Il 4 di giugno dell’anno 2008 quello che è stato il
glorioso quotidiano fondato da Antonio Gramsci pubblicava in testata la
consueta, sua giornaliera “striscia rossa” riportando, di
Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, una dichiarazione rilasciata al
quotidiano «La Stampa» del 3 di giugno: «Il nostro futuro è una società sempre più
pluralista perché gli immigrati sono tra noi e la strada dell’integrazione è
faticosa ma è l’unica pienamente umana. La legalità è sacrosanta ma i diritti
vanno rispettati: dobbiamo avere la capacità di vedere negli altri non degli
avversari ma delle persone uguali a noi, con gli stessi diritti». Sempre
quel benemerito quotidiano – benemerito che è stato in verità - pubblicava anche
un pezzo a firma di Maria Novella Oppo - “Italiani
a intermittenza” - nella allora esistente rubrica “Fronte del video”: Per
un giorno le tv si sono occupate di fame nel mondo. Cioè di morte, malattie,
disastri ambientali e petrolio. Insomma, tutto quello che causa stragi e
immigrazione, clandestina o regolare è la stessa cosa. Ma da noi c’è gente che
non ne vuole sentir parlare e preferirebbe che i poveri avessero il buon gusto
di morire di fame a casa loro, senza neanche farsi notare. Ma siccome i poveri
si sono messi in testa di avere il diritto di vivere, ecco che leghisti e
razzisti di tutti i generi si inalberano. Tanto che, nella stessa giornata
della Fao, c’è chi ha protestato contro il Comune di Venezia e contro la
costruzione di residenze stabili per i Sinti. Il sindaco Cacciari ha spiegato
che si tratta di cittadini italiani a tutti gli effetti, ma ai leghisti questo
non interessa affatto. Del resto, loro sono italiani a intermittenza: quando c’è
da prendere cadreghini ministeriali e prebende, sono italiani; ma quando c’è da
pagare le tasse, diventano improvvisamente padani, cioè cittadini di un paese
inesistente che pretende di dettare legge all’Italia.
Si era nel mese
di giugno dell’anno 2008. Giorni addietro, in un momento di grande convivialità,
raccontavo agli amici di una interessante corrispondenza letta su di un
quotidiano – o su di un settimanale, ora mi sfugge – di un inviato d’oltralpe
nel bel paese. Non ho saputo riferire dell’inviato e delle sue generalità. Ma
penso che la cosa sia irrilevante a fronte delle cose scritte. Scriveva per
l’appunto quell’inviato, a proposito degli “italiani a intermittenza”, della
grandissima sua “meraviglia” per alcune forme di solidarietà espresse dal
popolo italiano. Ed a fronte di tale Sua affermazione, resa per gli attenti
lettori del Suo paese, scriveva come per le strade del bel paese sia diffusa,
tra gli automobilisti, una straordinaria forma di solidarietà: il
lampeggiamento prolungato dei fari delle automobili. A scanso di ogni equivoco sull’inconsueta
abitudine, l’inviato non tardava a darne una straordinaria e puntuale
spiegazione: il lampeggiamento dei fari delle auto circolanti per le sconnesse
strade del bel paese obbediva ad un istinto primordiale di salvezza, ovvero di
una forma di “cinica” solidarietà, ovvero ancora della necessità di sfuggire ai
rigori della legge appena infranta. Infatti il nostro spiegava, con abbondanza
di fatti e circostanze, come il comune cittadino del bel paese, di qualsivoglia
estrazione sociale e di qualsivoglia ispirazione politico o ideale, si profonda
ed esterni con quel suo lampeggiamento il suo spirito di solidarietà nei
confronti dei suoi “simili” in automobile alla vista di una qualsivoglia
pattuglia delle forze dell’ordine preposta, sulla strada, al controllo della
circolazione automobilistica ed alla repressione delle infrazioni riscontrate.
