Da “Ascesa e
caduta, la parola lavoro non va più in paradiso” di Stefano Massini, dal
volume “Lavoro” – Il Mulino editore, pagg. 131 € 12,00 – riportato sul
quotidiano la Repubblica del 29 di aprile 2016: (…). Percepita come sinonimo ora
di «sforzo inutile», ora di «ingiustizia sociale», ora di «mal digerita sottomissione»,
ora di «confronto impari con la tecnica», la parola «lavoro» porta su di sé
tutti i graffi di un’epoca confusa. Idolatrato dai nostri nonni e castamente
amato dai nostri padri, oggi il lavoro ha finito da tempo di essere un luogo di
aspettative o di conferme, caricandosi di tutte le possibili inquietudini di
una suprema incognita. Lontana anni luce l’oasi di un mestiere sicuro, e
svanito l’approdo assolato del posto fisso, l’occupazione è diventata essa
stessa un miraggio, indipendentemente dal suo essere organica a un progetto di
vita. E se la percentuale di adolescenti che indicano un “mestiere dei sogni”
va rapidamente crollando, ancora più illuminante è la quantità di loro che
aspirano a carriere da calciatori o da veline, entrambi concepiti come emblema
di arricchimento facile e di immediata riconoscibilità pubblica. E siamo giunti
con questo al paradosso che in una Repubblica costituzionalmente «fondata sul
lavoro », assistiamo a una contrapposizione fra il lavoro stesso e i diritti
del lavoratore, in molti casi considerati ormai accessori: si preferisce semmai
lavorare senza sicurezza e senza prevenzione pur di non restare a casa. La
regressione civile che questo ingenera è quanto mai evidente, cosicché il
lavoro non solo non redime più l’uomo, ma di fatto lo getta in una spietata
plaza de toros, in cui si festeggia chi sopravvive. L’ultimo caso che io
ricordi è quello di una cava vicino Palermo, dove un dipendente appena
licenziato ha ucciso il proprietario e il capocantiere, spiegando il gesto con
un laconico «Mi hanno tolto il lavoro», frase che suonerebbe paradossale se non
ci chiedessimo subito «Quale lavoro gli hanno tolto?». E la risposta,
evidentemente, è che non si tratta di difendere un lavoro, ma uno stipendio. La
novità è che in tempi di crisi si è disposti a uccidere per non perderlo. Ecco
allora che il risultato è clamoroso: il lavoro, pietra miliare di ogni società
organizzata, diviene per noi il motore scatenante di una riemersa paura
ancestrale, il terrore di essere sopraffatti dai nostri simili. Leggendo i
media è infatti evidente come oggi il lavoro crei spesso divisioni frontali:
giovani contro anziani, autoctoni contro immigrati, precari contro
stabilizzati. La ricerca di un lavoro è divenuta competizione per la
sopravvivenza, con le implicazioni drammatiche che ciò comporta. Ed è
inquietante – ma paradigmatica – la situazione dell’Ilva di Taranto, difesa a
oltranza da folle di lavoratori, all’insegna del motto «Uccide, certo, ma ci dà
da vivere». Figlia di un momento storico rimasto senza bussola, la parola
“lavoro” rimbalza sulle nostre bocche come farebbe lo sporadico frammento di un
ricordo dentro una generale amnesia. Sentiamo che aveva un senso, che rappresentava
molto di più di ciò che noi oggi le attribuiamo. Forse percepiamo perfino un
vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo
l’eco di un discorso andato. Forse un giorno, richiudendo l’ombrello dopo la
lunga pioggia, ne riannoderemo fra le pozzanghere il senso.
Da “Continuano
a chiamarla flessibilità” di Richard Sennett, sul quotidiano la Repubblica
del 21 di aprile 2016: (…). I cambiamenti a cui stiamo assistendo
nella moderna economia del lavoro sono una paralisi per la classe media,
soprattutto la classe medio bassa, un vero ristagno. L’esperienza della
flessibilità del lavoro a breve termine nelle imprese camaleontiche influisce
sulla struttura delle classi sociali. Le persone “nel mezzo” hanno meno
opportunità di trarre profitto dalla diversificazione delle tipologie di
lavoro. L’offerta di lavoro infatti si è ridotta per loro. Allo stesso tempo le
condizioni di lavoro sono diventate più intensamente legate a un regime di
flessibilità. Non ho mai pensato che un posto di lavoro flessibile potesse
rappresentare una possibilità di ascesa sociale e non ho mai guardato alla
linea sottile e indefinita che passa tra lo spazio di lavoro e quello domestico
come a una realtà che potesse creare una nuova dimensione per l’autoimpiego. Quella
che è maturata è una flessibilità simile a una condizione di repressione, un
modo per dominare e ridimensionare il lavoratore attraverso la flessibilità.
