Tratto da “Ho scritto cent’anni di sfiga”, intervista di Paolo Di Paolo a Maurizio Maggiani pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 3 di settembre 2021: "Fra i primissimi lettori (del nuovo libro “L’eterna gioventù”, Feltrinelli editore, pagg. 280, euro 18 n.d.r.) c'è chi mi ha detto: 'Ma questo è il Cent'anni di solitudine italiano!'. Bel complimento, esagerato. Ho risposto: semmai è Cent'anni di sfiga". (…).
È una storia bella e straziante, ma mi veniva il dubbio che fosse un personaggio di finzione. "In un vecchio circolo genovese di Fratellanza Operaia, ormai in rovina, ho trovato una lapide che ricordava questo operaio anarchico ammazzato a vent'anni dalle camicie nere. Mi sono chiesto, quasi con rabbia: perché non ne so niente? Allora mi sono messo a cercare, ma si trova pochissimo. E ho provato a riscattare un uomo che non meritava di non essere niente. Ho immaginato con chi fosse andato a ballare quel primo maggio: è venuta fuori la Canarina, un personaggio di finzione ma fino a un certo punto...".
Una donna che non muore mai perché prima di morire deve fare una cosa. Ed è un gesto da vera anarchica. Questo è un romanzo affollato di anarchici, gente di cui una volta si aveva anche un po' paura. "Una cosa hanno sempre cercato di fare gli anarchici: ficcare una bomba sotto al culo del re. Con la coscienza che nessuno basta da solo per cambiare il mondo, ma ciascuno è necessario. E per essere necessario, devi essere in forze. Qual è la tua forza? Il rifiuto del potere. Perché il potere è la malattia mortale. Certo, era più facile riconoscere il potere ai tempi di Gaetano Bresci: il re era lì, lo vedevi. Oggi il potere è una S.p.A.".
E come la mettiamo con il rischio che il populista odierno sia scambiato per anarchico? "Il populista odierno crede di essere libertario ma non sa niente di quella parola, della sua radice autentica. Il vero 'innamorato della libertà' può essere quello che assalta Capitol Hill? O quello che crede che libertà sia farsi i cazzi propri? Se la parola libertario finisce in mani sbagliate è un bel guaio. Perché diventa una parola rubata e pervertita: come la parola 'sinistra', rapita e messa sul marciapiede a fare la battona".
Anche per questo si è messo a raccontare storie di sognatori sconfitti? "Anche di don Chisciotte si dice che è uno sconfitto. Era un perdente, un pazzo, un illuso. Ma se ti chiedo di farmi l'elenco dei suoi nemici, di quelli che hanno vinto, non te li ricordi. Allora chi è che ha vinto alla fine? Ha vinto con la sua immortalità".
È anche il senso del titolo del suo romanzo, L'eterna gioventù. Una sopravvivenza affidata al racconto.
"Se ho scelto di infilarmi in questo romanzo, che mi è costato molto anche in termini fisici, è perché mi è sembrato di avere un dovere. Viviamo in un'epoca di leggende cattive, di narrazioni infami. La destra, per essere molto franchi, ha le sue storie, le sue parole. E la sinistra? Sembra averle perse tutte. Se non esiste più, è perché non esistono più le sue storie. Come si costruisce una comunità etica, una comunità familiare? E un partito politico? Attraverso una narrazione comune, una leggenda. Che è un teatro del reale straordinario, una sorta di iper-storia. Salvini ha una storia da raccontare. Bene. Nessun altro ce l'ha? Io ce l'ho. Una storia nostra. Chi siamo noi? Noi siamo gli sconfitti, i redivivi. Noi siamo quelli che non sono morti, quelli che non è possibile uccidere perché rimangono nella voce di chi li racconta".
La fortuna dei podcast, perciò, non la stupisce? "No. Pensavamo di essere nel tempo dell'immagine ovunque e comunque, poi scopriamo che vendono molto le narrazioni fatte per le orecchie. Per un certo periodo della mia vita ho pensato anche di campare facendo il cantastorie in giro... Ma le gambe non hanno retto. Io sono un difettoso, ora ci vedo anche poco, non ho mai avuto il fisico per fare la lotta, tutt'al più da ragazzo avevo una macchina fotografica al collo. Sono convinto che anche nelle comunità primordiali la narrazione l'abbiano inventata i difettosi, quelli che erano monchi, fragili: sono riusciti a sopravvivere raccontando anche per gli altri, per quelli troppo occupati a correre".
Cantastorie in tutti i sensi: questo è un romanzo pieno di canzoni. "Eh, io sono un canterino! Non c'è rivoluzione senza canzoni, non c'è comunità senza canzoni, non c'è speranza senza canzoni".
Ecco, a proposito di speranza. Nelle pagine sugli anni Ottanta, mentre muore Berlinguer e Pertini piange, Craxi ghigna. Il finale, insomma, sembra incupirsi. "Già prima, con l'assassinio di Moro ho smesso di avere qualunque speranza per me, per il mio arco temporale. E ho sentito che finiva qualunque possibilità di conservare e rinvigorire quel momento straordinario della Repubblica che va dal '68 al '78, per l'appunto. Ora li chiamano 'anni di piombo', il piombo c'è stato, ma sono anche gli anni del contratto unico dei lavoratori, della sanità pubblica, del divorzio, dell'aborto, del diritto di famiglia. E poi? Gli anni Ottanta e Novanta ho fatto fatica a reggerli. Forse mi sono messo a scrivere romanzi per trovare il mio modo di rifiutarli".
Nonostante tutto, L'eterna gioventù non è un libro nostalgico. "La nostalgia mi sta sul cazzo. Per come sono fatto, ho nostalgia solo di quello che non ho visto. Tra i personaggi del libro, sono molto legato al giovane Menin, che porta con sé una promessa di futuro. È lui che eredita il tritolo conservato per cent'anni dalla Canarina...".
Cent'anni! A proposito, ma Garcia Márquez alla fine c'entra qualcosa? "Niente. Ma ho cominciato a scrivere che ero fresco di rilettura di Cent'anni di solitudine. E sai cosa mi ha sommerso? La generosità impareggiabile della narrazione. Il fatto che non ci fosse una formica, un angolo di strada, un mattone, un pezzo di stoffa che non avesse un aggettivo. Allora mi sono detto: non sai fare la stessa cosa, ma puoi mantenere il principio della generosità. E dire 'noi'".
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