A lato. Irène Némirovsky.
“Guerra&Storia”. Spero tanto che almeno alcuni degli incauti navigatori della “rete”, approdati fortunosamente su questo blog, abbiano potuto conoscere ed apprezzare, se non amare, la fatica cinematografica di Saul Dibb in “Suite francese” (2014) tratto dall’omonimo romanzo di Irène Némirovsky.
È un film, “Suite
francese”, ove si narra la storia di “Lucille Angellier (che)
vive assieme all'autoritaria suocera in un piccolo paese della campagna
francese. La donna attende notizie del marito, che non ha mai veramente amato,
partito per la guerra e caduto prigioniero dei tedeschi e trova conforto nel
suo pianoforte. La vita della tranquilla cittadina viene sconvolta
dall'occupazione dei nazisti e Lucille incontra l'affascinante tenente tedesco
Bruno von Falk, assegnatole come ospite nella sua abitazione. Nonostante le
iniziali resistenze di lei, tra i due nasce un'intensa storia d'amore. A
impedire che i due possano amarsi intervengono le vicende belliche” (tratto
da Wikipedia n.d.r.). Parlare di Irène Némirovsky è come dar la parola alla Sua
città natale, Kiev, ove nacque l’11 di febbraio dell’anno 1903 per finire poi,
tragicamente, la Sua straordinaria vita in quel luogo di umane sofferenze e di morte,
che è stata Auschwitz, il 17 di agosto dell’anno 1942. E di Irène
Némirovsky ne ha scritto Daria Galateria sull’ultimo numero del settimanale “il
Venerdì di Repubblica” di ieri – “La
Finlandia della giovane Irene” -, venerdì 27 di maggio 2022: Irène
Némirovsky non aveva ancora 15 anni quando fuggì in Finlandia in slitta,
avvolta nelle coperte come in un letto. Il padre Leonid, amministratore della
Banca dell'Unione di Mosca, abilissimo uomo d'affari (quando regalava alla
figlia un gioiello, le diceva: "Attenta a non perderlo, l'ho preso la
settimana scorsa e vale già il doppio") si era spostato dai magazzini di
Odessa - Irène soffriva d'asma nella nativa Kiev immersa nei campi di segale -
a Mosca e a Pietrogrado. Con la Rivoluzione il sistema bancario diventò
monopolio di Stato, e a inizio gennaio 1918 Leonid, con una taglia sulla testa,
partì con la famiglia in Finlandia. Mustamäki, in Carelia, era un villaggio di
confine dove molti russi possedevano una dacia - anche Lenin ci era andato,
prima dell'insurrezione d'ottobre. Nel vecchio albergo in cui ripararono i
Némirovsky, l'elettricità era tagliata da novembre; Irène non aveva mai visto
luogo più misero, si giocava a bridge, e "gli ebrei facevano affari per
finta per non perdere l'abitudine"; però c'erano libri sparigliati di
Balzac e di Dumas, e gli alberi erano "fragili edifici di zucchero, pezzi
di specchio e scaglie di diamanti"; per la noia, Irène, futura scrittrice
(…), cominciò a "scarabocchiare". Annessa nel 1808, la Finlandia
aveva goduto di una certa autonomia, ritirata da Nicola II, e riconquistata nel
1905. Col 1917, il Paese sognò di recuperare l'indipendenza; quarantamila
soldati bolscevichi stazionavano nel Paese, e Lenin, occupato a negoziare la
pace con la Germania, le aveva accordato un'indipendenza di facciata;
l'Ostrobotnia (Finlandia occidentale) aprì comunque le ostilità per
"liberare il suolo nazionale". In primavera, la linea del fronte si
spostò bruscamente a sud; dalle finestre dell'albergo, Irène avvistava ombre
femminili cercare i cadaveri nella neve. Vide anche tagliare la mano a un
ladro, ma le donne erano "emancipate, potevano prendere tutti i posti,
tutti i diplomi, come gli uomini", e tutti erano ferocemente patrioti. A
maggio, settantamila guardie rosse si arresero; dodicimila erano morti di fame
e di ferite; fu proclamata una reggenza monarchica a Helsinki. I Némirovsky vi
si erano intanto installati, nel Grand Hotel sul porto: Irène stupita di quel
"confort nordico", dei telefoni dappertutto e soprattutto della
libreria "così grande e ricca, come non ne aveva mai viste". Passò a
Stoccolma e poi nella definitiva Parigi; lì ritrovò il padre, smagrito per
ricreare dal nulla la sua fortuna (…). Il 26 di febbraio ultimo, due giorni
appena dalla brutale aggressione patita dalla Ucraina, Ezio Mauro, sul
quotidiano “la Repubblica”, consegnava, alla nostra lettura, la città di Kiev come
in un reportage che ha per titolo “Il
principe e il Drago il destino della sacra Kiev”, che di seguito riporto nella sua interezza: Nella città santa tutto era già
scritto, fin dall’anno leggendario 6476 (il 968 dopo Cristo) quando i nomadi
Peceneghi, di lingua turca, dal basso Volga si avventurarono nella Rus’
assediando con le loro schiere Kiev, «cingendola tutt’intorno con una
moltitudine innumerevole - racconta il testo medievale della Cronaca di Nestore
- tanto che non si poteva uscire né inviare messaggi e gli abitanti presto
furono stremati dalla fame e dalla sete». D’altra parte c’era stato un
presagio: «Un segno apparve a Occidente, una stella smisurata si alzava la sera
dopo il tramonto, e ciò si ripeté per sette giorni. Quella stella era come di
sangue e versamento di sangue preannunciava». Altri segni erano sparsi nei
versi del Canto della schiera di Igor: «Neri nembi vengono dal mare/copriranno
i quattro soli/ rabbrividiscono lampi azzurri/ dilagò l’amarezza e un dolore
greve/ si riversò dentro la terra russa./ Intanto, fratelli/ gemeva Kiev sotto l’angoscia».
