A lato. Guercino, "Et in Arcadia ego" (1618-1622).
Tratto da “Tra luce e buio l’eterno enigma dell’Ecclesiaste” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri giovedì 9 di settembre 2021:
L'umanità
è il risultato dell'infinità delle vite che hanno lasciato i propri segni. Non
è una religione e nemmeno un "grande essere" con i suoi riti,
sacerdoti, giudici, dogmi, catechismi, paradisi e inferni. Se fosse così,
saremmo in pieno dentro una pericolosa metafisica amministrata da "preti
dell'umanità" e la società si presenterebbe come un mostro tentacolare.
Usando questa degna parola - umanità - non la si deve assolutizzare e
spersonalizzare, a pena delle più terribili deviazioni e crudeltà. Essa
ricorre, per esempio, in una pétition al tempo della Rivoluzione: "Par pitié,
par amour pour l'humanité, soyez inhumains!". Il libero intreccio dei
segni non ha a che vedere nemmeno con ciò che è detto programmaticamente nelle
prime parole del Catéchisme positiviste di Auguste Comte: i sociologi, cioè gli
esperti dell'umanità (oggi potremmo dire ironicamente: gli analisti), prendano
su di sé il governo del mondo. L'umanità è un concetto descrittivo, aperto,
umile e disponibile ad accogliere molte esperienze. Accoglie il più piccolo
gesto, la paroletta che resta impressa quasi per caso, il tasto del pianoforte
che rompe il silenzio e induce a pensare, le gesta grandiose e terribili delle
"personalità storiche", gli atti d'amore e le sordide transazioni
della coscienza, le manifestazioni d'orgoglio che umiliano i deboli e le
rivolte alle umiliazioni. Chi può dire che cosa conta e che cosa è irrilevante,
che cosa conta di più e che cosa di meno? L'umanità, così, non è una garanzia,
non è il paradiso delle virtù, e neppure l'inferno di tutte le bassezze. È una
selva in cui ci si trova immersi, nella quale districarsi è difficile.
Soprattutto è una selva in cui nessuno può credere di aggirarsi con la sua
sovrana volontà. Possiamo operare per migliorarla, cioè per ridurre o eliminare
i segni che non ci piacciono, ma anche l'umanità disumana è pur sempre umanità.
Tuttavia, perché si possa parlare di umanità occorre lasciarsi colpire. La
somma di indifferenti è la disumanità. Al tempo stesso, nega il "diritto
al segno" che spetta a ogni essere umano. Questo strano diritto è una
pretesa importante, è il più fondamentale dei diritti, ma è diverso dai diritti
giuridici: lo si può proclamare e scandalizzarsi, di fronte allo spettacolo di
tante vite sprecate; ma se lo scandalo momentaneo non trova un ambiente sociale
ricettivo non è che un fuoco fatuo. È un "diritto" che deve essere
accompagnato e circondato da reazioni ambientali che sfuggono al dominio del
diritto. Non c'è giudice a cui rivolgersi per pretendere sensibilità. Ma, per
le persone sensibili tutto può avere significato, perfino la morte, nostra o
altrui. Perfino la morte è capace di contare, se non anche come segno
attrattivo (che si debba essere contenti di "passar a miglior vita",
è cosa che invano si cerca di far credere a scopo consolatorio), almeno come
segno di umanità e non come amaro e scandaloso proclama di insensata sconfitta.
È ciò che accade con meraviglia, nel momento della sua morte, al grigio
burocrate benpensante Ivan Il'ic nel romanzo di Tol'stoj, quando alla fine egli
riesce ad afferrare ciò che il sole illumina e che non aveva mai osservato. Ed
è ciò che accade talora a noi stessi quando accompagniamo, standogli vicino e
amandolo fino alla fine, qualcuno che ci è caro; quando dal suo modo di morire
usciamo segnati e accresciuti in umanità. Se c'è chi ha avuto la fortuna di
quell'esperienza di intimità nella vita e nella morte con qualcuno, comprenderà
il valore di questa lezione. Qohelet (il nome in ebraico dell’Ecclesiaste
n.d.r.) sembra lontano da questa specie di balbettante meditatio mortis. Ma
egli ci sta sempre davanti inesorabilmente, guardandoci con le orbite vuote
della sfinge. Guarda in te stesso e troverai solo vanità, dice. Non solo vanità
della vita e della morte, ma anche vanità della tua meditazione. Qohelet non
parla mai di paura. La paura presuppone che esista un terreno su cui
appoggiamo, che tuttavia può franare. Egli dice che questo terreno non esiste e
che tutta la vita è vuoto, dunque lo è anche la morte. Non abbiamo nulla su cui
appoggiarci, nulla da perdere o da guadagnare. Perché, allora, avere paura?
