"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 20 aprile 2022

Uominiedio. 36 «Si consuma nella guerra anche il mistero religioso della Russia».

 


Ha scritto Kahlil Gibran in “Il Profeta”: E un vecchio sacerdote disse: parlaci della religione. Ed egli rispose:

(…). Religione non è forse ogni atto e ogni riflessione, e ciò che non è né atto, né riflessione, ma una continua meraviglia e sorpresa che scaturisce nell’anima, persino quando le mani spaccano la pietra o tendono il telaio? Chi può mai separare la sua fede dalle azioni, o il suo credo dalle sue occupazioni? Chi può mai distribuire le ore davanti a sé e dire: “Questa per Dio e questa per me; questa per la mia anima, e quest’altra per il mio corpo?” Tutte le vostre ore sono ali che palpitano attraverso lo spazio da tutt’uno a tutt’uno. (…). È la vostra vita quotidiana il vostro tempio e la vostra religione. Ogni qualvolta vi entrate portate con voi il vostro tutto. Portate l’aratro e la fucina e il mazzuolo e il liuto, le cose che avete fatto per necessità, o per diletto. Poiché nei vostri sogni a occhi aperti non potrete andare al di là dei vostri conseguimenti, o al di sotto dei vostri fallimenti. E con voi portate tutti gli uomini. Poiché nell’adorazione non potrete volare più in alto delle loro speranze, né avvilirvi oltre la loro disperazione. E se volete conoscere Dio non siate dunque solutori di enigmi. Piuttosto guardatevi intorno e lo vedrete giocare coi vostri bambini. E guardate nello spazio; lo vedrete camminare dentro la nuvola, protendere le braccia nel lampo e scendere con la pioggia. Lo vedrete sorridere nei fiori, poi alzarsi per agitare le mani fra gli alberi.

