Dialogo avvenuto – o solamente immaginato - in un qualsivoglia
luogo ove si ritrovino specialissimi “Tic”, ovvero tipi italiani
contemporanei:
Venditore di “ciaoni”. – O bella, s’è vinto -. (Altisonante
risata).
Passeggere. - Buon signore, me ne compiaccio del
suo buon umore. Ma per quale squadra tiene? -.
V. – O bella questa, ma non si ha mica a che fare
con una partita di calcio! -.
P. – Ed allora, cosa ha vinto per renderla così
euforico? -.
V. – Cosa ho vinto? Ho vinto al referendum -.
P. – Bene, buon uomo, me ne compiaccio ancor di più.
È stato di quelli del “Si”? -.
V. – Fossi matto! -.
P. – Arguisco, buon uomo, che sia stato tra quelli
del “No” -.
V. – E che, son grullo? -.
P. – Ed allora mi aiuti a capire come abbia fatto a
vincere -.
V. – Ma semplicissimo, caro lei. È bastato che non
andassi a votare. Ha capito ora? –
P. – Mi pare di non aver capito. Buon uomo, lei non
è stato tra quelli del “si” né tanto meno tra quelli del no, vero? –
V. – Verissimo. Ed allora? -.
P. – Buon uomo, ma la contesa non era tra quelli
del “Si” e quelli del “No”? -.
V. – Embé? -.
P. – Come sarebbe a dire embé. Lei nella contesa
non ci è entrato per nulla, anzi si è dato alla fuga da ogni scelta e da ogni
responsabilità -.
V. – Ma è giusto quello che volevo che accadesse,
caro lei -.
P. – Ma se lei è stato solo un fuggiasco consapevole
non faccia propria alcuna vittoria; mi pare bene che sia così -.
V. – E no che non va bene! -.
P. – E perché, buon uomo? -.
V. – Ma caro lei, non ha sentito la televisione? -.
P. – Certo che l’ho sentita, tanto che mi son fatto
dovere d’andare al seggio -.
V. – Bella questa, e lei da che parte è stato? -.
P. – Buon uomo, perché ora le interessa tanto
saperlo da quale parte io sia stato? -.
V. – Giusto per saperlo -.
P. – Giusto per saperlo, dice lei, ma non glielo
rivelerò. Ma da qualsivoglia parte io sia stato al seggio ho sentito il dovere
di confrontarmi con una parte che la pensasse diversamente da me -.
V. – E cosa gliene è venuto? -.
P. – Buon uomo, ma cosa mi aspettavo che me ne
venisse. Nulla. Ho solo pensato che andando al seggio ed esprimendo la mia
opinioni rendessi un servigio al mio Paese -.
V. – Ma allora lei non ha sentito la televisione? Ha
detto che hanno vinto i lavoratori -.
P. – E come avrebbero vinto i lavoratori? Me lo
spieghi -.
V. – Ma come, non afferra il senso? -.
P. – No, non lo afferro, per nulla. A meno che non
voglia farmi credere che i lavoratori di questo Paese siano tutti dei
fuggiaschi, come lo è stato lei -.
V. – Intanto la televisione ha detto che hanno
vinto. E tanto basta -.
P. – Ma come sia possibile ciò mi risulta difficile
da capire -.
V. – E perché poi tanta difficoltà a capire? –.
P. – Intanto, quelli del “Si” non hanno vinto, anzi
se ne dolgono assai; quelli del “No”, quelli che coraggiosamente si sono
misurati con quelli del “Si”, hanno ugualmente perso. A vincere ci è rimasto lei
e quelli che come lei si sono dati alla fuga. Le sembra ragionevole tutto ciò?
-.
V. – Embè? –
P. – Buon uomo, è inutile che noi si continui con
questo dialogo. È tra sordi. Anzi tra chi vuol vedere le cose come realmente
stanno e tra chi non vuol vedere come stanno le cose. Lei al seggio non c’è
stato, poiché forse avrà frainteso le cose dette dalla televisione; ma dal
sentirsi vincitore di non so cosa ce ne passa, caro lei! -.
V. – Ed allora, dei lavoratori che hanno vinto cosa
mi dice? -.