Rannicchiamoci nella nostra solitaria insensatezza e non pensiamoci più. Forse,
il messaggio ultimo ch'egli ci lascia è, per l'appunto, questo: lasciate
perdere, mortali; se potete, accontentavi di qualche palliativo che, come un
sollievo, aiuti ad allontanare i pensieri. Paradossi o estrema sapienza? Non
fai paura, o morte, ma il prezzo è altissimo: annullarla, devi,
nell'annullamento della vita stessa. Se non hai paura della morte è perché non
ti aspetti niente dalla vita. Alla fine, dovresti chiederti che senso ha non
morire, ma vivere. Proprio come fanno i "depressi", i disgustati
della vita che equiparano vita e morte. Allora, come non c'è alcun motivo per
vivere, così non c'è nessun motivo per non morire. Basta poco, una malattia, un
dolore, un turbamento, perché dalla vita si decida di passare alla morte:
insensata l'una, insensata l'altra. Non che Qohelet faccia l'elogio del
suicidio, ma certamente abbatte la barriera, l'amore per la vita che protegge
dalla tentazione. A questo punto ci hanno condotto i pensieri che Qohelet ha
messo in movimento. La conclusione non è sua e non può in alcun modo
considerarsi un'interpretazione. È una meditazione "a partire da".
Chiunque lanci un messaggio, tanto più se enigmatico, sa che esso sarà accolto,
alterato, respinto al di là della sua volontà e previsione. E poco interesserà
sapere qual è, se c'è, un significato che possa dirsi autentico. Una volta che
sparisca l'autore, l'autenticità è una chimera. Tanto più, in un caso come è il
nostro, in cui l'autore è sconosciuto, forse non esiste e non sappiamo in che
circostanze ha lasciato il suo detto. Forse sono frasi di (pseudo) saggezza
popolare messe insieme da qualche scriba intestandole a una maschera. Il punto
di partenza e d'arrivo di questa piccola meditazione è il rigetto della sua
visione lugubre della vita. Non c'è alcuna verità da predicare. È un
atteggiamento spontaneo di chi sa provare le gioie che s'incontrano lungo i
giorni della vita e le pregia più dei dolori. È un compito al quale può
sottrarsi solo chi, la vita, la disprezza. La sua vita bella non è, e neppure
bella è la sua morte. Qohelet non aiuta a vivere bene, né a bene morire. Qualcuno,
giunto fin qui, forse dirà a se stesso: manca qualcosa. Forse. In una cartolina
gettata da un "trasporto" ad Auschwitz, fortunosamente salvata,
leggiamo: "Apro a caso la Bibbia e trovo questo: "Il Signore è il mio
alto ricetto". Sono seduta sul mio zaino nel mezzo di un affollato vagone
merci [...]. La partenza è giunta piuttosto inaspettata, malgrado tutto. [...].
Abbiamo lasciato il campo cantando, papà e mamma sono molto forti e calmi, e
così Mischa. Viaggeremo per tre giorni. Grazie per tutte le vostre buone cure. [...].
Arrivederci da noi quattro". Queste parole sono di una ragazza olandese di
29 anni, Etty Hillesum, dai nazisti destinata a morire perché ebrea. Sarebbe
stata uccisa il 30 novembre 1943, forse anche allora cantando, dopo avere
diffuso intorno a sé dolcezza, aiuto e amore per la vita. Tutti questi sono
certamente "segni". Riceverli o respingerli è un fatto personale. Chi
sì, e chi no. Chi avrà la fortuna, o la grazia, di dire sì avrà sconfitto la
tristitia con un sovrappiù di laetitia fino al momento estremo della vita.
Questo è quanto, e non c'è nulla da aggiungere.
"Non è dei veloci la corsa, né dei potenti la battaglia perché il tempo e l'avvenimento imprevisto capitano a tutti".(Ecclesiaste). "Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo".(Qohelet)."Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della sua morte, né c'è scampo dalla lotta. L'iniquità non salva colui che la compie".(Qohelet). "Tutto è vanità".(Qohelet). Carissimo Aldo, mi piace pensare che il termine vanità stia ad indicare la fugacità che l'uomo avverte quando si focalizza sulle cose della terra e in queste cerca quella felicità verso cui è spinto. L'uomo non può saziarsi di cose finite e non può raggiungere un infinito, riempiendo le giornate di sensazioni finite...Con queste parole David Maria Turoldo incontrava il suo amico Qohelet e lo interrogava sul senso autentico dell'esistenza umana:"Piove e la notte è cupa, Qohelet. Amico delle verità supreme, io so perché non ti sei ucciso, vano era anche morire. Pure a te è negato conoscere il senso vero del Nulla che insegui:un Nulla che non sai se nulla sia o sogno, o visione, o vento, o ancora soffio caldo di vita".(D.M.Turoldo,Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano 1992).Grazie per questo post veramente singolare che ha coinvolto profondamente la mia mente e il mio cuore. Buona continuazione.
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