Ha scritto Umberto Galimberti in “Una scuola senza”, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 13 di marzo dell’anno 2005: Io
ormai ho perso ogni speranza. E quando vedo un adolescente avvicinarsi alla
scuola superiore, tremo per lui. Tolto il rigore alle elementari e alle medie,
dove tutto è abbastanza facile e lo sviluppo psicosessuale ancora non genera
particolari sconvolgimenti, i ragazzi affrontano la scuola superiore, dove la
preparazione che si esige è, per difficoltà, del tutto sproporzionata alla
preparazione precedente. Per giunta in quell'età i ragazzi affrontano problemi
di identità e riconoscimento prima sconosciuti. E se il riconoscimento che
arriva loro dipende dalla prestazione scolastica, la quale, stante la precedente
preparazione, non può essere che scadente, scadente sarà l'immagine che essi
avranno di loro stessi, con due possibili vie d'uscita: la depressione o il
menefreghismo. La depressione innesca processi di autosvalutazione che, oltre a
ingessare l'intelligenza, indeboliscono la forza d'animo e la stima di sé.
Questa catastrofe, che avviene in età adolescenziale, rischia di determinare il
proprio stile esistenziale per tutta la vita. Il menefreghismo crea invece quei
furbi che, dopo aver girato per cinque o più anni tra scuole pubbliche e
private, arrivano all'Università dove, (…), tutto torna facile come alle
elementari e alle medie, quando non si è imparato abbastanza bene a leggere e a
scrivere. Restano dunque quei cinque anni terrificanti di scuola superiore per
i quali non c'è preparazione, e dopo i quali non c'è seguito. Un'isola infelice
dove si distruggono identità, si demotivano progettualità, si spengono sogni,
si soffocano sviluppi, si ignorano persone, processi psichici, orientamenti
sessuali, disorientamenti emotivi, nell'assoluta noncuranza dei professori che
non si sentono chiamati a seguire questi processi. Che fare? O rendiamo seria
la scuola dalla prima elementare alla laurea, o attenuiamo il rigore in
quell'isola infelice che è la scuola superiore, sconnessa dai percorsi di
istruzione e di educazione che la precedono e la seguono, dove i danni che si
compiono, nella più opaca inconsapevolezza, sono molto difficilmente
riparabili. A meno che, in quel tratto pericolosissimo di scuola, non si
assumano solo insegnanti capaci di prendersi cura, oltre che dei programmi,
anche delle persone. E quando dico "persone" intendo una ad una. Cosa
possibile se la classe è di dieci o quindici persone e non, come oggi, di
trenta o trentacinque, e se sulla cattedra ci sono anche lì persone e non solo
impiegati del Ministero della Pubblica Istruzione. Letto – su cortese
segnalazione di Stefania M. - “Perdere
la voce” di Alessandro D’Avenia pubblicato su il “Corriere della Sera” del 20
di settembre 2021: Te lo giuro che ti mando a scuola, pure se devo sudare, perché ti
voglio dare una possibilità nella vita. In questo villaggio qui, se vai a
scuola, nessuno ti costringe a sposarti. Ma, se non vai a scuola, ti sposano
con quello che ti capita appena hai quindici anni. L’istruzione è la tua voce,
bambina. Parla per te anche se non apri bocca». Questa è la promessa che una
bambina di un piccolo villaggio nigeriano si sente fare dalla madre che però,
di lì a poco, morirà. Adunni, così si chiama, cresce senza la protezione
materna, viene tolta da scuola dal padre che, per pagare i propri debiti, a 14
anni la dà in sposa a un uomo anziano e con altre due mogli. La ragazza diventa
schiava ma, avendo nel cuore la presenza e la promessa della madre, rimane
aggrappata al Sogno per cui lotta nel suo inglese incerto ma sufficiente, ben
reso dalla traduttrice: «Mi prometto che andavo a scuola, anche se non faccio
gnente d’altro nella vita. Per diventare maestra, perché non mi basta una voce
come le altre... Voglio una voce che la sentono forte». Mentre leggevo La ladra
di parole, storia bella quanto cruda della scrittrice nigeriana Abi Darè, mi
chiedevo: per i miei studenti la scuola è il luogo dove trovare la voce che
«parla anche se non apri bocca» o dove invece questa voce si (dis-)perde? La
scuola non è mera trasmissione di dati, altrimenti la DAD avrebbe realizzato la scuola ideale, ma ambiente in cui scoprire le parole per
dire e sentire se stessi e il mondo (noi pensiamo e sentiamo nei limiti
delle parole che usiamo) e non diventare schiavi di chi ci costringe a essere
quello che non siamo. Per Adunni studiare e diventare maestra è questione di
voce cioè di vita, invece da noi se vuoi diventare insegnante «sarai un morto
di fame anche se avrai tre mesi di ferie». Apatia, paura, abbandono scolastico
