A lato. Un'immagine di Franco Cesana (Mantova, 20 settembre 1931, 14 settembre 1944).
Ha scritto Michele Serra in “Le armi di ieri e di oggi” pubblicato sul settimanale “il Venerdì
di Repubblica” del 22 di aprile 2022: (…). Ero certo, a vent’anni, che gli esseri
umani nati dopo di me sarebbero stati, inevitabilmente, migliori di me. Quanto
alle armi dei partigiani, che si dicevano ancora sepolte in certi campi,
occultate in certi fienili, se ne parlava come di un cimelio museale (ed erano
passati, dalla Resistenza, nemmeno trent’anni). (…). Credo che lo choc prodotto
dalla guerra in Ucraina, lo stato di disorientamento politico che ha prodotto
in molte persone in buona fede (di quelle in cattiva fede non è interessante
discutere) dipenda in buona misura dal perdurare della Grande Illusione
Occidentale, che coincide quasi in toto con la grande illusione progressista.
Non ci capacitiamo che la storia possa retrocedere, arrotolarsi su se stessa
come un tappeto incapace di rimanere disteso. Fatichiamo a prendere atto della
contemporaneità della barbarie: non eravamo pronti. Non perché cinici e
smagati, semmai perché ingenui e illusi. Nei primi commenti all’invasione russa
la categoria dell’anacronismo è stata il più diffuso metodo di lettura. Come se
si dicesse: “questo non è il presente, non può esserlo”. (…). Ma in trent’anni
la potenza mediatica ha perfino surclassato quella bellica, sprofondandoci
tutti in immagini e notizie di inequivocabile ferocia. Fare finta di niente è
diventato semplicemente impossibile. Possiamo solo prenderne atto. E dunque
aggiornare le nostre reazioni, e le nostre convinzioni, a una guerra di
cancellazione politica, e di riconquista ideologica, che un autocrate orientale
ha scatenato contro un Paese che, con i suoi mezzi e i suoi tempi, cominciava a
considerarsi europeo, o almeno provare a esserlo. Personalmente, trovo
detestabile la sicumera con la quale una specie di lobby occidentalista ha
martellato e sbeffeggiato i pacifisti senza più parole né gesti da compiere, e
gli europeisti non filoamericani (sono parecchi) che hanno obiezioni da muovere
alla Nato. (…). Ma la necessità di combattere con ogni mezzo la tirannia non
appartiene a un campo politico, appartiene, per fortuna, a un’etica democratica
condivisa. E non averlo fatto abbastanza in passato (non abbastanza con i
curdi, non abbastanza con i siriani) non solleva di un solo grammo il peso
della scelta che ci sta di fronte: compreso l’invio di armi agli ucraini. Tutto
il resto dell’armamentario occidentale, la dialettica, la diplomazia,
l’invocazione francescana alla fratellanza, è fondamentale, perché per noi
europei è identitario. Ma potrebbe non bastare. Di seguito,
“Il piccolo partigiano” di Brunella
Giovara pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di aprile dell’anno
2021:
Il ragazzo era su questa scala, e aveva uno Sten a tracolla. Aveva
anche un grande segreto, e non l’ha mai detto a nessuno. Ma ogni cosa si
polverizzò in un attimo e in un bagliore, era la sera del 14 settembre del
1944, una raffica tedesca lo prese in pieno, nel buio, nelle urla degli uomini
sorpresi dall’imboscata, disse poi il suo comandante di aver gridato «tutti a
terra!», e «appoggiai la mano sulla spalla destra del ragazzo affinché
eseguisse più rapidamente il mio ordine. Ma egli si svincolò di scatto, e col
suo corpo mi si buttò addosso». Si chiamava Franco Cesana, nome di battaglia:
Balilla. Nato a Mantova il 20 settembre 1931, sei giorni dopo avrebbe quindi
compiuto i tredici anni. Il partigiano più piccolo d’Italia, o uno dei più
giovani, medaglia di bronzo al valore militare, «adolescente pieno di slancio e
di spirito patriottico…», eccetera. E volendo tornare nel punto esatto in cui
tutto questo è successo, si deve salire al gruppo di case di sasso a
Picciniera, che è una borgata di Gombola, che è frazione di Polinago, in
provincia di Modena. Appennino, sole e freddo, nei boschi il bianco dei ciliegi
selvatici appena fioriti. Da un cortile esce Sandra Veratti, con una vecchia
chiave in mano. «Mia mamma era presente al fatto. Si chiamava Maria Rosa
Bonvicini, era del ’35». Quella bambina restò scioccata, mentre guardava i
partigiani raccogliere il cadavere di Franco, che stesero in questo oratorio
della Beata Vergine del rosario. A fatica, Sandra apre il portone. È una pieve
minuscola, con la croce arrugginita sul tetto, l’altare è corroso dall’umido, è
tutto come nel 1944. Sei banchi, bastavano giusto per gli abitanti del borgo,
costruito tra il 1400 e il 1500 dai conti Cesi, che lo usavano come base per le
loro cacce. «Non si può entrare, è pericolante», ma lo stesso si vedono i
quadri con le sante e le madonne, la volta è dipinta di azzurro. Il posto
giusto per tenerci un morto, nel fresco delle pietre. Il ragazzo Cesana, però,
era ebreo. E questo era il segreto che aveva promesso alla madre di non dire
mai. Nell’unica lettera rimasta, le scriveva «ti avverto che non ho detto
quella cosa che mi hai fatto giurare». E «ti raccomando, appena ricevuta la
mia, bruciala», le nuove regole della clandestinità che stava appena imparando.
