"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 4 aprile 2022

Memoriae. 26 «Un italiano vero, di Toto Cutugno, e lì ho capito che quello è il vero inno italiano».

 

A lato. 1943: un soldato dell’Armata Rossa festeggia la vittoria tra le macerie di Stalingrado. (Getty images)

“Memoria 1”. Vasilij Grossman, il figlio D’Ucraina. Tratto da “Grossman in prima linea tra i demoni del novecento” di Eraldo Affinati pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di aprile 2022:

(…). Chi era Vasilij Grossman (…)? Ucraino di famiglia ebraica, nacque nel 1905 a Berdyciv, uno degli shtetl più importanti d'Europa, la cui popolazione venne decimata dai nazisti che qui fecero terra bruciata con esecuzioni terrificanti. Ancora oggi il terreno dei boschi limitrofi nasconde migliaia di scheletri. Anche la madre di Vasilij, Ekaterina, finì inghiottita nel gorgo e la lettera d'addio che il figlio le attribuisce prima di morire rappresenta uno dei tesori immortali di Vita e destino: "Da bambino correvi da me perché ti difendessi. In questi momenti di debolezza vorrei essere io a nascondere la testa tra le tue ginocchia così che tu, forte e intelligente come sei, potessi proteggermi". A Berdyciv, quarantott'anni prima di Grossman, al tempo in cui questa terra da sempre martoriata e contesa veniva governata dallo zar, vide la luce Joseph Conrad: uno degli scrittori che hanno fondato il sentimento moderno. Ho sempre pensato a tale congiuntura storica come a un segno del destino: nelle opere di questi due grandi maestri scruto l'inferno e il paradiso dell'anima slava. (…): una radiografia impietosa sulla natura ferina della specie cui apparteniamo.

Le miniere del Donbass. Vasilij Grossman, laureato a Mosca, lavorò come ingegnere nelle miniere dove ancora oggi si continua a combattere ("La poesia del Donbass - i fiumi di lampade che la notte punteggiano i sentieri - mi aveva conquistato" scrisse in Fosforo, uno dei suoi racconti più cechoviani). I primi lavori letterari in cui s'impegnò vengono talvolta rubricati all'interno del cosiddetto realismo sovietico, ma in realtà sin dall'inizio egli ebbe problemi con la censura, come dimostrano i carteggi con Maksim Gor'kij, scherano del regime, e perfino con Stalin, che aveva condannato a morte il popolo ucraino, prima decapitando i kulaki, piccoli proprietari agricoli refrattari al bolscevismo, poi imponendo a tutti una sconvolgente carestia. Una svolta nella produzione di Grossman si verificò quando diventò corrispondente dal fronte per il giornale Stella Rossa, (…). A ben riflettere le centinaia di pagine della dilogia altro non sono che la magmatica trasfigurazione stilistica di questa esperienza. Lo scrittore, coi suoi occhialetti da intellettuale, vive in tutto e per tutto la condizione dei soldati impegnati al fronte. Respira la polvere. Rischia la vita. Interroga i protagonisti diretti. Parla con gli ufficiali. Mantiene sempre un formidabile equilibrio prospettico, un'invidiabile lucidità, anche di fronte alle atrocità cui deve assistere. (…). Grossman conobbe sulla propria pelle l'infamia dei due totalitarismi novecenteschi: averli posti sullo stesso piano, come lui fece, parve inammissibile. È questa la ragione per cui i suoi articoli, dopo essere stati pubblicati sui bollettini di guerra, furono a lungo insabbiati negli archivi, e le sue opere vennero ostracizzate. Cavalli impazziti. Ma quando parliamo di Vasilij Grossman non dovremmo mai dimenticare la sua profonda natura di scrittore, incoercibile e refrattaria agli schemi ideologici e politici: dolcissimo e fiabesco, quasi si rivolgesse ai bambini, nel racconto La cagnetta, bastardina catturata per essere spedita nello Spazio; capace di penetrare nell'anima armena descrivendo il bucato appeso ad asciugare nei cortili di Erevan (Il bene sia con voi!); meraviglioso e profetico in Tutto scorre..., il suo testamento finale dove, tornando a Nikolaj Vasil'evic Gogol', ricorda il paragone presente nelle Anime morte, fra la Russia e una troika (una carrozza a tre cavalli, ndr) impazzita che corre talmente veloce da travolgere e lasciarsi dietro "tutto quanto è sulla terra e schivandola si fanno da parte e le danno strada gli altri popoli e le altre nazioni". Cosa resta da fare dunque agli uomini che, dopo aver visto la Medusa senza restare impietriti, non credono più al bene, ma solo alla bontà? Continuare a praticare quest'ultima in modo "illogico", ci sussurra ancora oggi fra le righe Vasilij Grossman, che spirò a Mosca nel 1964 senza aver avuto il tempo di verificare le conseguenze del suo operato.  

