Una “storia” nerissima – “Solo donne nel mirino” – raccontata da Carlo Lucarelli e pubblicata
sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 24 di settembre 2021: A
Marc è sempre andato tutto male. Sempre. Tutto. Voleva iscriversi all’Ècole
Polytechnique di Montreal, la sua città, ma non l’hanno preso. Voleva entrare
nell’esercito canadese, magari nelle forze speciali, come suo zio, ma non
l’hanno preso neanche lì. Lavorava come cameriere nella caffetteria
dell’ospedale, ma proprio non ci sapeva fare con i clienti, così dopo un po’
l’hanno tolto dal servizio ai tavoli e l’hanno infilato in cucina, e stare lì a
lui non piace. Marc è arrabbiato, si lascia andare sempre più spesso a discorsi
pieni di astio e la gente lo evita, così si ritrova sempre solo. Ha venticinque
anni e non ha nessuno, una fidanzata, un amico. Prima stava con la madre, che
anche lei si faceva molto gli affari suoi, poi con la sorella, poi lascia anche
lei e va a vivere da solo. O meglio: isolato. Niente, non gli va bene niente,
non gli è mai andato bene niente. Potrebbe pensarci su, prendere coscienza dei
suoi problemi, superare i suoi limiti e crescere. Magari fare i conti con la
figura di suo padre, un uomo durissimo, che ha sempre considerato la moglie e i
figli come oggetti da possedere e comandare con la forza e che ha sicuramente
segnato la sua infanzia. Ma non ce n’è bisogno, perché Marc lo sa di chi è la
colpa di tutte quelle cose che gli vanno male, il lavoro, lo studio, le
relazioni, tutto. Lo sa con certezza assoluta e non ha bisogno di nient’altro. Le
ragazze. O meglio, le femministe. Insomma, le donne. Così, un giorno di
dicembre del 1989, Marc Lépine va in un negozio della Checkmate Sports e si
compra un fucile semiautomatico Ruger, di quelli col calcio di metallo e il caricatore
a mezzaluna. Sa usarlo bene, come gli ha insegnato lo zio delle forze speciali.
Si è anche comprato un sacco di proiettili. In tasca ha una lettera delirante,
scritta troppo in fretta, dice, in cui ce l’ha con la vita, col governo e con
le femministe. E coi giornali, che di certo lo definiranno “il killer pazzo”. Armato
così, il 6 dicembre, va all’École Polytechnique e si infila nella prima aula
che trova, la 230. Fa uscire professori e alunni maschi, mette le studentesse
contro il muro e comincia a sparare. Ne ammazza nove, poi esce e gira per
l’Università, sparando a tutte le donne che incontra. C’è un bellissimo film di
Denis Villeneuve che lo racconta, Polytechnique, così nitido e agghiacciante
nella sua banale ferocia, che fa paura. Prima di fermarsi e spararsi un colpo
in testa con il suo Ruger semiautomatico, Marc uccide quattordici persone e ne
ferisce altrettante. Alcune delle sue vittime torna indietro a finirle con un
coltello da caccia. Sono tutte donne. Su quel che avviene nel bel paese
tra maschi assassini e donne vittime inermi. Ne ha scritto in “Perché uccidono le donne” Michele
Serra sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 24 di settembre 2021: Credo
(…), sia pure da incompetente, che l’aspetto psichiatrico della violenza sulle
donne sia macroscopico. (…). Ma c’è anche, alla base di questo mare di
violenza, una gigantesca questione politica e culturale. L’ossessione omicida
del maschio abbandonato non è, purtroppo, una tara individuale. È una specie di
tara sociale: perché l’idea che la femmina appartenga al maschio è largamente
condivisa, in forma esplicita e spesso perfino “legale”, in molte parti del
mondo, specie del mondo islamico; ma ancora abita nel profondo anche Paesi che
consideriamo emancipati, come il nostro. La libertà delle donne semina panico
negli ambienti meno sospettabili. Non è solo la tribù del deserto, è anche il
nostro patriarcato ampiamente riformato, apparentemente disarmato, che ancora
coltiva l’idea che “tu sei mia” significhi ciò che letteralmente dice; e che,
di conseguenza, “io sono mia” sia il più pericoloso sconquasso che possa
immaginarsi. Di qui il terrore dal quale origina, io credo, grande parte della
violenza dei maschi sulle femmine: è il terrore che una donna possa vivere in
quanto se stessa, non in quanto “mia”. Il rifiuto dell’abbandono è anche il
rifiuto (politico) di accettare la libertà di chi se ne va per la sua strada,
spesso dopo mesi o anni di sopraffazione e umiliazione. Non possiamo mandare in
psicoterapia tre o quattro millenni di patriarcato (anche se gli farebbe bene,
al patriarcato…). Possiamo, però, cercare di fare politica e di fare cultura
con ostinazione, con quell’energia capillare che solo la politica riesce ad
avere, quando è politica per davvero. “Io sono mia” vale, quanto a potenza ed
eloquenza del messaggio, quanto “proletari di tutti i Paesi unitevi”, e forse
qualcosa di più, perché il patriarcato precede, e di molto, il capitalismo. E
dunque, (…): psicoterapia più politica più (quando serve) dura repressione.
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