La madre conservò la lettera, la mise in una bottiglia che poi sotterrò
nell’orto. Anni dopo, Ada Basevi raccontò che di quel suo figlio le erano
rimaste due cose: «Una penna, e una lampadina», forse intendendo una piccola
torcia per vedere al buio, utile alla nuova vita di partigiano, e quindi
fuggiasco. Ma fuggiasco era già un suo destino, e bisogna qui ricordare le
migliaia di bambini che la guerra scaraventò su e giù per l’Italia, spesso
soli. I genitori li allontanavano per salvarli dalla fame e dai bombardamenti
delle città, affidandoli a parenti lontani, in campagna e in montagna, purché
lontano. Le famiglie sfollavano e si disperdevano, i pochi telefoni non
funzionavano. Vite piccole, sconosciute, randagie. Poi, c’erano bambini e
ragazzi con l’aggravante razziale, che cercavano di scampare alle deportazioni,
e quindi in fuga perpetua, finché non venivano presi e mandati ad Auschwitz. I
Cesana erano di Mantova, poi trasferiti a Bologna, il padre si chiamava Felice,
e i tre figli Vittorio, Lelio e il minore Franco. Nell’unica foto, il bambino
ha un piccolo sorriso, un cappottino di tweed, i capelli ricci. Di sicuro
all’epoca dello scatto era già stato espulso da scuola, perché era ebreo. Forse
era già orfano del papà, per cui la madre lo mandò all’orfanotrofio israelitico
di Torino, che accoglieva ragazzi in difficoltà. Ci restò fino al 1941, quando
la struttura venne chiusa. Dopo, venne mandato a Roma, come ricorda la cugina
Ziva Grazia Modiano Fischer, 87 anni, già presidente nazionale
dell’Associazione donne ebree d’Italia, scampata alla deportazione perché
rifugiata a Tora, in provincia di Caserta, dove nessuno vendette gli ebrei.
«Franco stava all’Istituto Pitigliani, di fronte alla sinagoga, poi chiuso nel
’42. I bambini vennero restituiti alle famiglie», chi l’aveva. La bambina
Grazia andava a prendere il cugino Franco la domenica, «lo portavo a casa, così
faceva finalmente una bella mangiata. Com’era? Un bambino vivace. Una volta venne
punito perché aveva giocato a cuscinate con i compagni». I Cesana tornano a
Bologna, ma la caccia all’ebreo funziona già bene, 5mila lire per ogni cattura.
Come tanti, sono ebrei erranti che si fermano qua e là, in una frazione di
Serramazzoni, nella stalla di Casa Nuvola, poi a Casa Saldino, nel posto più
sperduto della frazione Pescarola, a Prignano sulla Secchia. Qui, ci sono i
partigiani.Questo è l’arcangelico regno dei partigiani, Fenoglio chiamava così le
Langhe, era così anche la libera repubblica di Montefiorino, che in linea
d’aria non è lontano da qui, così come lo è Marzabotto. Un piccolo libro ha
ricostruito la vita breve di Balilla (Dalle leggi razziali al sacrificio di
Franco Cesana), fatto prima della pandemia dagli studenti di terza media
dell’Istituto Francesco Berti di Prignano, aiutati dai prof Ballesi e Ferrari,
dall’Anpi e dalla Comunità ebraica. Nato dalla domanda «ma lo sapete che da
queste parti è stato ucciso un ragazzino come voi?», i coetanei di oggi hanno
ricostruito le divisioni partigiane, le zone dei comunisti, dei Giustizia e
libertà, dei democristiani, chi erano i capi, i rastrellamenti. Uno dei
comandanti era “Marcello” Catellani, monarchico, ex ufficiale dell’esercito.
