Tratto da “Perché
studiare anche le materie che non amiamo” di Umberto Galimberti, pubblicato
sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di settembre dell’anno
2015: Le intelligenze sono diverse, ma la scuola, non potendole seguirle
tutte, è bene che privilegi l'educazione logico-matematica. La prima lezione
per crescere è accettarlo. (…). esistono molte forme d'intelligenza. (…). C'è
infatti un'intelligenza linguistica abile nel tradurre un termine o una
costruzione da una lingua all'altra con una facilità che non è concessa a
tutti, così come non è dato a tutti saper disegnare o catturare la bellezza di
un'opera d'arte. C'è un'intelligenza musicale che percepisce come armonia
quella che per altri è dissonanza e che con l'udito sa catturare nei suoni un
senso che non si può dire ma solo u-dire. C'è un’intelligenza spaziale che
dischiude un mondo che sfugge alle coordinate geometriche, per offrirsi come un
campo di forze che sollecitano chi la possiede a certi movimenti e che, come
nel caso di campioni dello sport, lo congiungono senza troppi calcoli alla
meta. C'è un'intelligenza emotiva che è una forza dinamica che ci consente,
prima che intervenga una mediazione razionale, di muoverci nel mondo
individuando le condizioni più favorevoli rispetto a quelle sfavorevoli, e che,
come ci ricorda lo psicologo David Goleman, «ha guidato con saggezza l'umanità
nel lungo cammino dell'evoluzione». C'è un'intelligenza psicologica che sa
catturare intuitivamente quel che si agita negli abissi dell'anima e perciò,
meglio di altri, partecipare al patire e al gioire delle persone a cui si
rapporta. C'è un'intelligenza poetica che sa consegnare alle parole un
significato che va al di là del loro uso abituale, consentendoci di scoprire
sensi insospettati. La scuola, per poter seguire nella loro inclinazione tutti
questi tipi di intelligenza, dovrebbe avere classi che non superino i 12/15
studenti e professori competenti in scienze cognitive ed emotive, dal momento
che l'intelligenza si apre quando ci si prende cura dello stato emotivo degli
studenti in quell'età incerta, l'adolescenza, in cui gli stati emozionali e
sentimentali condizionano quelli razionali. Ma siccome questo non è possibile,
la scuola tende a sviluppare, e a mio parere non a torto, quell'intelligenza
logico-matematica che abitua la mente a cogliere le analogie e i rapporti tra
le cose. Del resto, come scrive il filosofo Alfred Whithead: «Il primo uomo che
colse l'analogia esistente tra un gruppo di sette pesci e un gruppo di sette
giorni compì un notevole passo avanti nella storia del pensiero». E la
tradizione racconta che Platone, a cui dobbiamo il nostro modo di pensare e di
parlare in Occidente, fece scrivere sul frontespizio dell'Accademia da lui
fondata: «Non si entra qui se non si è geometri». (…). …la
scuola non è un luogo che si regola sul principio del piacere, che si fonda
sulla soddisfazione immediata del desiderio che ha caratterizzato la nostra
vita infantile, ma sul principio di realtà che, tra il desiderio e la sua
soddisfazione, introduce il lavoro, che chiede un'applicazione anche là dove
non siamo sospinti dai nostri desideri o assecondati dalle nostre inclinazioni.
E, senza forse, è proprio in questo percorso il momento più educativo ed
emancipativo della scuola.
La scuola deve preparare alla vita e quindi, come la vita, non può e non deve essere regolata sul principio del piacere... "Fa ogni giorno qualcosa che non ti piace:questa è la regola d'oro per abituarti a fare il tuo dovere senza fatica".(Mark Twain). Grazie, è una preziosa fonte di riflessione anche questo post. Buona continuazione.
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