"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 25 aprile 2022

Lamemoriadeigiornipassati. 31 «Si chiamava Franco Cesana, nome di battaglia: Balilla».

 

A lato. Un'immagine di Franco Cesana (Mantova, 20 settembre 1931, 14 settembre 1944).

Ha scritto Michele Serra in “Le armi di ieri e di oggi” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 22 di aprile 2022: (…). Ero certo, a vent’anni, che gli esseri umani nati dopo di me sarebbero stati, inevitabilmente, migliori di me. Quanto alle armi dei partigiani, che si dicevano ancora sepolte in certi campi, occultate in certi fienili, se ne parlava come di un cimelio museale (ed erano passati, dalla Resistenza, nemmeno trent’anni). (…). Credo che lo choc prodotto dalla guerra in Ucraina, lo stato di disorientamento politico che ha prodotto in molte persone in buona fede (di quelle in cattiva fede non è interessante discutere) dipenda in buona misura dal perdurare della Grande Illusione Occidentale, che coincide quasi in toto con la grande illusione progressista.

Non ci capacitiamo che la storia possa retrocedere, arrotolarsi su se stessa come un tappeto incapace di rimanere disteso. Fatichiamo a prendere atto della contemporaneità della barbarie: non eravamo pronti. Non perché cinici e smagati, semmai perché ingenui e illusi. Nei primi commenti all’invasione russa la categoria dell’anacronismo è stata il più diffuso metodo di lettura. Come se si dicesse: “questo non è il presente, non può esserlo”. (…). Ma in trent’anni la potenza mediatica ha perfino surclassato quella bellica, sprofondandoci tutti in immagini e notizie di inequivocabile ferocia. Fare finta di niente è diventato semplicemente impossibile. Possiamo solo prenderne atto. E dunque aggiornare le nostre reazioni, e le nostre convinzioni, a una guerra di cancellazione politica, e di riconquista ideologica, che un autocrate orientale ha scatenato contro un Paese che, con i suoi mezzi e i suoi tempi, cominciava a considerarsi europeo, o almeno provare a esserlo. Personalmente, trovo detestabile la sicumera con la quale una specie di lobby occidentalista ha martellato e sbeffeggiato i pacifisti senza più parole né gesti da compiere, e gli europeisti non filoamericani (sono parecchi) che hanno obiezioni da muovere alla Nato. (…). Ma la necessità di combattere con ogni mezzo la tirannia non appartiene a un campo politico, appartiene, per fortuna, a un’etica democratica condivisa. E non averlo fatto abbastanza in passato (non abbastanza con i curdi, non abbastanza con i siriani) non solleva di un solo grammo il peso della scelta che ci sta di fronte: compreso l’invio di armi agli ucraini. Tutto il resto dell’armamentario occidentale, la dialettica, la diplomazia, l’invocazione francescana alla fratellanza, è fondamentale, perché per noi europei è identitario. Ma potrebbe non bastare. Di seguito, “Il piccolo partigiano” di Brunella Giovara pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di aprile dell’anno 2021: Il ragazzo era su questa scala, e aveva uno Sten a tracolla. Aveva anche un grande segreto, e non l’ha mai detto a nessuno. Ma ogni cosa si polverizzò in un attimo e in un bagliore, era la sera del 14 settembre del 1944, una raffica tedesca lo prese in pieno, nel buio, nelle urla degli uomini sorpresi dall’imboscata, disse poi il suo comandante di aver gridato «tutti a terra!», e «appoggiai la mano sulla spalla destra del ragazzo affinché eseguisse più rapidamente il mio ordine. Ma egli si svincolò di scatto, e col suo corpo mi si buttò addosso». Si chiamava Franco Cesana, nome di battaglia: Balilla. Nato a Mantova il 20 settembre 1931, sei giorni dopo avrebbe quindi compiuto i tredici anni. Il partigiano più piccolo d’Italia, o uno dei più giovani, medaglia di bronzo al valore militare, «adolescente pieno di slancio e di spirito patriottico…», eccetera. E volendo tornare nel punto esatto in cui tutto questo è successo, si deve salire al gruppo di case di sasso a Picciniera, che è una borgata di Gombola, che è frazione di Polinago, in provincia di Modena. Appennino, sole e freddo, nei boschi il bianco dei ciliegi selvatici appena fioriti. Da un cortile esce Sandra Veratti, con una vecchia chiave in mano. «Mia mamma era presente al fatto. Si chiamava Maria Rosa Bonvicini, era del ’35». Quella bambina restò scioccata, mentre