Ritengo, soprattutto dopo la crisi finanziaria, che sia ancora più il caso di
intenderla come una repressione dei lavoratori, più che un tentativo di creare
nuove opportunità per loro. Quando sento qualcuno dire: «noi vogliamo dare la
possibilità alle persone di lavorare da casa», so che questa espressione non
risponde a verità. Tutto il novero di opportunità che si verificano sul posto
di lavoro, come fare incontri, scoperte casuali, discussioni varie, sono negate
alle persone che lavorano da casa: da casa non puoi creare nessuna rete
informale. E questo aspetto, ovvero la diminuzione e dominazione del processo
lavorativo in nome di una maggiore flessibilità, ha solo peggiorato la
situazione. Alcuni sostengono che, nel momento in cui il mondo del lavoro
diventa sempre più precario e insicuro trovare una sorta di cittadinanza
sociale al di fuori del contesto lavorativo sia ciò di cui la gente ha bisogno.
Io non ci credo. Il modo in cui la gente imposta la propria esistenza è
profondamente legato al rispetto di se stessi e al senso della propria utilità.
Tutto questo non può essere sostituito da una dimensione non produttiva. In
questo senso, ritengo che Marx avesse ragione quando diceva che l’homo faber,
l’operaio, è il fondamento di un senso di autostima. Il lavoro, come la
produttività, sono fondamentali nella costruzione del rispetto di sé e della
struttura familiare. Non credo si possa avere una cittadinanza sociale che si
basi sul lavoro part- time, o sull’assenza di lavoro, come fonti alternative da
cui trarre soddisfazione. Questo vale sia per le donne sia per gli uomini. La
questione, per noi oggi, è come tornare ad avere il controllo del “posto di
lavoro”. La mia opinione è che bisogna prevenire la possibilità che i
lavoratori pratichino la flessibilità. Non significa inibire la forza lavoro,
ma, ad esempio, evitare che qualcuno che abbia lavorato nello stesso ufficio o
nella stessa azienda per otto o dieci anni non si veda riconosciuto il diritto
a continuare a lavorare (anche solo per il fatto di aver investito parte della
sua vita in quel lavoro). Questo accade perché quello che si configura è un
sistema di flessibilità che non fa ricadere alcuna responsabilità sui datori di
lavoro. (…). Credo che ciò di cui abbiamo davvero bisogno sia fare i conti con
i modi in cui questa figura disfunzionale – il capitalismo flessibile – possa
essere fronteggiato dallo Stato. (…). È vero che la robotica sta sostituendo
certi tipi di lavoro. Il lavoro che più sta subendo questo processo è quello
dei lavori di manutenzione di basso livello. È stata una sorpresa per noi
apprendere che in realtà l’ambito di applicazione delle macchine digitali nel
lavoro manuale è praticamente arrivato ai suoi limiti estremi e che molte delle
cose che la gente fa manualmente, più o meno lavori di manutenzione come
l’idraulico, l’elettricista, e così via, sono già meccanizzati al massimo delle
possibilità. Esattamente come per il lavoro industriale, sia per il lavoro
qualificato sia per quello non qualificato si è arrivati a una sorta di limite.
Le macchine stanno colonizzando la piccola borghesia. Posti di lavoro come
quello degli addetti agli sportelli di banca, quello di chi raccoglie gli
ordini per gli acquisti, o i centralinisti, tutti lavori burocratici di basso
livello, stanno soccombendo sotto il potere della robotica digitale. Questa
tecnologia particolarmente efficace sta scalzando il concetto di forza lavoro
della società dei colletti bianchi. Ciò si interseca con il fatto che le classi
stagnanti in questa fase del capitalismo, siano proprio quelle dei lavoratori
delle classi medio-basse. Posto che non dobbiamo considerare le macchine, tutta
la tecnologia digitale, come uno spauracchio, dobbiamo sapere che gli effetti
di questa trasformazione si stanno concentrando sulla classe che, in questo
momento, risulta estremamente vulnerabile e che è stata largamente
marginalizzata dal neoliberalismo, proprio in nome della ragione di mercato.
Tutto questo, direi, rispecchia il bisogno che lo Stato assuma un ruolo
maggiore nel supporto alle classi medio basse, garantendo il lavoro, anche se
quel lavoro non produce profitto o potrebbe essere anche svolto da una
macchina. Dobbiamo tornare a credere che lo Stato possa entrare effettivamente
in opposizione al neoliberalismo, anziché esserne definitivamente schiavo.
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