sono sintomi di un sistema a cui non chiediamo più di educare, cioè aiutare un
essere in formazione a trovare la propria voce, ma di dare «competenze» (a
proposito di parole che diventano recinti mentali) per essere «spendibili» sul
mercato (del lavoro). Soggetti di possibilità resi oggetti di aspettative: da
inediti a copie. Oggi purtroppo la scuola buca l’interesse pubblico solo per
ragioni sanitarie, ma nessuno parla della pandemia diffusa da anni: la
depressione infantile/adolescenziale. L’ambiente, che per vocazione dovrebbe
«curare», è spesso «malsano». Perché per il corpo vogliamo un servizio
impeccabile dal sistema sanitario, altrimenti è «malasanità», e per l’anima ci
accontentiamo invece della «malascuola»? Il problema è politico. La guerra in
Afghanistan è costata, solo agli USA, 2000 miliardi di dollari. Quale sarebbe
stato l’esito di 20 anni di conflitto se anche solo una parte del denaro fosse
servito per fare scuole e formare maestri? Questione di priorità: una cultura
che non educa ha perso le parole, cioè non ha più «voce» sul mondo, come una
relazione spenta. E così riempiamo la scuola di device (parola che in origine
significava progetto e ora solo oggetto), invece di buoni maestri (coloro che
hanno e danno progetti non oggetti). «Ultima generazione» indica oggi strumenti
tecnologici più che i nuovi nati. E così alla «presenza» abbiamo preferito
«prestanza» e «prestazione», che incoraggiano fenomeni re- e de-pressivi,
perché i giovanissimi interiorizzano una persistente «inadeguatezza» rispetto a
modelli (non a caso nome dei device) inarrivabili: «se non ce la fai sei
sbagliato». Quando metteremo al centro della scuola la relazione (classi con
meno alunni e cura dei singoli) che consente l’individuazione dei ragazzi,
daremo loro l’energia che permette di affrontare la fatica di crescere. In una
pagina commovente Adunni ringrazia coloro che l’hanno aiutata e, tra questi,
degli amici speciali: «Entro nella biblioteca. Grazie, dico a tutti i libri
sulle mensole, a tutti i miei amici libri, che mi hanno aiutato a trovare una
libertà nella prigione. Quando esco non chiudo la porta. La lascio aperta, che
lo spirito dei libri mi segue». Lo spirito dei libri, la voce dei maestri del
passato (chi li ha scritti) e del presente (chi li incarna), permette di
trovare la voce e resistere alle nuove schiavitù (se non sai chi sei ti fai
«possedere» da altro/i): paura di vivere (ansia, disturbi alimentari,
autolesionismo, suicidi), individualismo (solitudine, narcisismo, consumismo),
nichilismo (violenza e dipendenze). L’infante, dal latino colui che non parla,
trova la propria voce, cioè ha presa su sé e sul mondo, se impara a prendere la
parola: diventa «fante», colui che parla in proprio, non teme di dire «io» e
affronta la battaglia della vita. Ma ciò accade se qualcuno gli parla e lo
ascolta, altrimenti i ragazzi restano «infanti»: senza voce (e piangono,
urlano, ammutoliscono). La storia di Adunni mi ha ricordato perché sono un
maestro: per dar voce a chi una voce ancora non l’ha o non sa di averla.
"La ragione principale per andare a scuola è quella di imparare, per il resto della vita, che c'è un libro per tutto".(Robert Frost). "L'adolescenza è il momento segreto in cui tutto si decide". (Fabrizio Caramagna). "La scuola è il nostro passaporto per il futuro, poiché il domani appartiene a coloro che oggi si preparano ad affrontarlo".(Malcom X). "L'intelligenza cresce e porta frutti solo nella gioia. La gioia di imparare è indispensabile agli studi come la respirazione ai corridori". (Simone Weil). "La mia idea di scuola è quella di turbare le menti dei giovani e infiammare il loro intelletto".(Robert Maynard Hutchins). "Costa meno aiutare un giovane a costruirsi che aiutare un adulto a ripararsi".(Anonimo). "Una buona testa e un buon cuore sono una combinazione formidabile. Ma, quando ci aggiungi una lingua o una penna colta, allora hai davvero qualcosa di speciale".(Nelson Mandela). "Lo scopo dell'educazione è di aiutarti fin dall'infanzia a non imitare nessuno, ma ad essere te stesso in ogni momento".(Krishnamurti). "Il reciproco amore fra chi apprende e chi insegna è il primo e più importante gradino verso la conoscenza".(Erasmo da Rotterdam). "Un buon insegnante colpisce per l'eternità. Non può mai dire dove la sua influenza si ferma".(Henri Brooks Adams). Carissimo Aldo, come, sicuramente puoi immaginare, anche questo post eccezionale farà parte di quelli preziosi che conservo con cura... Grazie, buona giornata e buona continuazione.
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