guardava i partigiani raccogliere il cadavere di Franco, che stesero in questo oratorio della Beata Vergine del rosario. A fatica, Sandra apre il portone. È una pieve minuscola, con la croce arrugginita sul tetto, l’altare è corroso dall’umido, è tutto come nel 1944. Sei banchi, bastavano giusto per gli abitanti del borgo, costruito tra il 1400 e il 1500 dai conti Cesi, che lo usavano come base per le loro cacce. «Non si può entrare, è pericolante», ma lo stesso si vedono i quadri con le sante e le madonne, la volta è dipinta di azzurro. Il posto giusto per tenerci un morto, nel fresco delle pietre. Il ragazzo Cesana, però, era ebreo. E questo era il segreto che aveva promesso alla madre di non dire mai. Nell’unica lettera rimasta, le scriveva «ti avverto che non ho detto quella cosa che mi hai fatto giurare». E «ti raccomando, appena ricevuta la mia, bruciala», le nuove regole della clandestinità che stava appena imparando. La madre conservò la lettera, la mise in una bottiglia che poi sotterrò nell’orto. Anni dopo, Ada Basevi raccontò che di quel suo figlio le erano rimaste due cose: «Una penna, e una lampadina», forse intendendo una piccola torcia per vedere al buio, utile alla nuova vita di partigiano, e quindi fuggiasco. Ma fuggiasco era già un suo destino, e bisogna qui ricordare le migliaia di bambini che la guerra scaraventò su e giù per l’Italia, spesso soli. I genitori li allontanavano per salvarli dalla fame e dai bombardamenti delle città, affidandoli a parenti lontani, in campagna e in montagna, purché lontano. Le famiglie sfollavano e si disperdevano, i pochi telefoni non funzionavano. Vite piccole, sconosciute, randagie. Poi, c’erano bambini e ragazzi con l’aggravante razziale, che cercavano di scampare alle deportazioni, e quindi in fuga perpetua, finché non venivano presi e mandati ad Auschwitz. I Cesana erano di Mantova, poi trasferiti a Bologna, il padre si chiamava Felice, e i tre figli Vittorio, Lelio e il minore Franco. Nell’unica foto, il bambino ha un piccolo sorriso, un cappottino di tweed, i capelli ricci. Di sicuro all’epoca dello scatto era già stato espulso da scuola, perché era ebreo. Forse era già orfano del papà, per cui la madre lo mandò all’orfanotrofio israelitico di Torino, che accoglieva ragazzi in difficoltà. Ci restò fino al 1941, quando la struttura venne chiusa. Dopo, venne mandato a Roma, come ricorda la cugina Ziva Grazia Modiano Fischer, 87 anni, già presidente nazionale dell’Associazione donne ebree d’Italia, scampata alla deportazione perché rifugiata a Tora, in provincia di Caserta, dove nessuno vendette gli ebrei. «Franco stava all’Istituto Pitigliani, di fronte alla sinagoga, poi chiuso nel ’42. I bambini vennero restituiti alle famiglie», chi l’aveva. La bambina Grazia andava a prendere il cugino Franco la domenica, «lo portavo a casa, così faceva finalmente una bella mangiata. Com’era? Un bambino vivace. Una volta venne punito perché aveva giocato a cuscinate con i compagni». I Cesana tornano a Bologna, ma la caccia all’ebreo funziona già bene, 5mila lire per ogni cattura. Come tanti, sono ebrei erranti che si fermano qua e là, in una frazione di Serramazzoni, nella stalla di Casa Nuvola, poi a Casa Saldino, nel posto più sperduto della frazione Pescarola, a Prignano sulla Secchia. Qui, ci sono i partigiani.Questo è l’arcangelico regno dei partigiani, Fenoglio chiamava così le Langhe, era così anche la libera repubblica di Montefiorino, che in linea d’aria non è lontano da qui, così come lo è Marzabotto. Un piccolo libro ha ricostruito la vita breve di Balilla (Dalle leggi razziali al sacrificio di Franco Cesana), fatto prima della pandemia dagli studenti di terza media dell’Istituto Francesco Berti di Prignano, aiutati dai prof Ballesi e Ferrari, dall’Anpi e dalla Comunità ebraica. Nato dalla domanda «ma lo sapete che da queste parti è stato ucciso un ragazzino come voi?», i coetanei di oggi hanno ricostruito le divisioni partigiane, le zone dei comunisti, dei Giustizia e libertà, dei democristiani, chi erano i capi, i rastrellamenti. Uno dei comandanti era “Marcello” Catellani, monarchico, ex ufficiale dell’esercito. Nella guerra contro la Francia era stato ferito a un braccio, che poi gli avevano amputato. In cambio, aveva ricevuto la visita di Mussolini, e poco dopo cambiava idee, riferimenti, saliva