Oggi Vladimir Putin con il suo smisurato esercito è tornato davanti a quegli
stessi bastioni dove più di mille anni fa si era rinserrata Olga, la madre del
Gran Principe, coi suoi tre nipoti, incitando il popolo alla resistenza. Il
Principe Svjatoslav, affascinato dal Danubio e dall’avventura (dormiva senza
una tenda, appoggiato alla sua sella d’oro) era rimasto a Perejaslavec col suo
esercito di 60 mila uomini, dopo aver preso il controllo del bacino del Don,
del corso del Volga, della sponda sul mar Caspio, e dopo aver attaccato i
Balcani e sconfitto i bulgari. Ma Kiev sulle acque del Dnepr rimaneva il cuore
del commercio sulla via che collega i variaghi scandinavi ai greci del Sud, il
Baltico a Costantinopoli, attraversando la steppa, passando per le foreste.
Ogni anno in autunno il Principe e la corte viaggiavano dalle tribù slave che
Kiev aveva sottomesso, riscuotevano i tributi in miele, pellicce, cera, barche
e schiavi e col disgelo che schiudeva il gran fiume tornavano nella capitale annunciati
dal suono del corno a palazzo. Ma la città era anche l’anima dell’antica Rus’,
la culla del mondo slavo raccontata da tre leggende. La prima vuole che sia
stata fondata da un barcarolo di nome Kij, affascinato dalla vista della
collina quando traghettò sull’altra sponda del Dnepr. La seconda narra di tre
fratelli che si unirono per costruire le prime dimore sull’altura di Boricev,
dove viveva uno di loro, Kij. La terza vuole che i russi variaghi (i quali
forse avevano preso il nome dal Volga, allora chiamato Rha) venissero invitati
da alcune tribù slave in discordia a comandare sulle loro terre: «Il nostro
territorio è ricco e grande, ma in esso non vi è ordine. Venite a governare e
regnare su di noi»: quasi prefigurando il destino della “chiamata” dietro la
quale il potere russo e sovietico ha sempre mascherato le sue azioni imperiali
in ogni epoca, fino ad oggi. Nella leggenda si muove ancora il Principe
Guerriero Oleg che dopo essersi spinto fino a Costantinopoli inchiodando il suo
scudo sulle porte della città, a memoria perenne, occupa Kiev nell’882
stabilendo che «questa città sarà la madre di tutte le città della Rus’». È una
capitale di guerra, sangue, conquiste e battaglie, con Svjatopolk il Maledetto
che uccide due suoi fratelli, e con la tentazione perpetua per tutti i Principi
di crescere a Nord sul Baltico, a Ovest nella Galizia, a Sud verso la Persia, e
Vladimir II il Monomaco che nel suo testamento parla di 83 campagne belliche
con 200 principi uccisi. Una fama che finisce in un’incisione sul cranio di
Svjatoslav, trasformato dal Khan vincitore, dopo l’uccisione, in una coppa per
il vino: «Chi è avido del bene altrui, spesso perde il proprio». Ma Kiev è
anche una capitale spirituale, dopo che Vladimir il Santo obbliga il popolo a
convertirsi, portando il cristianesimo al posto degli idoli pagani che
sorvegliavano e proteggevano la città nel legno gigantesco delle statue, dal
bosco sacro sulla collina di Boricev. Il Dio unico dei cristiani però non
arriva da Roma, bensì da Costantinopoli, col greco antico al posto del latino,
i canti, le vesti e l’incenso della liturgia bizantina, che da quel momento
benedirà i sovrani in un rito separato rispetto alla tradizione di Roma, alla
devozione dell’Europa, alla religione dell’Occidente. Il fondamento religioso
della Rus’ si separa fin dalle origini dall’Ovest, scegliendo la dimensione
dell’Oriente. Poi la modernità, con la rivoluzione, la guerra civile, quando la
città conta dodici rovesciamenti di potere, anzi secondo qualcuno quattordici,
addirittura diciotto, il busto nero di Marx che s’innalza davanti alla Duma e
le vecchie che aspettano l’Anticristo: «I tempi leggendari si erano spezzati e