Nella guerra contro la Francia era stato ferito a un braccio, che poi gli
avevano amputato. In cambio, aveva ricevuto la visita di Mussolini, e poco dopo
cambiava idee, riferimenti, saliva in montagna e formava una banda. Lì arrivò
il fratello di Franco, Lelio, e dopo un po’ anche Franco: «Fra gli uomini di
Marcello vi è un ragazzetto di circa 12 anni. Si era aggregato alle formazioni
azzurre dicendo di non avere famiglia», scrisse poi il partigiano “Roberto”. E
il comandante: «Data la sua intelligenza e vivacità poteva essere un ottimo
portaordini in momenti delicati. A malincuore, ma tanto era stato il suo
entusiasmo, avevo aderito che portasse con sé uno Sten» (le testimonianze sono
nel libro La storia mai scritta del Comandante Marcello di Terenzio Succi e
Franco Adravanti, editore Youcanprint). «Franco aveva preso una decisione
importante: diventare partigiano», dice Barbara Orlandi, che ha partecipato
alla ricerca con i suoi compagni di classe. Era così giovane, «ma aveva fatto
una scelta. Era anche uno bravo a scuola», che peraltro gli era proibita. E
anche quel soprannome: Balilla. Il balilla non lo aveva mai fatto, proibito
anche questo in quanto «appartenente alla religione ebraica». Quindi,
immaginatevi il ragazzo che, un giorno di quel settembre, esce di casa per
andare a prendere il latte in una cascina vicina, e invece scappa in montagna.
Arrivò alla Picciniera «stanco morto, ma mi feci coraggio e mi presentai. Dopo
un po’, l’occasione di entrare a far parte della formazione Marcello. Sei
contenta?», scriveva alla mamma. «Fui assunto, e siccome ho studiato, fui
dislocato al comando. Non devi impensierirti per me che sto da re. La salute è
ottima, solo un po’ precario il dormire». Gli consegnarono lo Sten, possiamo
immaginare l’orgoglio. Era felice? Probabilmente sì. Arrivò quel «crepitio di armi
automatiche contro il retro della casa», il gesto istintivo di proteggere il
suo comandante, che aveva un braccio solo. Faticarono a seppellirlo. Con tanti
preti partigiani nella zona, quello di Pescarola rifiutò di metterlo nel
cimitero del paese. Poi lo obbligarono, e solo così Franco andò sotto terra. Ha
scritto oggi, 25 di aprile 2022, sessantesimo giorno dall’aggressione dell’Ucraina,
Ezio Mauro – in
“La responsabilità del
25 di aprile”, sul quotidiano “la Repubblica” – che
(…). La verità, amara per
l'Italia, è che siamo davanti ad un passaggio decisivo in ciò che resta del
sentimento pubblico nazionale, in un Paese che con la fine dei partiti ha perso
anche sistemi d'opinione strutturati nell'esperienza e nella tradizione, capaci
di costruire, spiegare e consolidare un orientamento in nome di una serie di
principi, e di collegare le scelte ai valori. Tutto s'improvvisa e dunque tutto
diventa tattica, (…), nella dimostrazione definitiva che dichiararsi
progressisti è semplice perché poco impegnativo, ma non è sufficiente per
esprimere una cultura di sinistra. Nella consumazione in corso di un senso
comune repubblicano e occidentale, c'è ormai l'indifferenza per la democrazia
considerata non come un valore da difendere ma come una truffa permanente, e
dunque messa sullo stesso piano dell'autoritarismo sovrano e dispotico, del
sovranismo nazionalista, del neo-imperialismo. Per arrivare fin qui bisogna
sbarazzare il terreno dalla macchia dell'invasione che nella sua evidenza
consegna una responsabilità patente all'esercito occupante, assegna i ruoli di
aggredito ed aggressore, e impone un giudizio di condanna. (…). Ecco perché
bisogna tornare a interrogare il fondamento etico del 25 aprile, riconoscere il
carattere universale dei concetti di resistenza e liberazione, ieri e oggi per
l'Italia, oggi e domani per l'Ucraina. Dobbiamo farlo per le vittime,
naturalmente. Ma soprattutto per noi stessi, per recuperare il senso di ciò che
siamo, o almeno dovremmo essere.
"Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce". (Giuseppe Ungaretti). "Non festa della libertà come un'illusione comoda. Ma festa della liberazione, come dono ricevuto ieri e da costruire ogni giorno ". (Anonimo). " Siamo papaveri selvaggi, quelli che restano ai margini e crescono nei posti più impensati. Quelli che non fanno numero, che non vanno nei giardini curati e ordinati, che amano le erbacce e le loro storie complicate".(Fabrizio Caramagna). Grazie per questo stupendo post che riesce a toccare meravigliosamente le corde del cuore e far vibrare l'anima. Buona continuazione.
RispondiElimina