P. – Spero proprio che i lavoratori di questo paese
non siano tutti divenuti dei ributtanti e vigliacchi fuggiaschi. Sarebbe la
nostra rovina. Ma giusto per essere dalla sua parte, convengo che anch’io l’ho
sentito dire alla televisione -.
V. – Ed allora? -.
P. – Buon uomo, le dico che se fossimo stati in
altri tempi, forse più magri ma più onesti e puliti, i lavoratori di questo
Paese si sarebbero adontati per essere stati iscritti tutti quanti nel registro
dei fuggiaschi -.
V. – Sa cosa le dico? Che a me sta bene così come è
andata? -.
P. – Buon uomo, avrei voluto dirle della
democrazia, ma me ne guardo bene -.
V. – E bene ha fatto -.
P. – Bene perché? Lei ha avuto il potere immenso ed
unilaterale d’annullare d’un colpo le ragioni di tutti quelli del “Si” e di tutti
quelli del “No”, fuggendo, come ha fatto, dal confronto che la democrazia le
richiedeva -.
V. – Democrazia! A me sta bene così. Un “ciaone”
a lei ed a tutti quelli del “Si” ed a tutti quelli del “No” -.
P. – Se ne stia bene, buon uomo -.
Ha scritto Francesco
Merlo sul quotidiano la Repubblica del 19 di aprile 2016 - “La politica del ciaone” -: Dice “ciaone” il vincitore renziano che non
sa vincere, risponde “irresponsabile cialtrone” lo sconfitto antirenziano che
non sa perdere. (…). …di questo referendum sulle trivelle e del dibattito sulla
legittimità costituzionale del non voto, della dialettica tra il diritto
all’ambiente e il diritto al lavoro, e della legittima contesa sulla natura, il
costo e la durata delle concessioni, rimane solo la guerra del ciaone nel Pd.
E’ vero infatti che quella della sinistra italiana è una lunga e ricca storia
di divisioni feroci con sconfitte trasformate in vittorie, dispetti, duelli,
lacrime e passioni. Ma la deriva del ‘ciaone’ è una novità che né Marx né Weber
avevano previsto, è il grado zero della scrittura politica profetizzato da
Barthes, un imprevedbile lessico tutto romano e dunque di Palazzo. Ed è
ovviamente orecchiato perché – mi spiegano i filologi – ‘ciaone’ è dialetto
bimbominkia, che non esiste né al Sud né al Nord, nonostante l’assonanza con il
piemontese “ciao neh”. Insomma è italiano de Roma più che romanesco. Avesse
usato il romanesco storico popolare e non fighettaro da T-shrt, il cosentino
Carbone avrebbe detto “ciao core” a Gotor, a Emiliano e a tutti gli altri. Il
significato ovviamente è lo stesso. Ciaone è il vaffa aggravato dal sentimento,
l’impossibile addio a qualcuno che ti sta a cuore, ai compagni appunto, che
hanno litigato per la scala mobile, per il nome della Cosa e per la scelta tra
la lotta ed il governo, ma non si erano mai guastati così stizzosamente, così
inutilmente. Antiche solidarietà si ruppero per l’Ungheria, per la Nato,per la
guerra umanitaria, per i genocidi etnici. E ancora oggi non si sa se contro
Berlusconi avessero ragione i resistenti girotondini di Moretti o la
realpolitik dei baffi di D’Alema. E si sono scontrati per la falce e il
martello, per la Quercia, per il palazzo di Botteghe Oscure sostituito con un
loft, per il destino dei giornali di partito … Sempre quelle epiche battaglie
si concludevano con qualche scissione, perché i legami in politica si sciolgono
anche se, come diceva Nenni , “ogni volta è un grande dolore la separazione fra
compagni che hanno sulle spalle un comune bagaglio di sacrifici e di lotte”. Ma
sempre separarsi è il modo più civile di liberarsi. Ciaone, invece, è
l’incapacità di lasciarsi, di “dire addio al cortile / e andarsene sognando”
come cantava Luigi Tenco. Non inganni dunque il rafforzativo. Tutti questi
litigiosissimi ciaone non valgono un ciao. Somigliano agli spintoni e agli
sputacchi.
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