improvvisamente e minacciosamente vi era entrata la storia». L’Holodomor, la
carestia dei primi Anni Trenta con milioni di morti che l’Ucraina ricorda a
novembre come genocidio. La guerra con l’offensiva dell’Armata Rossa a fine ’43
per liberare Kiev rompendo il fronte tedesco sulla linea del Dnepr e il
telegramma del 6 novembre: «Con immensa gioia annunciamo che il compito di
impadronirci della nostra meravigliosa città di Kiev è stato eseguito. Kiev è
stata completamente ripulita dagli occupanti fascisti». Comincia la nuova era
per la città, che torna a immergersi nei suoi vapori di brina e di fumo che salgono
dai comignoli e dal fiume mentre passano i vetturini e le donne coi colletti di
pelo argentato, sotto «i globi scintillanti dell’illuminazione elettrica,
appesi in alto agli uncini dei pali». Mikhail Bulgakov usciva di casa, al 13 di
Andrijvskij Uviz, camminava in discesa sui ciottoli verso la città bassa,
inseguiva d’inverno l’energia che la città aveva accumulato nel sole e nei
temporali d’estate, e la vedeva trasformarsi in luce. «Scintillava e traboccava
la città, riluceva e danzava e baluginava nelle notti, fino al mattino, quando
si spegneva e indossava il fumo e la nebbia». In alto splendeva la bianca croce
elettrica tra le mani del gigantesco Vladimir sulla collina, e le barche la
riconoscevano da lontano. Si stringeva negli appartamenti una popolazione nuova
rifugiata da Mosca, «banchieri brizzolati, uomini d’affari, mercanti, avvocati,
dame rispettabili e cocotte, pallide donne dissolute di Pietroburgo, con le
labbra dipinte di carminio». Si aprivano nuove botteghe, teatri di varietà, il
maestoso Club Cenere per gli artisti, dove c’era rumore di stoviglie fino
all’alba. Come se volessero infilarsi ancora in quel vecchio granaio del mondo
che era l’Ucraina, i colombi sovietici prendevano la rincorsa dai tetti
dell’Uliza Bafeina, sfioravano i pesci giganteschi scolpiti sopra l’insegna,
passavano davanti alle anatre di ferro battuto che adornano il cancello e si
tuffavano ogni giorno dentro il Bessdarabski Rynok, quel caravanserraglio di
penuria, odori, voglie e memorie che è il vecchio mercato di Kiev. All’epoca di
Bulgakov nelle vetrine si mostravano creme circondate da fiori, dorsi di pesce
affumicato, selvaggina a grappoli nelle piume colorate. Negli anni finali
dell’impero tra i banchi vuoti e disadorni pendevano dai ganci di Stato le
teste di maiale a 12 rubli, spuntavano i narcisi a 8 kopeki, il ribes di Povno
accanto ai pomodori azerbajdzhani e alle mele grasse di Crimea a 6 rubli, prima
dell’uva passa e delle albicocche secche di Tashkent: per arrivare infine
laggiù in fondo al banco della carne con tre oche e quindici polli attorno a
quattro anatre di Borispol. Fuori, qualcuno prova ancora a vendere a poco
prezzo le mele verdi di Zhitomer, sospette per la polvere di Chernobyl. Kiev
diffida, tra gloria, disperazione e memoria. Sul marciapiede le vecchie offrono
sul cucchiaio le strisce di cavolo sottaceto, e sembrano pescare negli stessi
pentoloni in cui le streghe di Kiev cento anni fa cuocevano le erbe magiche
prima di volare sul Monte Calvo a ballare con gli spiriti ucraini dei boschi,
al canto popolare dei byliny, i poemi epici orali. Come il racconto del duello
tra il giovane Dobrynja e del drago Gorynic con tre teste e dodici code, «che
volava basso sulla città di Kiev/ sfiorando la madre terra». Alla fine, dopo
aver attaccato col fuoco il ragazzo, il drago possente cade, finisce
imprigionato ed è costretto a implorare un accordo: «Stringiamo tra noi due un
patto/ di non scontrarci mai nella sgombra pianura/ né mai fra noi far lotte
sanguinose./ Da oggi, mai più».
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