“Memoria 2”. Un amore italiano per la Russia”. Tratto da “Così grigia povera e bellissima la mia URSS” di Paolo Nori, riportato sempre sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del primo di aprile: Quando ci sono stato per la prima volta, la Russia era ancora una delle repubbliche che componevano l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Era il marzo del 1991. Sono arrivato a Mosca, all'aeroporto Šeremet'evo 2, che, devo dire, non era bellissimo; non era uno degli aeroporti più moderni che avessi mai visto, sembrava cadere un po' a pezzi. Però, non so perché, ero contentissimo, di essere lì. Quella è stata la prima di tante volte che, guardando il cielo di Mosca, o di San Pietroburgo (per me è come se fossero un'unica città, è quella che nella mia testa io chiamo "La Russia"), ho pensato ai versi di Velimir Chlebnikov: "Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / Un ditale di latte, / E questo cielo, / E queste nuvole". L'ultima volta che ci sono andato era il luglio del 2019, prima della pandemia, e il cielo era sempre lo stesso ma Mosca era la città più moderna che io avessi mai visto, con una metropolitana bellissima che aveva un tasso di puntualità delle corse del 99,98 per cento. Se mi avessero chiesto, fino a poco tempo fa, dove sarei voluto andare a vivere se avessi dovuto lasciare Bologna, io avrei risposto: "In Russia", intendendo, con ciò, a Mosca e a San Pietroburgo. Non so quando potrò tornarci e non so se, quando succederà, la Russia che troverò sarà più simile a quella che ho lasciato, nel 2019, o a quella che ho incontrato per la prima volta nel 1991. Nella mia Mosca del 1991 il cartello che ho visto più spesso, attaccato ai telefoni pubblici, ai distributori di bevande, era "Ne rabotaet", "Non funziona"; a parte la metropolitana, non funzionava quasi niente, ma io stavo benissimo lo stesso. Mi bastava, la sera, abitavo in periferia, vicino alla stazione Babuškinskaja, linea arancione, mi bastava affacciarmi alla finestra, circondata da palazzi, a 18, 20, 24 piani e, i russi non usano le tende, le centinaia di famiglie russe che vedevo dal mio sedicesimo piano erano uno spettacolo impagabile, per me. E all'epoca fumavo, e nell'appartamento dove abitavo, abitavo in casa di una famiglia di russi, e i russi con i quali abitavo non volevano che si fumasse in casa, allora a fumare io andavo sul pianerottolo. Che non era un posto molto bello, c'era una cosa che si chiamava musoroprovòd. Condotto di scarico dell'immondizia, significa, che era un condotto che si faceva tutti e diciassette i piani del palazzo dove abitavo e mandava un odore suo particolare che era un odore che non c'era un gran buon odore, nel pianerottolo dov'ero io, all'inizio degli anni novanta, in un condominio della periferia di Mosca, dove fumavo delle sigarette bulgare che non erano delle gran sigarette, devo dire, e una sera, ero lì, sul pianerottolo, con intorno l'odore del condotto di scarico dell'immondizia, un'immondizia sovietica, un odore tutto suo particolare, e avevo nella testa delle domande del tipo "Ma perché sto fumando delle sigarette bulgare? Ma non facevo prima a portarmele dall'Italia?", e si era aperta la porta dell'ascensore e era uscito dall'ascensore un signore con il suo cappotto grigiofumo, il suo cappello di pelo grigiofumo, la sua borsa di fintapelle grigiofumo, i suoi resti di neve grigiofumo sulle spalle, era aprile, nevicava, erano le sei di sera, e questo burocrate sovietico di mezz'età tornava dall'ufficio, probabilmente, e aveva un fascino pari a niente, uno dei pochissimi russi con un carisma nullo che avevo incontrato fino a quel giorno, era tipo il mio dodicesimo giorno in Russia, e lui era uscito dall'ascensore, era arrivato alla porta del suo appartamento, l'aveva aperta con la sua chiave e, da dentro, era venuta la voce di un bambino che diceva "Pàpa!". Che significa Babbo. E aveva un modo così bello, così amorevole, era così contento, che fosse tornato suo babbo, che io mi ricordo che lì, il momento forse meno interessante, più basso del mio primo viaggio in Russia, era stato trasformato, da una parola, nel momento in cui, per la prima volta nella mia vita, avevo pensato che forse poteva valere la pena di fare un bambino. Che poi sarebbe stata una bambina. La prima volta, in vita mia, che ho desiderato avere un figlio, che poi sarebbe stata una figlia, è stato per via di un significante russo: "Pàpa". E le commesse? Quando tornerò in Russia, se mai ci tornerò, le commesse saranno come quelle descritte sovietiche, o saranno come quelle, gentilissime, che mi aiutavano a scegliere le cose all'Uniqlo, al piano meno due del centro commerciale Ochotnyj Rjad, in piazza