"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 18 maggio 2022

Eventi. 72 «La guerra schiaccia ogni prospettiva sul presente, sull’emergenza umanitaria, sulle cose da fare qui e adesso».

 

“Guerra&Media”. Ha scritto Michele Serra in “La temperatura del mondo” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di maggio ultimo: (…). Si è molto parlato della brutalità di Putin, meno della sua stupidità. I prepotenti sono spesso stupidi, e riuscire a trasformare Paesi di forte tradizione neutralista in Paesi spaventati, e dunque ostili, è una innegabile prova di stupidità politica. Detto questo, non c’è molto da festeggiare. In tutte le persone di buona volontà rimane il dubbio, molto forte e del tutto ragionevole, che sacrificare il concetto stesso di neutralismo alla logica del momento non sia una buona notizia. Che la radicalizzazione e l’estensione del bipolarismo Nato-Russia sia un peggioramento, non un miglioramento. Un passo indietro, non un passo avanti. Bipolarismo, per altro, è anche il nome di una patologia: che non indica equilibrio, bensì il suo contrario. Nel concetto stesso di neutralità c’è una promessa di non belligeranza e di equidistanza che non può non essere messa nel conto, se si vuole levare terreno alla guerra, aggiungere spazio alle speranze di un mondo più pacifico. Sarà banale dirlo, ma il numero dei Paesi neutrali è un oggettivo termometro della temperatura del mondo: meno sono, più alta è la febbre, più alto il rischio di guerra. C’è un evidente affanno del pacifismo, in questo momento, e una facile derisione della sua impotenza. La guerra schiaccia ogni prospettiva sul presente, sull’emergenza umanitaria, sulle cose da fare qui e adesso. Ma i conti si fanno in tempi lunghi. Il neutralismo, prima o poi, ci mancherà, così come ci manca la pace. Di seguito, tratto da “I trucchi da talk show per venderci la guerra” del sociologo Domenico De Masi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, 17 di maggio 2022: (…), per una specie di legge di Gresham, anche nel mondo della comunicazione la moneta cattiva scaccia quella buona, come prima cosa (…) pseudo-esperti si sono preoccupati di sbarazzare il campo dagli esperti autentici, cercando di ridicolizzarli. (…). Poi si sono gettati in difesa di un ipotetico Occidente, identificato nella salvifica America e minacciato dalla diabolica Russia, bollando come “putiniano” chiunque avesse osato frapporre sfumature in questa netta dicotomia. Il trionfo di tale semplificazione si celebra in quei talk show in cui sono invitati i giornalisti russi. Invece di ascoltarne le opinioni ovviamente partigiane per meglio decifrarne gli intenti, gli italiani ospitanti rinfacciano agli ospiti russi di essere al soldo del Cremlino e proni alla censura. Qualcuno è arrivato a fargli notare, agitando un bicchiere di acqua, che essi rischiano di essere eliminati se osano dire la verità mentre gli italiani sono liberi di dire qualunque cosa e possono poi bere qualunque acqua minerale senza paura che sia avvelenata. Nessuno di questi nostri pseudo-esperti in geopolitica sospetta che già una settantina di anni fa c’era chi vantava spavaldamente la libera società di massa occidentale e chi vedeva in essa soltanto una “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà”. Le cose andarono così. Alcuni sociologi statunitensi come Edward Shills e Daniel Bell, sostennero che nella società occidentale americanizzata e massificata, l’autorità aveva perduto ogni carattere autoritario; le idee erano espresse in forme aperte a interpretazioni divergenti; i singoli godevano di egualitarismo morale; le capacità degli individui erano libere di realizzarsi; la partecipazione al potere era assicurata grazie alla richiesta di consenso alle decisioni; la barbarie era contrastata con un’eccezionale concentrazione di università, musei e biblioteche; un mutamento continuo giustificava l’ottimismo tecnocratico e meritocratico. Contro queste affermazioni entusiaste, che hanno nutrito in tutti gli anni successivi la smisurata autostima degli americani promuovendoli portatori della democrazia nel mondo, si pronunziarono, da destra, putiniani come Benedetto Croce, Ortega y Gasset e T.S. Eliot, convinti che la società di massa, compiutamente fiorita negli Stati Uniti, comporta (…) un deterioramento della qualità in favore del numero, l’avvento dell’autoritarismo facilitato dalla super-organizzazione e dalla disintegrazione del tessuto sociale, l’impossibilità di controllare l’intervento delle masse nella vita politica. Da sinistra, putiniani come Horkheimer, Adorno, Wright Mills e Umberto Eco denunziarono nella società americana di massa una progressiva perdita di autonomia da parte della stragrande maggioranza dei cittadini, l’affermazione di una élite sempre più esigua ma dotata di mezzi potentissimi e di ausili tecnologici con cui manipolare le masse trasformando la società in uno “stato-guarnigione”. Nella società di massa le comunicazioni tra i singoli sono costrette a passare attraverso il monopolio delle élites; la volontà degli individui può inserirsi nel circuito delle idee dominanti solo se rientra nel sistema o si limita a sollecitarne la potenza con critiche innocue; il dissenso delle minoranze trova credito solo nella misura in cui non compromette l’esito della maggioranza e assicura, con la sua presenza, un paravento democratico alla dittatura delle élites. Alla luce di quella lontana polemica possiamo dire che oggi l’oppressione e la censura operate dall’autoritarismo russo sono barbare e repellenti, ma hanno come attenuante – se così si può dire – il fatto che la loro violenza è intenzionale, visibile, brutale, esplicita. Invece nella nostra “democratica non libertà” la censura e la violenza sono esercitare in forme subdole e persino miti ma non innocue. In quest’ottica perfino i nostri sprovveduti pseudo-esperti in geopolitica e i conduttori dei talk show che li ospitano, ignorano di essere, allo stesso tempo, carnefici e vittime della massificante industria culturale che li strumentalizza.

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