"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 28 settembre 2021

Paginedaleggere. 51 «La speranza è il frutto di relazioni vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro!».

 

Tratto da "L’esercizio della speranza" di Enzo Bianchi – già priore della Comunità monastica di Bose – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di settembre dell’anno 2020: In Occidente, ma non solo, si percepisce da decenni il segno dominante della “crisi”. Da più parti questo nostro tempo è addirittura letto come tempo della “fine”: fine della civiltà occidentale (Jacques Derrida), fine della modernità (Gianni Vattimo), fine non solo della cristianità ma anche del cristianesimo, che sembra perdere la capacità propulsiva innestata dal tentativo di riforma ecclesiale del concilio e del post-concilio. Dominano la precarietà del presente e l’incertezza del futuro, e soprattutto per le nuove generazioni vi è un’incognita che desta diverse paure per la sua imprevedibilità e per gli orizzonti asfittici che la caratterizzano: viviamo in un mondo in fuga, che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di comprendere dove stiamo andando. Per questo nel suo saggio Le nuove paure Marc Augé giunge a denunciare che oggi si teme più il vivere che il morire. In particolare, i nostri ragazzi si lasciano vincere da qualcosa che non sanno neppure nominare e guardare in volto, eppure sperimentano come distruttivo: il nichilismo, che spesso impedisce ogni ricerca di senso e di felicità. Per queste ragioni credo che oggi più che mai occorrerebbe riascoltare la domanda: “Che cosa posso sperare?”. E anche: “Che cosa possiamo sperare insieme?”. È una domanda a volte muta, che con fatica ho sentito e sento risuonare in molti incontri e dialoghi con i giovani. È la domanda più profonda, che essi non sanno neppure facilmente articolare. La speranza, infatti, non è un atteggiamento da assumere o rifiutare tout court, ma è il frutto di un discernimento, di un’attesa fondata sul pensare, sul riflettere, sull’ascoltare, sul confrontarsi, ed è anche un esercizio di grande responsabilità. L’umano non è un dato una volta per tutte, bensì è un divenire che abbisogna di un orientamento, di una progettualità, di uno scopo per cui operare, in modo da trovare un senso. Ha ragione Fëdor Dostoevskij quando afferma che «vivere senza speranza è impossibile», perché le persone alle quali è sottratta la speranza divengono aggressive, violente, apatiche, fino a cadere in una sorta di angoscia autodistruttiva. Vi è però un’errata comprensione della speranza dalla quale guardarsi: quella di chi tende costantemente oltre il presente, senza coglierlo nella sua irripetibilità, costringendosi così a un’esistenza vissuta al futuro anteriore. No, non si vive aspettando di vivere, preparandosi sempre, e invano, a una felicità che non arriva mai… Sperare è un’arte, è l’essere pronti a ciò che ancora non è nato, è un atto di fede e un’adesione convinta a una promessa: è una lotta contro la disperazione, ed è per questo che è capace di sperare in profondità solo chi ha conosciuto la tentazione di disperare. La speranza, infine, è il frutto di relazioni vive, si nutre dell’essere insieme: mai senza l’altro! E non lo si dimentichi: si può solo “sperare per tutti”, mai solo per sé stessi. Ha scritto Michele Serra in “Una vita sabbatica”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di dicembre dell’anno 2020: Sono tra le centinaia di milioni (miliardi?) di esseri umani che ieri, intorno alle 13 ora italiana, è rimasto per un'oretta, forse neanche, con le mail bloccate in ingresso e in uscita. Tra le quali, per la cronaca, la newsletter della mia banca era la più interessante. Ho reagito abbastanza nevrastenicamente, cliccando su qualunque tasto a disposizione, compresi quelli dello smartphone, dell'Ipad di mia moglie, del forno a microonde, sembrandomi inaudito, impossibile, spaventoso che la mia diretta con il mondo fosse momentaneamente interrotta. Quando, nei secoli passati, appariva sullo schermo dell'unico televisore, con un unico canale, la scritta: "le trasmissioni sono momentaneamente interrotte", nessuno si agitava. Eravamo dei sempliciotti, che in una scatola elettrica si vedessero delle figure umane ci sembrava straordinario, e dunque ci sembrava ordinario non vedere niente e non sentire niente. Ora però (parlo di me stesso, nessuno si offenda) siamo diventati dei pazzi furiosi, dei ridicoli megalomani, degli scemi vanagloriosi convinti che tutto ci sia dovuto, che l'universo intero sia programmato per i nostri comodi, che ogni intoppo e ogni impiccio sia un sacrilegio contro la sola figura sacra ancora in corso d'opera: Io. Non so come ne usciremo, se bastano alcuni minuti (alcuni minuti!) di silenzio e di distanza per farci credere che la fine del mondo sia alle porte. Fino a pochi anni fa credevo molto nell'utilità di un anno sabbatico. Ora penso che non basterebbe, a salvarci, nemmeno una vita sabbatica.

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