"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 11 settembre 2021

Capitalismoedemocrazia. 71 «Sussidiare in modo intelligente permette alla gente di vivere e investire nel proprio futuro».

Tratto da “Un altro capitalismo è possibile”, intervista di Giuliano Aluffi al sociologo americano Fred L. Block, docente di Sociologia alla University of California, pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di settembre 2021: (…). La crescita del populismo vista in questi anni in Occidente indica una crisi del capitalismo? "Il malcontento popolare è una reazione alla visione, fatta propria sia dai governi di centrodestra che di centrosinistra, che il capitalismo sia un sistema coerente e stabile che non deve essere modificato. Quest'idea ha giustificato le politiche di austerità che hanno dominato nelle società occidentali per buona parte degli ultimi 40 anni. E l'austerità significa che i bisogni delle persone sono trascurati e che non ci sono servizi, risorse e supporto per tutti. A generare forti movimenti populisti di destra e di sinistra è stato il collasso dei sistemi politici centristi, ostaggi dell'idea che al capitalismo così come è oggi non ci sia alternativa, per citare una famosa frase di Margaret Thatcher".

Come è diventata egemone questa visione dogmatica del capitalismo? "Negli Stati Uniti la parola "capitalismo" è entrata nell'uso comune solo negli anni Ottanta. Prima di allora, in piena Guerra fredda, "capitalismo" aveva un'accezione negativa perché era il termine usato dai sovietici per indicare tutto ciò che non andava: le disuguaglianze, lo sfruttamento dei lavoratori e così via. Un aneddoto curioso: nel 1965 l'attivista Paul Potter, presidente di Students for a Democratic Society, tenne un discorso alla prima grande marcia degli studenti a Washington contro la guerra del Vietnam indicata come la conseguenza di un intero sistema. "Dobbiamo fare il nome del sistema che ci ha dato il Vietnam, la discriminazione razziale..." tuonava Potter. Ma non usò mai il termine "capitalismo", perché gli organizzatori della marcia, per non sembrare filosovietici, non glielo avevano permesso...".

E quando sono cambiate le cose? "Negli anni '70. Prima di allora c'erano stati diversi tentativi di riabilitare la parola "capitalismo", ma non si era riusciti a capovolgere il significato del termine, rendendolo positivo di fronte all'opinione pubblica. L'economista Milton Friedman, per esempio, nel 1962 aveva pubblicato Capitalism and freedom, una sorta di manifesto conservatore. Poi nel 1966 la filosofa Ayn Rand aveva dato alle stampe Capitalism: the unkown ideal. E sempre in quell'anno Malcom Forbes, editore di Forbes Magazine, aveva adottato lo slogan "Forbes: capitalist tool" rivendicando il termine con fierezza. Però la vera svolta arriva nel 1978 quando il giornalista neoconservatore Irving Kristol - che aveva un passato marxista-trozkista - pubblica il saggio Two cheers for capitalism, dove sostiene che i difensori dello status quo capitalistico avrebbero raggiunto i loro obiettivi proprio cambiando la percezione popolare di quel termine".

Qual è stata l'influenza di Kristol e del suo saggio? "Kristol riuscì a far passare l'idea che il capitalismo è un sistema coerente e unitario, e che i tentativi di riformarlo in senso più sociale non possono funzionare perché ne minano la coerenza e la logica interna. Insomma - predicava Kristol - se si vuole la prosperità, bisogna accettare il capitalismo così come è, con tutti i suoi difetti. (…). Perché l'idea che il capitalismo sia monolitico e intoccabile è falsa: il capitalismo non è caduto dal cielo così com'è, ma è una struttura complessa, che si è evoluta nel tempo attraverso cambiamenti e lotte politiche. E come tale può essere ancora messo in discussione e riformato nelle parti in cui è meno funzionale ai bisogni delle persone".

(…), anche Alan Greenspan ha dovuto ammettere la sostanziale incapacità del capitalismo di autoregolarsi... "Ho gioito quando Greenspan ha ammesso: 'Ho sbagliato nel presumere che le banche, nel loro interesse, fossero capaci di proteggere i loro investitori', rimpiangendo la sua opposizione, quando era presidente della Federal Reserve, a una regolamentazione più severa di quei derivati finanziari che fecero scoppiare la crisi del 2008. Anche perché Greenspan è stato a lungo un discepolo di Ayn Rand, la pensatrice anarco-capitalista secondo cui l'avidità è un bene. Io penso che l'avidità non sia affatto un bene. E oggi lo vediamo, ad esempio, con l'impazzimento generale per le criptovalute, che permettono ai miliardari di giocare sui mercati finanziari in modi distruttivi e di evadere le tasse".

Però i difensori dello status quo capitalista dicono che lo Stato dovrebbe intervenire il meno possibile nell'economia... "Anche questa è un'illusione. Le faccio un esempio dell'importanza dello Stato per l'innovazione. La rivista R&D fa un elenco delle 100 innovazioni tecnologiche più importanti dell'anno. Nell'ultima lista che ho visto, delle 88 innovazioni americane, ben 77 erano finanziate, almeno in parte, con fondi o programmi statali. Insomma, lo Stato serve".

D'accordo, ma per dirla con Lenin, a questo punto "che fare?" "La pandemia, con la necessità di erogare sussidi a chi non poteva lavorare, ci ha mostrato che sbaglia chi sostiene che provvedere ai meno abbienti con qualche forma di reddito distrugga l'autonomia delle persone. La realtà è che sussidiare in modo intelligente permette alla gente di vivere e investire nel proprio futuro. Un altro punto migliorabile è l'equità nella tassazione: un segno incoraggiante è la proposta degli Stati Uniti di creare una tassa minima globale per le aziende. E poi dovremmo ristrutturare il sistema finanziario in modo che gli investitori siano incoraggiati a investire nell'economia reale, e non in istituzioni del tutto scollegate da questa".

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