“Guerra&Media”. Ha scritto Michele Serra in “La temperatura del mondo” pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” del 13 di maggio ultimo: (…). Si è molto parlato della
brutalità di Putin, meno della sua stupidità. I prepotenti sono spesso stupidi,
e riuscire a trasformare Paesi di forte tradizione neutralista in Paesi spaventati,
e dunque ostili, è una innegabile prova di stupidità politica. Detto questo,
non c’è molto da festeggiare. In tutte le persone di buona volontà rimane il
dubbio, molto forte e del tutto ragionevole, che sacrificare il concetto stesso
di neutralismo alla logica del momento non sia una buona notizia. Che la
radicalizzazione e l’estensione del bipolarismo Nato-Russia sia un
peggioramento, non un miglioramento. Un passo indietro, non un passo avanti.
Bipolarismo, per altro, è anche il nome di una patologia: che non indica
equilibrio, bensì il suo contrario. Nel concetto stesso di neutralità c’è una
promessa di non belligeranza e di equidistanza che non può non essere messa nel
conto, se si vuole levare terreno alla guerra, aggiungere spazio alle speranze
di un mondo più pacifico. Sarà banale dirlo, ma il numero dei Paesi neutrali è
un oggettivo termometro della temperatura del mondo: meno sono, più alta è la
febbre, più alto il rischio di guerra. C’è un evidente affanno del pacifismo,
in questo momento, e una facile derisione della sua impotenza. La guerra
schiaccia ogni prospettiva sul presente, sull’emergenza umanitaria, sulle cose
da fare qui e adesso. Ma i conti si fanno in tempi lunghi. Il neutralismo,
prima o poi, ci mancherà, così come ci manca la pace. Di seguito, tratto
da “I trucchi da talk show per venderci
la guerra” del sociologo Domenico De Masi pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” di ieri, 17 di maggio 2022: (…), per una specie di legge di Gresham,
anche nel mondo della comunicazione la moneta cattiva scaccia quella buona,
come prima cosa (…) pseudo-esperti si sono preoccupati di sbarazzare il campo
dagli esperti autentici, cercando di ridicolizzarli. (…). Poi si sono gettati
in difesa di un ipotetico Occidente, identificato nella salvifica America e
minacciato dalla diabolica Russia, bollando come “putiniano” chiunque avesse
osato frapporre sfumature in questa netta dicotomia. Il trionfo di tale
semplificazione si celebra in quei talk show in cui sono invitati i giornalisti
russi. Invece di ascoltarne le opinioni ovviamente partigiane per meglio
decifrarne gli intenti, gli italiani ospitanti rinfacciano agli ospiti russi di
essere al soldo del Cremlino e proni alla censura. Qualcuno è arrivato a fargli
notare, agitando un bicchiere di acqua, che essi rischiano di essere eliminati
se osano dire la verità mentre gli italiani sono liberi di dire qualunque cosa
e possono poi bere qualunque acqua minerale senza paura che sia avvelenata. Nessuno
di questi nostri pseudo-esperti in geopolitica sospetta che già una settantina
di anni fa c’era chi vantava spavaldamente la libera società di massa
occidentale e chi vedeva in essa soltanto una “confortevole, levigata,
ragionevole, democratica non libertà”. Le cose andarono così. Alcuni sociologi
statunitensi come Edward Shills e Daniel Bell, sostennero che nella società
occidentale americanizzata e massificata, l’autorità aveva perduto ogni
carattere autoritario; le idee erano espresse in forme aperte a interpretazioni
divergenti; i singoli godevano di egualitarismo morale; le capacità degli
individui erano libere di realizzarsi; la partecipazione al potere era
assicurata grazie alla richiesta di consenso alle decisioni; la barbarie era
contrastata con un’eccezionale concentrazione di università, musei e biblioteche;
un mutamento continuo giustificava l’ottimismo tecnocratico e meritocratico. Contro
queste affermazioni entusiaste, che hanno nutrito in tutti gli anni successivi
la smisurata autostima degli americani promuovendoli portatori della democrazia
nel mondo, si pronunziarono, da destra, putiniani come Benedetto Croce, Ortega
y Gasset e T.S. Eliot, convinti che la società di massa, compiutamente fiorita
negli Stati Uniti, comporta (…) un deterioramento della qualità in favore del
numero, l’avvento dell’autoritarismo facilitato dalla super-organizzazione e
dalla disintegrazione del tessuto sociale, l’impossibilità di controllare
l’intervento delle masse nella vita politica. Da sinistra, putiniani come
Horkheimer, Adorno, Wright Mills e Umberto Eco denunziarono nella società
americana di massa una progressiva perdita di autonomia da parte della
stragrande maggioranza dei cittadini, l’affermazione di una élite sempre più
esigua ma dotata di mezzi potentissimi e di ausili tecnologici con cui
manipolare le masse trasformando la società in uno “stato-guarnigione”. Nella
società di massa le comunicazioni tra i singoli sono costrette a passare
attraverso il monopolio delle élites; la volontà degli individui può inserirsi
nel circuito delle idee dominanti solo se rientra nel sistema o si limita a
sollecitarne la potenza con critiche innocue; il dissenso delle minoranze trova
credito solo nella misura in cui non compromette l’esito della maggioranza e
assicura, con la sua presenza, un paravento democratico alla dittatura delle
élites. Alla luce di quella lontana polemica possiamo dire che oggi
l’oppressione e la censura operate dall’autoritarismo russo sono barbare e
repellenti, ma hanno come attenuante – se così si può dire – il fatto che la
loro violenza è intenzionale, visibile, brutale, esplicita. Invece nella nostra
“democratica non libertà” la censura e la violenza sono esercitare in forme
subdole e persino miti ma non innocue. In quest’ottica perfino i nostri
sprovveduti pseudo-esperti in geopolitica e i conduttori dei talk show che li
ospitano, ignorano di essere, allo stesso tempo, carnefici e vittime della
massificante industria culturale che li strumentalizza.
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