A lato. "Barche in secca", acrilico su tavola (2019) di Anna Fiore.
Tratto da “L'ultimo valzer con mio papà” di Claudia de Lillo – in arte Elasti - pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 2 di settembre dell’anno 2017:
Ci sono le feste comandate che travolgono con il loro carico di
tradizioni, piaceri e doveri, ci sono i compleanni di cui occorre ricordarsi
(ma è diventato più semplice grazie a Facebook, che si insinua nelle pieghe del
nostro calendario) e poi ci sono gli anniversari. Ognuno celebra il suo: 23
anni dalla sera in cui ci siamo baciati, 3 dal giorno in cui sono andato in
pensione, 5 dalla firma del contratto di assunzione, 14 dal trasloco
nell'appartamento al sesto piano senza ascensore. Ma ci sono anche gli
anniversari tristi, quelli che tolgono il fiato, che si vorrebbero saltare a
piedi uniti, che ci scaraventano altrove in un tempo sospeso di incredulità e
smarrimento. Sono trascorsi cinque anni dalla morte di mio padre. Se n'è andato
troppo presto, nel mezzo di una giornata di sole, in una stanza di ospedale che
si affacciava sulla chioma sempreverde di una magnolia e su un cielo talmente
azzurro e brillante da bruciare gli occhi. Non ho bisogno di date per pensare a
lui. Da quando non è più qui la sua presenza si è fatta quotidiana e prepotente
nei miei gesti, nelle mie idee, nella forma delle mie mani, nello sguardo dei
miei figli, nelle parole che pronuncio, nelle scelte che compio, nelle domande
che mi faccio e nelle risposte che mi do. Qualche tempo fa, dentro un sogno,
ero in cucina e avevo appena buttato la pasta quando è comparso lui che, con
quell'umorismo sghembo e surreale che lo rendeva ai miei occhi irresistibile,
mi ha chiesto di ballare un valzer. Ci mettemmo a
volteggiare tra tavolo e fornelli, cantando Ciribiribin, finché gli spaghetti
non furono scotti e immangiabili. Per la prima volta mi svegliai ridendo
dopo una sua incursione nel mio sonno. Eppure ogni anno quando si avvicina quel
giorno di cui ricordo ogni dettaglio, il vuoto della sua assenza si fa voragine
e le mancanze con cui ho imparato a convivere tornano laceranti e
insopportabili. Così, ogni volta, per un istinto di autoconservazione che
riaffiora prepotente mi ritrovo a cercarlo affannosamente intorno e dentro di
me perché ho bisogno della conferma o dell'illusione che sia ancora qui. Quest'anno
ho fatto lo stesso: ho tastato e annusato la sua giacca nell'armadio perché i
sensi che meno transitano dalla ragione sono i più vividi ed evocativi. L'ho
rivisto seduto sul divano a righe, con il braccio allungato sullo schienale per
accogliermi, in un incastro di teste, spalle, tenerezza e complicità che mi ha
insegnato da piccola e che ci rappresentava. Mi sono messa in ascolto della sua
voce, del timbro della sua risata, dell'intonazione sghemba delle canzoni che
inventava per noi. L'ho improvvisamente sentito in una conversazione
telefonica: «Ehi! Tutto bene, Ciccetti?». Così chiara e nitida da sembrare
vera, su un filo di rame invece che immaginario. Talmente reale da esigere un
seguito, una risposta, un'interazione. Cosa dicevo io, allora, quando squillava
il telefono e all'altro capo c'era lui? Quali parole usavo? Con quali nomi lo
chiamavo? Con quale voce gli raccontavo di me? È calato un gran silenzio. Per
la prima volta l'assente ero io. In questi cinque anni ho pervicacemente
alimentato la sua memoria. Perché era lui che non potevo perdere. In cinque
anni si dimenticano molte cose. Io ho dimenticato il nome che avevo per lui in
quelle nostre conversazioni, i fatti che gli raccontavo, le scemenze con cui lo
facevo ridere, la tenerezza con cui mi congedavo da lui. Mi sono impegnata a
conservare lui ma non la nostra interazione, non la forma del nostro rapporto,
non la fotografia di me stessa acciambellata nell'incavo del suo braccio su un
divano a righe. Forse non è troppo tardi per salvare me e noi dalle fauci voraci
del dimenticatoio. Eppure ancora non trovo la voce di Ciccetti, di qua da quel
filo.
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