Tratto da "L’esercizio
della speranza" di Enzo Bianchi – già priore della Comunità monastica
di Bose – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di settembre dell’anno
2020: In Occidente, ma non solo, si percepisce da decenni il segno dominante
della “crisi”. Da più parti questo nostro tempo è addirittura letto come tempo
della “fine”: fine della civiltà occidentale (Jacques Derrida), fine della
modernità (Gianni Vattimo), fine non solo della cristianità ma anche del
cristianesimo, che sembra perdere la capacità propulsiva innestata dal
tentativo di riforma ecclesiale del concilio e del post-concilio. Dominano la
precarietà del presente e l’incertezza del futuro, e soprattutto per le nuove
generazioni vi è un’incognita che desta diverse paure per la sua
imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano: viviamo in
un mondo in fuga, che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di
comprendere dove stiamo andando. Per questo nel suo saggio Le nuove paure Marc
Augé giunge a denunciare che oggi si teme più il vivere che il morire. In
particolare, i nostri ragazzi si lasciano vincere da qualcosa che non sanno
neppure nominare e guardare in volto, eppure sperimentano come distruttivo: il
nichilismo, che spesso impedisce ogni ricerca di senso e di felicità. Per
queste ragioni credo che oggi più che mai occorrerebbe riascoltare la domanda:
“Che cosa posso sperare?”. E anche: “Che cosa possiamo sperare insieme?”. È una
domanda a volte muta, che con fatica ho sentito e sento risuonare in molti
incontri e dialoghi con i giovani. È la domanda più profonda, che essi non
sanno neppure facilmente articolare. La speranza, infatti, non è un
atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma è il frutto di un
discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sul riflettere,
sull’ascoltare, sul confrontarsi, ed è anche un esercizio di grande
responsabilità. L’umano non è un dato una volta per tutte, bensì è un divenire
che abbisogna di un orientamento, di una progettualità, di uno scopo per cui
operare, in modo da trovare un senso. Ha ragione Fëdor Dostoevskij quando
afferma che «vivere senza speranza è impossibile», perché le persone alle quali
è sottratta la speranza divengono aggressive, violente, apatiche, fino a cadere
in una sorta di angoscia autodistruttiva. Vi è però un’errata comprensione
della speranza dalla quale guardarsi: quella di chi tende costantemente oltre
il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità, costringendosi così a
un’esistenza vissuta al futuro anteriore. No, non si vive aspettando di vivere,
preparandosi sempre, e invano, a una felicità che non arriva mai… Sperare è
un’arte, è l’essere pronti a ciò che ancora non è nato, è un atto di fede e un’adesione
convinta a una promessa: è una lotta contro la disperazione, ed è per questo
che è capace di sperare in profondità solo chi ha conosciuto la tentazione di
disperare. La speranza, infine, è il frutto di relazioni
vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro! E non lo si
dimentichi: si può solo “sperare per tutti”, mai solo per sé stessi. Ha
scritto Michele Serra in “Una vita
sabbatica”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di dicembre dell’anno
2020: Sono tra le centinaia di milioni (miliardi?) di esseri umani che ieri,
intorno alle 13 ora italiana, è rimasto per un'oretta, forse neanche, con le
mail bloccate in ingresso e in uscita. Tra le quali, per la cronaca, la
newsletter della mia banca era la più interessante. Ho reagito abbastanza
nevrastenicamente, cliccando su qualunque tasto a disposizione, compresi quelli
dello smartphone, dell'Ipad di mia moglie, del forno a microonde, sembrandomi
inaudito, impossibile, spaventoso che la mia diretta con il mondo fosse
momentaneamente interrotta. Quando, nei secoli passati, appariva sullo schermo
dell'unico televisore, con un unico canale, la scritta: "le trasmissioni
sono momentaneamente interrotte", nessuno si agitava. Eravamo dei
sempliciotti, che in una scatola elettrica si vedessero delle figure umane ci
sembrava straordinario, e dunque ci sembrava ordinario non vedere niente e non
sentire niente. Ora però (parlo di me stesso, nessuno si offenda) siamo
diventati dei pazzi furiosi, dei ridicoli megalomani, degli scemi vanagloriosi
convinti che tutto ci sia dovuto, che l'universo intero sia programmato per i
nostri comodi, che ogni intoppo e ogni impiccio sia un sacrilegio contro la
sola figura sacra ancora in corso d'opera: Io. Non so come ne usciremo, se
bastano alcuni minuti (alcuni minuti!) di silenzio e di distanza per farci
credere che la fine del mondo sia alle porte. Fino a pochi anni fa credevo
molto nell'utilità di un anno sabbatico. Ora penso che non basterebbe, a
salvarci, nemmeno una vita sabbatica.
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