"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 30 aprile 2022

Eventi. 63 «C’è una lezione che il fascismo veramente ha lasciato è che bisogna vivere pericolosamente. Tale è dunque la verità di questa guerra».

 

Ha scritto Filippo Ceccarelli in “L’orso Vladimir” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 22 di aprile 2022: In tempi di evoluta regressione può capitare che gli animali dicano più di quanto gli uomini vogliono far credere. Così, prima di trarre conclusioni geostrategiche sulla Russia in guerra; e senza soffermarsi sulla sua storica invincibilità, da Carlo II di Svezia a Napoleone fino a Adolf Hitler, forse sarebbe utile ripensare al totem con cui dalla notte dei tempi s'identifica il popolo russo: l'orso. E allora converrà sapere che si tratta di un esemplare che può anche raggiungere, in piedi, l'altezza di due metri e ottanta e il peso di sette quintali e di cui un singolo artiglio arriva a misurare 15-16 centimetri, come dire la mano di un umano adulto dal polso fino all'ultima falange del dito medio. Detta altrimenti, non c'è tigre, né branco di lupi che possano tener testa a un orso che abbia i suoi cinque minuti. Un animale quindi gigantesco e fortissimo, solitario, onnivoro e ove necessario aggressivo, però anche curioso, ghiotto di dolci e alcol, addomesticabile come grande ballerino intrattenitore, oltre che, sempre nella tradizione, disposto a farsi ammansire da appositi santi. Tanto è forte l'identificazione che in alcune cerimonie siberiane, scrive Elias Canetti in Massa e potere, si mangia l'orso e simbolicamente lo si invita al banchetto, quasi una forma di comunione, per convincerlo a lasciarsi cacciare di nuovo. Un orso, neanche a dirlo, compare nello stemma di "Russia unita", il partito di Putin; così come nel manifesto che si vede qui il plantigrado e l'autocrate appaiono l'uno accanto all'altro, facendo allegramente l'occhietto. Parecchi proverbi d'altra parte suggeriscono estrema prudenza nell'entrare in relazione con l'orso, quindi con la Russia. A parte l'inopportunità di venderne la pelle prima del tempo, è consigliabile non svegliarlo dal letargo, tantomeno accerchiarlo o stuzzicarlo "quando gli prude il naso"; chi "divide la pera" con l'orso, infine, ne avrà sempre "men che la parte", nel senso che è rischioso farci affari, inclusi oleodotti e gasdotti. Se le antiche sentenze non sono sufficienti a diffidare, si può aggiungere che nella conferenza stampa di fine 2014 in tal modo Putin si rivolse all'Occidente e alla Nato: "Vogliono che l'orso non vada più a caccia di animali nella taiga, ma se ne stia tranquillo a mangiare miele e frutti di bosco per poterlo meglio mettere a catena, strappargli le zanne, gli artigli e impagliarlo". Quattro anni dopo, in un documentario di regime sulle prodezze presidenziali nella natura selvaggia, il portavoce Dimitrji Peskov osservò che gli orsi temevano Putin e non l'avrebbero mai attaccato. Ma attenzione, a guardar meglio nel manifesto si vede un bimbo di spalle, più interessato all'orso che a Putin: i dittatori passano, i totem restano. Di seguito, “La Nato sogna un mondo senza Russia: è una follia” di Raniero La Valle (Roma, 22 di febbraio dell’anno 1931) pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 21 aprile ultimo: Al contrario di ciò che scrisse Marx correggendo Hegel nel 18 brumaio, non è vero che i grandi fatti della storia si presentano la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa: la seconda volta si possono presentare come una tragedia peggiore. È quello che, dopo la guerra del Golfo del 1991, avviene oggi in Ucraina. L’affondamento della Moskva, la nave russa ammiraglia del Mar Nero, ha rivelato la verità di questa guerra, che è quella di una guerra tra la Russia e la Nato (cioè l’America e l’Occidente). Della Nato infatti sono gli armamenti, le strategie, la gestione. Il tragico ma non tragicomico Zelensky ci mette solo la carne da cannone, le macerie delle sue città distrutte, il popolo in fuga. È una guerra di lunga durata, come prevede Biden; una guerra che la Russia non può vincere e la Nato non può perdere per il semplice fatto che gli Stati Uniti destinano ogni anno 663 miliardi di dollari alle spese militari e la Russia ne spende 61. Questa verità della guerra d’Ucraina è difficile a dirsi, come quella denunciata nel 1991 dal “Comitato per la verità sulla guerra del Golfo”, fondato da padre Balducci, Dacia Maraini, Franco Fortini