del Maneggio, vicinissimo al Cremlino? Quelle del '91 si comportavano in un modo, avevano un'alterigia, ostentavano una superiorità e un disprezzo che sembrava di avere a che fare con qualcuno che ti stava punendo per un tuo comportamento vergognoso che tu avevi pubblicamente, in forma di autocritica, riconosciuto come tale, non con delle commesse di un alimentari che dovevano venderti una rulet s makom, che è una pasta ai semi di papavero che io ci facevo colazione, a San Pietroburgo, quando ci abitavo. Gentilissimo robot. C'è un racconto di fantascienza di epoca sovietica, di Michail Mišin, che racconta di un uomo che entra in un negozio perché deve comprare del sapone e trova delle commesse gentilissime e si stupisce, e fa per uscire ma lo ferma un signore che gli chiede se ha visto qualcosa di strano, e lui dice che le commesse erano strane, molto simpatiche, e il signore gli dice che erano dei robot dei quali lui è l'inventore, e gli chiede se tornerà, e lui dice che tornerà sicuramente e torna dopo qualche giorno e le commesse lo trattano malissimo, e lui non compra niente, esce, trova lo stesso signore e gli dice "Be' perché avete tolto i robot?". "Ah", aveva detto l'inventore, "non se n'è accorto? Sono robot anche questi, un modello più sofisticato, uguali alle commesse vere". E l'idea dell'Italia dei russi del futuro come sarà? Perché i russi avevano un'idea dell'Italia singolarissima. Dostoevskij, per dire, quando a 15 anni arriva a Pietroburgo scrive al padre una lettera nella quale gli racconta come si trova e, del tempo, scrive che è "meraviglioso, italiano". Non è mai stato in Italia, ma italiano, per lui, per quel giovane studente di ingegneria navale, è sinonimo di meraviglioso. E lo straordinario pittore contemporaneo Vladimir Šinkarëv, che invece in Italia c'è stato, dice che in Italia è tutto così bello che lui, in Italia, non riesce a lavorare, l'unica cosa che riesce a fare è "pavoneggiarsi". E gli studenti dell'accademia di Belle arti di Mosca che ho conosciuto nel 1993, vedevano tutte le puntate di una serie televisiva che si chiamava Šprut, La piovra, col commissario Cattani, e con loro mi sono trovato a cantare, intorno a un tavolo con sopra una bottiglia di vodka, due fette di pane nero e due pomodori, una canzone che non avrei mai pensato di cantare in vita mia, Un italiano vero, di Toto Cutugno, e lì ho capito che quello è il vero inno italiano e che sarebbe bellissimo se i calciatori della nazionale, al centro del campo, la mano sul cuore, cantassero "Buongiorno Italia gli spaghetti al dente, un partigiano come presidente, con l'autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra" e purtroppo non succederà mai. Un amore sconsiderato. E, a parte Toto Cutugno, lo sconsiderato amore che i russi hanno per noi, l'ho ritrovato in un libro meraviglioso, pubblicato da poco per Adelphi, Immagini dell'Italia, di Pavel Muratov; io abito a 35 minuti da Firenze ed è leggendo Muratov che dice che le pietre, a Firenze, sembrano più leggere che in qualsiasi altra città del mondo, mi son detto "Ma te, stai a un passo da Firenze non ci vai mai, ma sarai coglione?". E questo amore totale, sconsiderato, contrasta con l'idea che abbiamo noi, di quella Russia sovietica così diversa da tutto quello a cui siamo abituati. Qualche anno fa, sarà stato il 2005, su un treno interregionale da Bologna a Parma poco dopo le 18, in orario da pendolari, io ero in piedi nel corridoio, era settembre, la gente che va a lavorare era appena tornata dalle vacanze e c'era un signore, seduto, che parlava con il suo dirimpettaio e gli diceva che in vacanza era stato in Russia, a Mosca, e che era stato in metropolitana e che era bellissima, la metropolitana di Mosca, e poi si vede aveva visto la faccia del suo dirimpettaio che era un po' stupito e aveva aggiunto, in fretta, "Ma l'han fatta gli zar, eh". E a me era venuta voglia di dirgli che la metropolitana, a Mosca, si chiama Lenin, e la prima linea l'hanno aperta nel 1935 e non l'han fatta gli zar, l'han fatta i sovietici, ed è vero, è bellissima, come tante altre cose bellissime che hanno fatto i sovietici come la liberazione di Auschwitz, per dire, e avrei voluto dirgli che l'Unione Sovietica, quando l'ho vista io, nel 1991, mi dispiace, era un posto bellissimo, che era così grigio, così povero, così misero, così fatto a mano, così diverso dai nostri posti, che scintillava di bellezza, di dolore, di amore, di solidarietà, mi dispiace ma a me era sembrato così, avrei voluto dirgli. Solo che dopo non gliel'avevo mica detto. Non lo so perché. E lui forse crede ancora che la Metropolitana l'hanno fatta gli zar. 

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