercanti, avvocati, dame rispettabili e cocotte, pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le labbra dipinte di carminio». Si aprivano nuove botteghe, teatri di varietà, il maestoso Club Cenere per gli artisti, dove c’era rumore di stoviglie fino all’alba. Come se volessero infilarsi ancora in quel vecchio granaio del mondo che era l’Ucraina, i colombi sovietici prendevano la rincorsa dai tetti dell’Uliza Bafeina, sfioravano i pesci giganteschi scolpiti sopra l’insegna, passavano davanti alle anatre di ferro battuto che adornano il cancello e si tuffavano ogni giorno dentro il Bessdarabski Rynok, quel caravanserraglio di penuria, odori, voglie e memorie che è il vecchio mercato di Kiev. All’epoca di Bulgakov nelle vetrine si mostravano creme circondate da fiori, dorsi di pesce affumicato, selvaggina a grappoli nelle piume colorate. Negli anni finali dell’impero tra i banchi vuoti e disadorni pendevano dai ganci di Stato le teste di maiale a 12 rubli, spuntavano i narcisi a 8 kopeki, il ribes di Povno accanto ai pomodori azerbajdzhani e alle mele grasse di Crimea a 6 rubli, prima dell’uva passa e delle albicocche secche di Tashkent: per arrivare infine laggiù in fondo al banco della carne con tre oche e quindici polli attorno a quattro anatre di Borispol. Fuori, qualcuno prova ancora a vendere a poco prezzo le mele verdi di Zhitomer, sospette per la polvere di Chernobyl. Kiev diffida, tra gloria, disperazione e memoria. Sul marciapiede le vecchie offrono sul cucchiaio le strisce di cavolo sottaceto, e sembrano pescare negli stessi pentoloni in cui le streghe di Kiev cento anni fa cuocevano le erbe magiche prima di volare sul Monte Calvo a ballare con gli spiriti ucraini dei boschi, al canto popolare dei byliny, i poemi epici orali. Come il racconto del duello tra il giovane Dobrynja e del drago Gorynic con tre teste e dodici code, «che volava basso sulla città di Kiev/ sfiorando la madre terra». Alla fine, dopo aver attaccato col fuoco il ragazzo, il drago possente cade, finisce imprigionato ed è costretto a implorare un accordo: «Stringiamo tra noi due un patto/ di non scontrarci mai nella sgombra pianura/ né mai fra noi far lotte sanguinose./ Da oggi, mai più».

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