Un fatto questo, del lampeggiamento dei fari, ampiamente diffuso e vissuto peraltro
da chiunque percorra qualsiasi strada del bel paese. Non certo una calunnia venuta
d’oltralpe, quindi. Ma nello stesso “pezzo” dell’inviato si stigmatizzava anche
un diverso comportamento “solidaristico” del popolo del bel paese. L’attento
inviato riprendeva un triste fatto di cronaca di un morto abbandonato su di un
marciapiedi sul quale i cittadini studiavano di scansarne l’ingombro fisico con
un lieve saltello. Proprio così: scavalcando l’incauto, venuto a crepare su di
un marciapiedi di una città del bel paese. Un fatto di cronaca dei tempi
oscuri. Avranno di certo potuto dedurne, i lettori d’oltralpe, come nel cattolicissimo bel paese la
solidarietà scatti repentina e ad “intermittenza” nel fare quadrato soprattutto
contro la legge e l’autorità costituita. Nessuna o pochissima, compassionevole e
fuggevole solidarietà, al contrario, per un morto venuto ad “occupare”
incautamente un marciapiedi o, peggio ancora, una spiaggia balneare, soprattutto se il morto
abbia raggiunto la spiaggia balneare da paesi lontani, da mondi estranei. È la
Storia che non fa che ripetersi inutilmente e stancamente. Passato inascoltato ed
inosservato quell’insegnamento di Tettamanzi passerà pur anche inascoltato ed
inosservato l’insegnamento di Francesco vescovo di Roma. E perché? Poiché un
“perché” dovrà pur esserci. Ne ha scritto Massimo Recalcati in “Lo straniero interiore che preme alle
frontiere”, “pezzo” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 23 di
giugno dell’anno 2015: La difesa del confine o il suo allargamento
ha armato da sempre la mano degli uomini. (…). È il delirio di tutti i grandi
dittatori. Innumerevoli volte, nel corso della storia, il confine è diventato
una questione di vita e di morte. Eppure l’esistenza del confine è necessaria
alla vita. Alla vita di una città o di una nazione, ma anche alla vita
individuale. Abbiamo bisogno di confini per esistere. È un problema di
identità. Si può esistere senza avere un senso di identità? Senza radici e
senza sentimento di appartenenza? La psicoanalisi insegna che la vita psichica
necessita di avere i propri confini. Questa necessità non è in sé patologica,
né delirante, ma concerne un polo fondamentale del processo di umanizzazione
della vita. Ecco perché la famiglia (al di là di ogni sua versione tradizionale
— naturalistica) resta una istituzione culturale essenziale alla vita umana. In
essa si esprime il bisogno di radici, di casa, di discendenza, di appartenenza,
di riconoscimento che definisce la vita in quanto vita umana. Non bisogna
sottovalutare l’incidenza di questa forte dimensione simbolica dell’identità.
Nei momenti di crisi tendiamo ad accentuare il polo dell’appartenenza per
ritrovare in esso un rifugio contro l’angoscia e lo smarrimento. (…). Per
scongiurare questo rischio, come la psicologia delle masse insegna, si può
invocare un rafforzamento del confine, una sua impermeabilizzazione estrema. Il
“protezionismo” economico diventa in questo caso sintomatico: si tratta di
proteggere l’identità di una città o di una nazione minacciata nella sua
integrità e nella sua storia; si tratta di difendere il prodotto “interno”
dall’invasione di quello che viene dall’”esterno”; si tratta di ristabilire i
confini, di preservare la propria identità dal rischio della sua alterazione
provocata dalla concorrenza invasiva dell’Altro. (…). E tuttavia esiste un
altro polo – altrettanto essenziale allo sviluppo della vita psichica come a
quello di una città o di una nazione – che è quello dell’apertura, della
necessità di oltrepassare il confine. Se, infatti, la vita non sa scavalcare il
regime ristretto della propria identità, se non sa muoversi dal proprio bisogno
di appartenenza verso una contaminazione con l’alterità dell’Altro, fatalmente
stagna, appassisce, non può che ripetere sterilmente se stessa. In questo senso
la famiglia è tanto essenziale alla vita quanto lo è il suo declino. (…). La
vita, come insegna del resto anche Spinoza, può conservarsi solo espandendosi,
oltrepassando il confine che gli è stato necessario alla sua istituzione.
Quando la vita di un gruppo, di una città , di una nazione, di un soggetto si
ammala? Cosa davvero fa declinare la vita, cosa la rende patologica? La
psicoanalisi propone una risposta sconcertante: la vita che si ammala è quella
che resta troppo attaccata a se stessa, che resta vittima della tendenza
omeostatica alla propria conservazione, è la vita che ingessa, cementifica,
rafforza unilateralmente il proprio confine narcisistico. Se il confine serve a
rendere la vita propria, questo confine, per non diventare soffocante, deve,
come si esprimeva Bion, divenire “poroso”, permeabile, luogo di transito. Se
invece il confine assume la forma della barriera, della dogana inflessibile, se
diviene presidio, luogo impossibile da valicare atrofizza e non espande la
vita. Venendo meno l’ossigeno indispensabile dell’alterità, la vita si ammala e
declina. La necessità del confine va quindi unita con la necessità del
movimento e del transito al di là del confine. In questo senso la difesa della
purezza identitaria è sempre animata da un fantasma fobico che non lascia
spazio allo straniero. Ma a quale straniero? Il nero, l’ebreo,
l’extracomunitario? Un altro insegnamento prezioso viene dalla psicoanalisi: lo
straniero prima di venire da fuori, abita in noi stessi. Ciascuno di noi porta
con sé il proprio “nemico”; ciascuno di noi è Caino, ciascuno di noi è
straniero a se stesso. (…). Avevano ragione Deleuze e Guattari ad ammonirci:
attenzione al «fascista che siamo noi stessi, che nutriamo e coltiviamo, a cui ci
affezioniamo»; attenzione alla spinta cieca alla conservazione di noi stessi
che si nasconde nel proclamare una democrazia finalmente realizzata che anziché
rendere porosi i suoi confini li sa solo armare.
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