Ha scritto Michele Serra in “Parlare con chi non vuole parlare” pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di ieri 3 di settembre 2021: Bisogna parlare con i No Vax, scrive
Vittorio Lingiardi, psicologo, perché bisogna parlare con chi vive nel disagio
e nell'esclusione (…). È vero, è sacrosanto, ma è molto difficile. Perché
"parlare", se si parla per davvero, presume una disponibilità
all'ascolto già rara di suo, e da tempo in frantumi a causa dell'andamento
molto poco dialettico dei social, fondati sull'assertività e la velocità. Ogni
parola provax è imputata, a prescindere, di essere biforcuta, prezzolata.
L'ultima volta che ci ho provato, dicendo a una persona non vaccinata che morti
e ammalati gravi, in tutto il mondo, sono in grande maggioranza non vaccinati,
mi ha risposto, impenetrabile: "Sono tutte bugie. Big Pharma si è comperata
la scienza e il giornalismo al completo". Come proseguire la
conversazione, con uno che ti dice: tu menti a prescindere, e io non ti credo a
prescindere? Quale sarebbe, poi, la sede del dibattito? La politica ha smesso
di esserlo da tempo. La sua prolissa chiacchiera congressuale e
precongressuale, montagne di carta, ore di parole, ha lasciato il posto a spot
sincopati, buoni per un triste tigì o un tweet puerile (tweet è parola puerile
in sé), e le assemblee dove ci si scannava per ore, logomachie vinte o perse
per sfinimento, sono solo memoria dei vecchi, inservibile per chi ha meno di
sessant'anni. I giornali sono luoghi per pochi, e spesso così gregari dei
social da non sapere più da che parte cominciare, per organizzare una
discussione come si deve. I social sono l'arena perfetta per fare la conta
delle fazioni, chi sta in mezzo non ha ascolto, non ha spazio, non ha futuro. E
dunque? Provare, per la strada, a dire ad alta voce: "No Vax, ti voglio
parlare?". E se poi quello non vuole parlare con me? Provengo da
una “scuola” politico-ideologica che non esiste più. In quella “scuola” era d’ordine
che si parlasse, che ci si confrontasse sulle idee e sui principi, ma quel “parlare”,
quel “confrontarsi” aveva sempre un punto di arrivo. Accadeva quando il “segretario”
tirava le fila di quei ragionamenti, quel tirar le fila che immancabilmente
finiva così: “compagni, s’ha da fare”. Ed era un punto di non ritorno. Non accadeva
mai che quei focherelli si riaccendessero per divampare poi. Una “scuola” di
vita, quella, che non c’è più. Tratto da “Ma
il muro contro muro è la strada sbagliata per disarmare chi dice no” di
Vittorio Lingiardi, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di
settembre ultimo: (…). In molti si sono interrogati sulla “mente No Vax”. Difficile dire
qualcosa di nuovo, ma la richiesta di un ulteriore contributo mi fa pensare che
la “mente no-vax” sia un rompicapo che suscita interrogativi continui: com’è
possibile che qualcuno possa negare l’evidenza di un intervento medico che ha
salvato molte vite e drasticamente ridotto i contagi? A partire da alcune
dinamiche psicologiche — gestione della paura, individuazione di un nemico,
spostamento proiettivo delle fonti d’angoscia, sfiducia epistemica — provo a
immaginare percorsi cognitivi ed emotivi che possono condurre ad anteporre il
no alla parola vax. Nella mente No Vax una delle paure è che il vaccino non sia
protezione ma veleno, farmaco dai pericolosi effetti collaterali. A un gradino
successivo di esasperazione, la paura è che vaccinazioni obbligatorie o tutele
Green Pass siano strategie di controllo sociale. Questo spiega l’altrimenti
inspiegabile convergenza tra No Vax populisti e No Vax democratici. Alcune
volte mi è capitato di cogliere, in quelli più intellettuali, un compiacimento
per il proprio saper “dire di no”, un’idealizzazione antagonista tinta di
individualismo, idealismo e purezza, un’aristocrazia di minoranza, dunque di
eccellenza, con venature di esoterismo o anarco-irrazionalismo. Tutti questi - ismi
mi fanno pensare a un’organizzazione ideologica del viscerale. Non a caso la
neo bibbia No Vax si chiama Eresia e i cittadini diligenti e sensati che
porgono il braccio al vaccino o mostrano il Green Pass sono percepiti come
pecoroni. Da qui al formarsi di fazioni noi/voi, con le attribuzioni paranoidi
del caso, il passo è breve. Non è un’invenzione di oggi: il movimento anti
vaccinale nasce alla fine del 1800 e vignette dell’epoca rappresentano madri
col pargolo in braccio inseguite da scheletri o serpenti chiamati
“vaccination”. La pandemia ha aperto le finestre della nostra fragilità. La
vulnerabilità del corpo, o la fantasia della sua vulnerabilità, sono un trigger
per l’attivazione di meccanismi di difesa, più o meno adattivi, che molto
influiscono sul nostro modo di esprimere le emozioni, promuovendo, per esempio,
tolleranze depressive oppure reazioni aggressive. Alla paura si reagisce con la
negazione, la proiezione, la scissione, difese che interferiscono con la
capacità di tollerare stati di incertezza e impotenza e richiedono letture
categoriche e polarizzate della realtà. Si vengono così a creare strutture
cognitive che intaccano la “fiducia epistemica”, in questo caso la fiducia
nell’autorevolezza di voci qualificate del consenso, grazie a Dio variegato,
dell’informazione scientifica. Questi fenomeni sono purtroppo favoriti da certe
spettacolarizzazioni divisive care ai media. Da favorire sarebbe invece il
racconto di storie di “ripensamenti No Vax”, esperienze di vita che hanno portato
a cambiare atteggiamento mentale. Utile sarebbe anche un’informazione con dati
disaggregati, per esempio sul numero di decessi o complicazioni cliniche nei
soggetti vaccinati e in quelli non vaccinati. Contrapporsi è un modo di
incanalare la rabbia per le ingiustizie sociali o le difficoltà esistenziali
che così trovano un’illusoria sede di elaborazione o almeno di evacuazione. La
sfiducia nella possibilità di ricevere aiuto, considerazione e ascolto (peccato
non poter contare sulla figura di uno/a “psicologo/a di base”) diventa sfiducia
nelle istituzioni e nei saperi, considerati monopolio di pochi privilegiati
normalizzatori. Questo passaggio salda ribellione sociale e svalutazione della
scienza, generando una rivolta che può passare dagli ideali ai pugni. Un ruolo
è probabilmente giocato anche da aspetti caratteriali di particolare reattività
alle regole, bassa tolleranza alla frustrazione e in generale a ciò che viene
percepito come riduzione della propria libertà. Che fare? Mi viene continuamente
in mente una formula: promuovere il dialogo senza rinunciare alle regole. Ma la
scelta di far rispettare le regole scatena ulteriori proteste. A ognuno il suo
compito. Il mio è quello di studiare, ascoltare le ragioni degli altri,
dialogare per ricomporre le fratture tra le parti (del mondo interno anche
quando si affaccia all’esterno). Non invidio chi in questo momento ha il
compito di far rispettare le regole. Anche se ciascuno di noi, nel suo piccolo,
con l’esempio e nella vita di tutti i giorni, dovrebbe farlo.
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