“Guerra&Religioni”. Di seguito, “Dio contro Dio. È la guerra delle quattro Chiese” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di aprile 2022: Adesso che il Cristo degli ucraini è sceso dalla sua croce (…) per risalire l’angoscia del suo ultimo Calvario, mentre il Patriarca di tutte le Russie Kirill invoca da Mosca lo stesso dio, chiamandolo a benedire la guerra di Putin, bisogna provare ad aprire il tabernacolo russo della santa fede per cercare le radici spirituali del conflitto. Culla della Rus’ antica e custode del mistero del suo battesimo, l’Ucraina conta un dio solo conteso tra quattro Chiese, tutte cristiane, una ortodossa di obbedienza a Mosca, un’altra che lega la sua ortodossia a Costantinopoli, una terza sempre ortodossa ma autocefala e infine una cattolica uniate, di osservanza romana ma di rito bizantino. La benedizione imperialista di Kirill all’invasione ucraina dell’Armata di Putin ha rotto l’equilibrio concorrente tra le quattro declinazioni della stessa religione, col Patriarca che oggi rievoca l’eterna dannazione russa dell’Anticristo, tornato nel mondo per infrangere l’unità spirituale della terra russa, e una rivolta di 240 popi che si schierano contro la guerra e prefigurano lo scisma: chiedendo la sostituzione di Kirill, il cui nome è già stato cancellato dalle invocazioni rivolte al Signore nelle solenni preghiere durante la messa, quando le vecchie credenti si inginocchiano davanti ai bracieri dorati dove si consumano le candele. Che secondo Bulgakov non devono illuminare, ma ardere in perpetuo. Si consuma dunque nella guerra anche il mistero religioso della Russia comunque santa, pur nella cornice di uno Stato pubblicamente ateo come l’Urss. La vecchia Chiesa delle origini nata a Kiev, già piegata al potere statale di Pietro il Grande, nell’Ottobre del 1917 contava ottantamila parrocchie con la cupola dorata a cipolla. Nel 1964 sono ormai solo diecimila, due anni dopo 7500, mentre il numero dei popi crolla, trentamila nel 1959, appena 15 mila nel 1961. Proprio in quell’anno Kruscev annuncia la cancellazione di ogni forma di culto religioso entro vent’anni e fornisce la prova materiale dell’inganno divino: «Avevamo sempre sentito i preti parlare del paradiso. Decidemmo di verificare noi stessi, e mandammo Gagarin nello spazio. Ebbene, il cielo era vuoto, non c’era niente lassù in alto». E tuttavia la fede si lasciava comprimere nelle forme e nelle espressioni, ma sopravviveva in fondo all’anima russa come una seconda natura popolare, una tradizione e una consolazione, nonostante le persecuzioni, le chiese demolite, sbarrate, trasformate in musei, depositi di legname, magazzini di ortaggi sfioriti, e malgrado le seicentomila conferenze antireligiose all’anno, i 336 fascicoli di propaganda ateistica distribuiti in sei milioni di copie, e ristampati periodicamente. La Chiesa accettava di mettere il suo Dio a servizio del Cremlino, pur di poter alimentare la fiammella della fede, in bilico costante tra il miracolo della sopravvivenza e il pericolo della connivenza, con l’alta gerarchia del clero appesantita dalle medaglie all’Ordine della Bandiera Rossa, le preghiere liturgiche modellate sulle campagne del Cremlino e mascherate da invocazioni per la pace e il disarmo: fin da quando il Patriarca Alessio chiamò alla preghiera tutti i credenti per chiedere all’Onnipotente di salvare Stalin ammalato, e dopo la morte organizzò una veglia religiosa in sua memoria. Se la religione era bandita, la religiosità sopravviveva testarda. Uomini e donne anziane che aspettano il pope in fondo alla Chiesa per baciargli l’anello, mettersi in fila ripetendo ossessivamente il segno della croce per tre volte, in attesa di appoggiare un foglietto con un nome al banco delle grazie, o di posare sui vassoi dei ceri rossi nel monastero Danilovski i mandarini sovietici e le uova per adornare i kulici, i dolci da benedire il giorno di Pasqua. La clandestinità nasconde la fede ma trasforma ogni scelta in un rito, ogni gesto in un simbolo. Ancora nel 1989, con 6.794 chiese aperte in un Paese di 280 milioni di abitanti Vladyka Pitirim, Metropolita di Volokosamsk e Yurievsk, si è trovato a dover celebrare messa per sei ore di fila, e alla fine ha ricominciato per una coppia che aveva fatto venti chilometri a piedi per trovare un prete e una funzione. A Mosca, nel buio dei giorni feriali d’inverno, la parrocchia cittadina di San Luigi viveva quattro ore al giorno tra il buio e l’alba: da quando il sacrestano Ghenrich Ubanovic accendeva il suo fiammifero alle 5 del mattino e alla luce di quella fiammella si chinava sul lucchetto per aprire il cancello della chiesa fino all’“ite, missa est” del vecchio parroco Stanislaw Mazhenka che a 83 anni conosceva nomi e peccati degli undici fedeli della messa mattutina in latino, anche se non aveva mai sentito suonare le sue campane. Quando alle 9 il cancello si chiudeva, il parroco riponeva la veste nera nella cartella e indossava la cravatta prima di salire sul tram e la neve scendeva a cancellare le orme nel cortile, la chiesa sembrava chiusa e abbandonata da sessant’anni, in un inganno tollerato dal potere. Ma naturalmente è in Ucraina, anzi in Galizia che si incontrano e si scontrano le geografie e le liturgie, in un contrasto che è insieme religioso e politico. Qui mentre l’ortodossia ha perfezionato nei decenni e nelle diverse ere del sovietismo un suo modus vivendi con la fede comunista di Stato, il cattolicesimo latino ha dovuto inventare un suo specialissimo modus non moriendi per salvaguardare una sopravvivenza orientale di fedeltà ai Papi di Roma, continuamente celata. A Lvov, Leopoli, per trovare il prete cattolico degli uniati bisognava passare prima un controllo della cerchia più stretta dei fedeli, poi si veniva accompagnati in via Shkalova al numero 30, dove si bussava alla porta con tre colpi: poi una pausa, quindi altri tre, seguiti dal bisbiglio di una formula di riconoscimento: «Kristos voskres», Cristo è risorto. L’uomo con la grande barba bianca dietro la porta era Andrei Sterniuk, per 44 anni prete clandestino, vescovo segreto, custode fedele delle catacombe in cui vivevano gli uniati dell’Urss, ancora nell’epoca della perestrojka. Per sopravvivere il prete si è mimetizzato ovunque, dentro un bibliotecario, un boscaiolo, una guardia forestale, un ragioniere, un autista d’ambulanza, un lattoniere, un medico, battezzando, sposando e impartendo l’estrema unzione ai moribondi senza mettere piede in una chiesa per 40 anni. Lo arrestano ugualmente, lo condannano a cinque anni di lager. Riesce a dire messa quasi tutte le domeniche rovesciando una cassa come altare, spremendo il vino da un acino d’uva messo a fermentare nella calce in un buco del muro nella cella, con una pallina di mollica a mimare il pane. Dopo la liberazione celebra la messa nei boschi, di notte. Nel ’64 la nomina ad arcivescovo lo raggiunge nella clandestinità, e tocca a lui ordinare 80 giovani preti. Finché il potere gli restituisce la cattedrale, confiscata da Stalin. Non ha l’abito da prete per la funzione solenne, non l’ha mai avuto: un monsignore canadese spedito da Roma si toglie il suo e glielo impresta. Andrà in una chiesa vestito da prete per la prima volta, con la veste accorciata con gli spilli, ringraziando dio per tutto quello che ha passato, arrivando infine a inginocchiarsi davanti a un vero altare, ancora con l’Unione Sovietica intorno.

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