Ha scritto Michele Serra in “Dove è finito Marinetti?” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
di oggi: Se la guerra continua a farsi, secolo dopo secolo, si deve concludere
che a moltitudini di uomini, di potere ma anche no (vedi gli ultras degli stadi
jugoslavi, che furono la manovalanza entusiasta di quel fratricidio), la guerra
piace. Altrimenti non la farebbero. Come mai dunque non c'è traccia di un Marinetti,
di un Papini, di un post-dannunziano anche minore che canti la guerra
"sola igiene del mondo" a viso aperto, ne glorifichi l'impeto vitale
che impedisce all'umanità di ristagnare e decadere? Possibile che il pro patria
mori non ispiri almeno un rapper? Vi sembra normale che nei talkshow non ce ne
sia uno che si dichiara amico della guerra perché la pace è noiosa, pretesca e
poco maschia, la guerra è eccitante, vigorosa e valorizza "le belle idee
per cui si muore e il disprezzo per la donna" (Marinetti, Manifesto dei
futuristi)? Niente, zero poeti, zero pensatori, perfino zero giornalisti
disposti a dichiararsi sostenitori della guerra in quanto guerra, affascinati
dalle scie luminose dei missili e dai vascelli che si inabissano. Forse dipende
dal fatto che la guerra moderna, la cui anima non è l'epica cavalleresca ma lo
stragismo tecnologico, di artisti e intellettuali può tranquillamente fare
senza. O anche dal fatto che domina la scena una spessa coltre di ipocrisia:
qualcuno che si eccita al fragore dei cingoli e al sibilo dei droni magari c'è,
ma preferisce tenerlo per sé. Ci vorrebbe un Gregory Corso, che nei Cinquanta,
sfidando i fischi degli stupidi, recitò in pubblico la sua Ode alla Bomba,
parodia sarcastica del fungo atomico. Non disponiamo più neanche di quello.
Niente futuristi, niente beatnik, la massima emozione possibile è una lite tra
strateghi. Di seguito, “Non conosciamo
la pace (al massimo la tregua)” di Furio Colombo, pubblicato su “il Fatto Quotidiano”
di oggi, lunedì 17 di aprile 2022: C’erano i tempi in cui si andava in prigione
per debiti, in cui si moriva in duello dietro il convento delle Carmelitane, in
cui si curava una malattia, qualunque malattia, con sanguisughe che
purificavano il corpo malato, c'era la frusta senza tanti limiti per donne e
bambini. C'erano i roghi e le streghe, c'erano gli eretici e gli untori, c'era
il libero uso degli schiavi. La lista potrebbe essere lunghissima. Cose che si facevano
non solo con tolleranza, ma con persuasione. Sarebbe bello poter dire che non
ci sono più e che la civiltà ha fatto troppi progressi per avere ancora certe
pratiche e abitudini. Non è vero, ma grandi cambiamenti sono avvenuti grazie a
certi uomini, certe scoperte, certe leggi, certi modi di praticare una
religione, con forti debiti verso la scienza, l'esperienza e il buon senso. È
rimasto intatto, in mezzo alle nostre vite, un oggetto grande, dannoso e cieco,
che colpisce a caso e distrugge sempre: la guerra. Quando finisce, fra distese
di morti e memorie di immense sofferenze, si è pronti a ricominciare. Chi è
pronto? Tutti, dai morti, che abbiano o non abbiano il monumento, a quelli nati
dopo, che hanno ascoltato i racconti e percepiscono un fremito di novità, un
passaggio inevitabile a una condizione più alta e più nobile, il punto, il
luogo, il tempo dove si combatte. Dentro la guerra che è lo scontro violento e senza
limiti di masse di persone contro masse di persone, ci sono ingredienti essenziali
di ciò che siamo o vogliamo essere: la constatazione della nostra forza fisica
e mentale, la verifica del potere (la felicità di comandare a una vittima o a
un milione di vittime). E la volontà di reprimere. È troppo assiduo e regolare
il ritorno della guerra, e troppo simmetrici e corrispondenti i richiami fra le
due parti, chi dà e chi subisce il primo colpo (fiumi di odio grandi come tutto
l'amore negato) che diventa impossibile mettere un ostacolo allo scontro. Lo
scontro si presenta come dovuto e nobile. "Nobile" è la parola che
Putin ha usato per la sua guerra. Ma senza dubbio, come tutto ciò che accade
fra due parti di umanità in guerra, è parola condivisa. Come sono nobili i
caduti. "Caduto" è un grado alto degli esseri umani, ben più alto di
un semplice morto d'ospedale. Caduto per la patria è il massimo. E allora ecco
il tremendo problema. Pace non è il contrario di guerra e neppure la cessazione
di una guerra. Lo abbiamo imparato fin dal 1945, dalla sequenza di eventi
sempre in bilico di tante guerre fredde, e dallo splendido libro La Tregua di
Primo Levi. Infatti "la pace", l’intervallo fra due immense
esplosioni chiamate "guerra", è sempre chiamato “tregua". È ora
di ammettere che, dal1'inizio degli scontri fra esseri umani, che sono tutta la
storia che conosciamo, abbiamo imparato la natura e le condizioni della tregua,
ma non sappiamo che cosa sia la pace, che non è un provvisorio "non
guerra" e non è un gesto benevolo e non è un cedimento. È una sistematica
e ferma liberazione di tutto ciò che siamo, una sorta di santità che chiede ben
altro che un umore tollerante e benevolo. Per questo disorienta sentire parlare
di pace e di pacifismo (persino dal Papa, che chiede una tregua immediata e di
smettere di uccidere) come se fosse un cambiamento di condotta e non l'unica
grande e folle rivoluzione che cambierebbe il mondo. Perché folle? Perché la
pace è la negazione di tutto ciò che facciamo, accettiamo, siamo in grado di
patire o di fare agli altri, per buone o per cattive ragioni, per offesa o difesa.
E non solo in guerra ma in ogni parte e momento della vita. Noi parliamo di pace
come se fosse una tendopoli. Con un atto di ferma volontà possiamo montarla in
fretta, abbandonare il grattacielo e ogni privilegio, garanzia e protezione a
cominciare da subito ad abitare nella pace. Però non siamo in grado di farlo.
Ci deve essere un linguaggio della pace, ma non lo abbiamo imparato, e questo
ci impedisce di riunirci se non per gruppi che danno torto all'uno e ragione
all'altro. Ci deve essere un comportamento della pace che però, nonostante
tutti questi secoli di sangue, possiamo immaginare soltanto come fiction: una
massa di uomini e donne che attraversa la parte malata della guerra e la
guarisce e la fa ritornare alla vita come si legge in certi racconti della
Bibbia e dei Vangeli. Potremmo essere la forza dell'Angelo che ferma la spada
di Abramo affinché non uccida il figlio, che pure era condannato da un ordine
superiore. È triste e necessario capire che stiamo parlando di guerra con la
passione di diverse tifoserie, ma la pace abita in una parte di vita e di storia
che non abbiamo neppure sfiorato. Perciò torniamo allo spettacolo della guerra,
un po' meno soli e disperati se abbiamo scelto con persuasione uno dei
contendenti armati. Ne La Tregua, quando tutto è finito, "il Greco",
personaggio profetico di Primo Levi, ha da dire: "Guerra è sempre".
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