in montagna e formava una banda. Lì arrivò il fratello di Franco, Lelio, e dopo un po’ anche Franco: «Fra gli uomini di Marcello vi è un ragazzetto di circa 12 anni. Si era aggregato alle formazioni azzurre dicendo di non avere famiglia», scrisse poi il partigiano “Roberto”. E il comandante: «Data la sua intelligenza e vivacità poteva essere un ottimo portaordini in momenti delicati. A malincuore, ma tanto era stato il suo entusiasmo, avevo aderito che portasse con sé uno Sten» (le testimonianze sono nel libro La storia mai scritta del Comandante Marcello di Terenzio Succi e Franco Adravanti, editore Youcanprint). «Franco aveva preso una decisione importante: diventare partigiano», dice Barbara Orlandi, che ha partecipato alla ricerca con i suoi compagni di classe. Era così giovane, «ma aveva fatto una scelta. Era anche uno bravo a scuola», che peraltro gli era proibita. E anche quel soprannome: Balilla. Il balilla non lo aveva mai fatto, proibito anche questo in quanto «appartenente alla religione ebraica». Quindi, immaginatevi il ragazzo che, un giorno di quel settembre, esce di casa per andare a prendere il latte in una cascina vicina, e invece scappa in montagna. Arrivò alla Picciniera «stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo un po’, l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei contenta?», scriveva alla mamma. «Fui assunto, e siccome ho studiato, fui dislocato al comando. Non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è ottima, solo un po’ precario il dormire». Gli consegnarono lo Sten, possiamo immaginare l’orgoglio. Era felice? Probabilmente sì. Arrivò quel «crepitio di armi automatiche contro il retro della casa», il gesto istintivo di proteggere il suo comandante, che aveva un braccio solo. Faticarono a seppellirlo. Con tanti preti partigiani nella zona, quello di Pescarola rifiutò di metterlo nel cimitero del paese. Poi lo obbligarono, e solo così Franco andò sotto terra. Ha scritto oggi, 25 di aprile 2022, sessantesimo giorno dall’aggressione dell’Ucraina, Ezio Mauro – in “La responsabilità del 25 di aprile”, sul quotidiano “la Repubblica” – che (…). La verità, amara per l'Italia, è che siamo davanti ad un passaggio decisivo in ciò che resta del sentimento pubblico nazionale, in un Paese che con la fine dei partiti ha perso anche sistemi d'opinione strutturati nell'esperienza e nella tradizione, capaci di costruire, spiegare e consolidare un orientamento in nome di una serie di principi, e di collegare le scelte ai valori. Tutto s'improvvisa e dunque tutto diventa tattica, (…), nella dimostrazione definitiva che dichiararsi progressisti è semplice perché poco impegnativo, ma non è sufficiente per esprimere una cultura di sinistra. Nella consumazione in corso di un senso comune repubblicano e occidentale, c'è ormai l'indifferenza per la democrazia considerata non come un valore da difendere ma come una truffa permanente, e dunque messa sullo stesso piano dell'autoritarismo sovrano e dispotico, del sovranismo nazionalista, del neo-imperialismo. Per arrivare fin qui bisogna sbarazzare il terreno dalla macchia dell'invasione che nella sua evidenza consegna una responsabilità patente all'esercito occupante, assegna i ruoli di aggredito ed aggressore, e impone un giudizio di condanna. (…). Ecco perché bisogna tornare a interrogare il fondamento etico del 25 aprile, riconoscere il carattere universale dei concetti di resistenza e liberazione, ieri e oggi per l'Italia, oggi e domani per l'Ucraina. Dobbiamo farlo per le vittime, naturalmente. Ma soprattutto per noi stessi, per recuperare il senso di ciò che siamo, o almeno dovremmo essere.

1 commento:

  1. "Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce". (Giuseppe Ungaretti). "Non festa della libertà come un'illusione comoda. Ma festa della liberazione, come dono ricevuto ieri e da costruire ogni giorno ". (Anonimo). " Siamo papaveri selvaggi, quelli che restano ai margini e crescono nei posti più impensati. Quelli che non fanno numero, che non vanno nei giardini curati e ordinati, che amano le erbacce e le loro storie complicate".(Fabrizio Caramagna). Grazie per questo stupendo post che riesce a toccare meravigliosamente le corde del cuore e far vibrare l'anima. Buona continuazione.

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