Tratto da “La paternità non fa per me”, intervista di Marco Cicala a Pedro Almodovar pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 27 di agosto 2021: (…): "È un film (“Madres paralelas”, che ha aperto l’ultima edizione della “Mostra del Cinema” di Venezia n.d.r.) sull'identità (…). Sulla ricerca di una verità personale e di una verità storica. Sui nostri antenati e sui nostri discendenti. Al centro c'è il dilemma morale di una donna che vorrebbe ritrovare i resti del bisnonno fucilato dai franchisti durante la Guerra civile, ma allo stesso tempo si scontra con la verità di un segreto intimo molto ingombrante. (…)".
Sparse per la Spagna, restano sepolte le ossa di centomila persone. "Non abbiamo ancora una mappa precisa delle fosse comuni. Ma poche settimane fa è passata una legge di "Memoria democratica" in base alla quale sarà lo Stato a finanziare gli scavi per recuperare i resti dei desaparecidos e restituirli alle famiglie. Non che i governi precedenti lo avessero rimosso, però in un modo o in un altro avevano cercato di schivare il problema delle stragi franchiste. Quello della verità storica resta un debito aperto con la società spagnola. Un debito che bisognerà saldare quanto prima. (…)".
Perché questo eterno ritorno nel "Regno delle madri"? "Quando ero bambino, in un villaggio nella Mancha, la Spagna era un Paese patriarcale, e credo che in parte lo sia rimasto. In casa, il nonno o il padre avevano una sedia speciale, tutta per loro, una specie di trono. Il padre era il re, ma tutte le funzioni ministeriali venivano svolte dalla madre. La madre era la figura che manteneva i rapporti col mondo esterno, che risolveva i problemi. Negli anni del dopoguerra, le donne si occupavano della casa e andavano a lavorare nei campi. Quando era fuori, mia madre mi lasciava nel patìo delle vicine. I cortili interni erano un Sancta Sanctorum femminile. Erano il posto dove le donne lavavano, stendevano i panni, fabbricavano oggetti artigianali, cantavano, ma soprattutto parlavano di qualsiasi cosa. Penso che la voglia di raccontare, il gusto della realtà mischiata alla finzione, mi siano venuti da lì, dalle storie del vicinato. Storie di tradimenti, suicidi, incesti... Credo che i personaggi femminili dei miei film siano una trasposizione di quelle donne forti che da bambino ascoltavo nei cortili".
Pedro Almodóvar è ipocondriaco (…)? "Ipocondriaco no. Ma quando si tratta di salute obbedisco ciecamente alle consegne dei medici. All'epoca del confinamento sono uscito una volta sola. Per fare la spesa. Avrei potuto chiederlo alla ragazza che mi aiuta in casa. Ma era troppo forte la curiosità di vedere Madrid deserta nel silenzio. Ricordo la sensazione straniante che ho provato mentre mi vestivo per andare fuori. Erano passate solo settimane, ma mi sembrava che fosse trascorso un secolo dall'ultima volta che l'avevo fatto".
Come ha vissuto la solitudine del lockdown? "Quello è stato il meno. Vivo solo ormai da anni. Ci sono abituato".
Si è vaccinato? "Certo".
Che pensa dei no vax? "Che sono molto pericolosi. In gioco non c'è la tua salute personale, ma quella degli altri. Tra gli ultimi ricoverati moltissimi sono negazionisti. O lo erano. Spero che nel frattempo abbiano cambiato idea. Mi colpisce anche che questi movimenti siano spesso legati all'estrema destra".
Come se lo spiega? "Forse dipende dal fatto che l'ultradestra difende un'idea egoistica, totalmente snaturata e manipolata di libertà individuale. Quasi che il diritto di uscire fosse più importante della situazione negli ospedali o nelle scuole".
(…). Nel 2021 che tipo di famiglia ha in mente? "Una famiglia nella quale i ruoli di padre e madre si confondono. Fin dai miei primi film ho visto la famiglia come un'unità affettiva intorno a qualcuno di cui prendersi cura. Non importa che ci sia una coppia tradizionale, binaria, uomo-donna, padre-madre: l'essenziale è accogliere il nuovo nato e crescerlo circondato di affetto".
La famiglia è più importante della coppia. "In fondo credo di sì. Se non altro perché è più longeva. Specie la famiglia di tipo mediterraneo".
Quarant'anni fa lei si affermò con film estremi che oggi sarebbe impossibile proiettare in sala o mandare sulle piattaforme. In materia di costumi, sessualità, famiglia le società occidentali sono in mutazione, ma si scontrano con le censure di un neo-puritanesimo culturale. Come vive questa macro-contraddizione dei nostri tempi? "Cercando di non cadere nella peggiore delle censure, ossia l'autocensura. Oggi non c'è una censura ufficiale, legale, istituzionale, ma il mercato impone regole economico-ideologiche molto vincolanti. Perfino sui trailer o i manifesti dei film".
(…). Le piacerebbe dirigere una serie? "Me lo hanno proposto. Ma non mi sento adatto alla narrazione seriale. Tutt'al più potrei realizzare qualche episodio. In Spagna le serie tipo La casa di carta stanno svolgendo un ruolo molto positivo: danno lavoro a tanta gente che la crisi del cinema e dell'audiovisivo aveva buttato su una strada. Personalmente però resto molto guardingo circa i film su piattaforma".
Grandi registi come Scorsese non sono altrettanto schizzinosi... "È vero. Film costosissimi come The Irishman o come Annette di Leos Carax non sarebbero stati possibili senza le piattaforme. Ma io rimango convinto che, magari in modo subliminale, quando giri un film per una piattaforma hai sempre in testa la tv, il formato televisivo. Non penso ovviamente a qualcuno come Scorsese, ma alla Spagna, per esempio: qui, i film concepiti per il piccolo schermo non rendono un grande servizio al lato creativo del lavoro di un cineasta. Tanto le storie che i cast vengono decisi pensando al pubblico della tv, dei computer o dei telefonini".
Non trova che l'iper-offerta di immagini stia creando forme di dipendenza? Conosco gente che non prende sonno senza essersi prima sparata in casa un film e due, tre puntate di una serie... "Durante il confinamento il consumo di fiction ha bruciato ogni record storico. Questo dovrebbe farci riflettere su quanto il cinema, l'immaginazione, la cultura siano importanti contro la paura, la noia, la solitudine. Però ha ragione: ormai siamo arrivati a una fame di immagini quasi patologica. Anche Don Chisciotte non poteva vivere senza proiettarsi nella finzione dei romanzi di cavalleria. Però adesso il problema è diverso: è che la velocità del consumo riduce in tempi rapidissimi ogni prodotto a spazzatura, a rottame, a qualcosa di cui non resta traccia".
Fellini detestava l'aggettivo "felliniano", se ne sentiva banalizzato. Lei come reagisce all'attributo "almodovariano"? "Capisco Fellini. In un aggettivo si cattura soltanto la parte più scontata e meno personale di te. "Almodovariano" sta ormai per eccessivo, folle, assurdo... Eppure nei miei film io cerco sempre di immettere un massimo di verità in tutto quanto appare inverosimile. Quando qualcuno mi presenta una persona, una donna, dicendomi "è totalmente almodovariana", io la guardo e non sono quasi mai d'accordo". (…).
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