"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 17 aprile 2022

Piccolegrandistorie. 15 «Qualcosa che mi sono portata dietro sempre come un ferro».

 

A lato. "Giornata piovosa", acquerello (2021) di Anna Fiore.

“Nel paradiso terrestre il solo compito di Adamo era stato inventare il linguaggio, dare il proprio nome a ogni oggetto e creatura. In tale condizione d’innocenza, la lingua era penetrata direttamente nel vivo del mondo.

Le parole non si erano semplicemente applicate alle cose che vedeva: ne avevano svelato le essenze, le avevano letteralmente vivificate. La cosa e il nome erano intercambiabili. Dopo la caduta, questo non valeva più. I nomi cominciarono a staccarsi dalle cose; le parole degenerarono in un ammasso di segni arbitrari; il linguaggio era disgiunto da Dio. Dunque la storia del Giardino non ricorda soltanto la caduta dell’uomo, ma quella del linguaggio. [...]. Se la caduta dell’uomo implicava anche una caduta del linguaggio, non era logico presumere che si sarebbe potuta ribaltare la caduta stessa, e capovolgerne gli effetti, se si ribaltava la cauta del linguaggio, impegnandosi a ricreare quello parlato nell'Eden? Se l'uomo fosse riuscito ad apprendere la lingua originale dell’innocenza, non ne conseguiva che in quel modo, dentro di sé si sarebbe riappropriato di tutta una condizione d’innocenza?”. Testo tratto da la “Città di vetro” di Paul Auster, riportato – alla pagina 21 - nel volume “La nuova manomissione delle parole” di Gianrico Carofiglio – edizioni GEDI (2021). Concita De Gregorio tiene magistralmente una Sua rubrica settimanale su “d” del quotidiano “la Repubblica”, rubrica che si fregia del titolo “parole”. Sull’ultimo numero del settimanale di sabato 16 di aprile 2022, ha scritto: Nell'epoca in cui ai bisogni e ai desideri dei figli si dava poca importanza partimmo un'estate, l'intera famiglia, per un paese in cima a un monte che i miei consideravano, non saprei perché, magnifico: l'ideale per due mesi di vacanza. Era un borgo grigioverde scosceso, per arrivare alla casa di pietra bisognava salire una di quelle scalinate che conti cento duecento poi smetti, non hai fiato. Nel paese, apparentemente, non c'era nessuno. Nessun essere umano della mia età, certamente. Non che questo sia un criterio di amicizia, è vero. Ci sono coetanei che preferiresti non aver mai incontrato. Però almeno, penso, due parole ce le saremmo dette. Il problema, che si manifestò solo quando le valigie furono disfatte, era che dovevo sostenere a settembre un esame di piano per entrare in conservatorio. Il programma era sterminato, vasto quanto sembra grande ogni cosa che ti sovrasti. Avrei dovuto studiare almeno sei ore al giorno, aveva intimato la magrissima maestra Alessandra. Minimo sei, per avere una remota possibilità di essere ammessa. C'era bisogno, dunque, di un pianoforte per l'estate. Nessuno degli adulti ci aveva pensato, eppure - non ricordo ma immagino - dovevo averlo fatto presente. Cominciò una ricerca. Bisognava trovare qualcuno che avesse in casa lo strumento e convincerlo a lasciarmi studiare mattina e pomeriggio, appunto per sei ore. Chiaro che nessuno degli abitanti del borgo rurale, ammesso che qualcuno ci fosse dietro le persiane chiuse, aveva in casa un piano. Passarono giorni - mi esercitavo sulle danze rumene di Bartok con le dita sul tavolo, lo spartito poggiato alla caraffa - fino a che mio padre non arrivò un pomeriggio accaldato e felice, su dalle scale, dicendo che nel castello della vecchia signora c'era un piano: mi avrebbe lasciata studiare da lei. Il “castello” era nel paese di fronte.  Una casa grande, buia, con le porte interne chiuse a chiave e le sedie coperte da teli. Odorava di umido, di muschio. La vecchia signora aveva messo come condizione di essere presente nella stanza, il piano - scordato - aveva un tasto che suonava a vuoto. Era luglio ma faceva freddo. Fu un'estate bellissima. Mi sembravano spaventose, la casa e la vecchia, ma col tempo ci ho ripensato con nostalgia. Ero sola con la musica, il freddo il buio la muffa e la paura alle sette di sera non c'erano più. Devo aver imparato qualcosa di fondamentale, allora. Non sto qui a declinare cosa, ma qualcosa che mi sono portata dietro sempre come un ferro. All’esame fui ammessa con mia felicità e distrazione familiare. Scrive Jana Karsaiovà, nel bellissimo suo romanzo Divorzio di velluto - prima pagina, il ritorno a Bratislava: "In uno di quegli edifici ogni martedì, quando era bambina, ripeteva le scale melodiche prima di addentrarsi nei preludi di Chopin o di Bach. Alla nota sbagliata la maestra Csakova le colpiva con un righello il palmo dal basso verso l'alto, la mano schizzava in aria come un uccellino spaventato. Alle lezioni di piano aveva imparato a sopportare il dolore senza scomporsi". Lo so. È terribile il righello, oggi sarebbe da Telefono Azzurro. Ma io la capisco, invece, la dolcezza di quel ricordo. Dopo diventa tutto più facile.

1 commento:

  1. "Il migliore riconoscimento per la fatica fatta non è ciò che se ne ricava, ma ciò che si diventa grazie ad essa". (John Ruskin). "Ci saranno sempre pietre sulla strada davanti a noi. Saranno ostacoli o trampolini di lancio.Tutto dipende da come le usiamo". (Friedrich Nietzsche). "Ammiro chi resiste, chi ha fatto del verbo resistere carne,sudore, sangue e ha dimostrato senza grandi gesti che è possibile vivere, e vivere in piedi, anche nei momenti peggiori". (Luis Sepulveda). "I sorrisi più belli li ho visti nelle vite più difficili. Sono quelli di chi sa trasformare il dolore in forza". (Anonimo). "Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza. I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici". (Khalil Gibran). "Il dolore ci fa più grandi di quanto noi stessi avremmo voluto". (Henri Huvelin). Carissimo Aldo, il tempo scorre inesorabile, si cresce... ma crescere non vuol dire essere maturi. Non è il tempo che ci fa cambiare prospettiva e ci fa maturare, ma le esperienze che abbiamo vissuto. Perché,quando si tratta del cammino della vita,spesso ciò che conta non sono i risultati raggiunti, ma le persone che siamo diventate mentre prendevamo le nostre decisioni... Non è il tempo, sono i danni che abbiamo subìto, che ci spingono a rinnovare il nostro spirito. Uscire feriti dalle battaglie della vita ci insegna che ci sono mille cause che possono farci soffrire, ma ci sono mille e una ragione per riprenderci e proseguire. Grazie per questo stupendo post è buona continuazione.

    RispondiElimina