e altri intellettuali. Contro la vulgata universalmente vigente che si trattasse di una guerra per la sovranità del Kuwait, quel Comitato spiegò che si trattava di una guerra per il ripristino della guerra, che da molti decenni era stata impedita dal terrore della reciproca distruzione assicurata dall’arma nucleare. Non appena quel terrore finì, per il venir meno, con la fine dell’Unione Sovietica, di uno dei due Stranamore, l’Occidente se ne riappropriò, la rivendette all’opinione pubblica e ne fece la madre di tutte le guerre successive, una manna per i fabbricanti d’armi. La verità di questa guerra è che la perversa colpa di Putin ha fatto scattare la tagliola della dottrina della sicurezza nazionale americana, che gli Stati Uniti avevano adottato dopo l’11 settembre. Si pensava che quella dottrina fosse stata abbandonata per il suo stesso estremismo, ispirato dalla destra americana, ma così non era. Essa propugnava come definitivo, sul piano mondiale, un liberismo armato, affermava che la sicurezza nazionale degli Stati Uniti consisteva nel dominio sul mondo, che nessuna Potenza dovesse non solo superare ma neanche eguagliare la potenza militare dell’America (nemmeno l’Europa), che il modello di società per tutte le Nazioni dovesse essere quello del trinomio “libertà, democrazia e libera impresa”; e se gli Stati che non vi si conformavano potevano essere provvisoriamente accettati fino alla loro conversione, non così era a dirsi degli “Stati canaglia”, “rogues”, cioè “Stati zizzania”. Tale era stato l’Iraq, che non a caso madame Thatcher aveva voluto che fosse riportato all’età della pietra; bisognava fare un mondo senza di loro, e proprio questa, come per un nuovo messianismo, era la vocazione degli Stati Uniti anche mediante guerre preventive, perché “la miglior difesa è l’offesa”. Ma se un mondo perfetto poteva essere pensato senza questi Stati, nessuno pensava a un mondo senza Russia. Putin, facendo propria la cultura del suo Nemico e lanciando la sua “operazione militare speciale”, non a caso ma inutilmente disconosciuta come guerra, ha inopinatamente riattivato questa opzione, simile a quella propiziata dalla fialetta di armi letali nel 2003 ostentata da Colin Powell all’Onu. Il problema serio per noi è che un mondo senza Russia, con tutte queste atomiche in giro, è molto più pericoloso di un mondo senza Iraq; ma se c’è una lezione che il fascismo veramente ha lasciato è che bisogna vivere pericolosamente, e i suoi eredi non l’hanno ricusata. Tale è dunque la verità di questa guerra, come fin dal primo giorno ha chiarito Biden dicendo che bisognava ridurre la Russia alla condizione di “paria intoccabile, non esistente”; ed è stato un errore di comunicazione perché ha finito per dare ragione alle ragioni della guerra di Putin. Però bisognava farlo senza mandare i marines, bensì con altri mezzi, come un colpo di Stato al Cremlino, l’esclusione dei russi da tutti i teatri della vita internazionale e la carestia provocata al popolo con il genocidio economico. Pensare un “mondo senza” è pericoloso anche perché può legittimare l’idea di una liberazione da altri disturbi, come infatti ora è avvenuto in ben altri comparti. Questo ci ha fatto ricordare un episodio della vita italiana ai tempi passati della Repubblica. In occasione di un’importante elezione amministrativa a Roma, la Sinistra Indipendente promosse un libro nel quale veniva chiesto a diversi intellettuali e politici del tempo di dire quale fosse la “Roma che vorrei”. E uno di loro ispirandosi a un laicismo ormai desueto, scrisse, semplicemente: “Vorrei una Roma senza papa”. Si è visto in questi giorni, anche su grandi giornali, che molti altri la vorrebbero così, e non solo per liberarsi di Francesco, così caparbio col Vangelo da non farsi arruolare dal partito dello scarto, ma del papato stesso che si mette di traverso a disturbare le guerre e i potenti, mentre “coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono”. (Marco 10, 42): che si tratti di Benedetto XV con le “inutili stragi”, di papa Giovanni con Cuba, di Paolo VI con il “mai più la guerra” dell’Onu, e perfino di Giovanni Paolo II, tanto rimpianto da Biden a Varsavia, che si era fieramente opposto alla prima guerra del Golfo fatta dal suo predecessore nel 1991; oggi solo a voler mettere sotto la croce una donna ucraina e una russa, si rischia, ma rovesciata, l’Inquisizione.

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