Da “Quando
tutto era perso la Resistenza ci ha dato la nostra religione civile"
di Teo De Luigi sul quotidiano la Repubblica del 23 di aprile dell’anno 2015,
intervista, riproposta, dell’anno 2005 a Giorgio Bocca:
(…). Quando si parla di Resistenza, non si
parla solo di grandi città, ma soprattutto di paesi, di villaggi. Com'era Cuneo
allora? "Cuneo ha una sua caratteristica particolare, vale a dire che
nella sua storia e nella sua tradizione c'erano già state resistenze e guerre
partigiane, ad esempio quella delle "sette sedi". Cuneo faceva parte
dei comuni dei Savoia che dovevano resistere alle invasioni straniere, quindi
c'erano già, nella memoria e nel sangue dei cuneesi, dei cittadini, i ricordi
del passato. Per questo, se nelle altre città ci fu una gestazione molto
complicata, a Cuneo mi colpì la spontaneità della reazione popolare. L'8
settembre a Cuneo c'era già una rete di partigiani pronta intorno alla città. È
curioso che invece, in regioni dominate dai comunisti da sempre come l'Emilia,
fu tutto più lento, in pratica
cominciarono nel '44".
Duccio Galimberti per lei è stato un
riferimento importante, come lo ricorda? "Galimberti per me è stato una
sorpresa. Perché, durante la vita "normale", prima della caduta del
fascismo, Galimberti per noi a Cuneo era un 'pistin'. Un classico snob
elegantone, uno che andava in giro con i calzettoni bianchi da sci. Era vestito
sempre di nero e girava quasi sempre da solo, perché evidentemente non era
molto frequentabile, essendo un riferimento dichiarato dell'antifascismo,
perciò lo vedevo sempre camminare sotto i portici da solo. Poi,
improvvisamente, scopro che quest'uomo, ricco, privilegiato, figlio di un
ministro e con una madre letterata, è un uomo molto alla mano, oltre che un
uomo di grande coraggio".
Lei allora era un ragazzo, aveva 23 anni,
mentre Galimberti ne aveva 37. Era già un leader riconosciuto, oltre che una
persona adulta? "Io lo vedevo sicuramente come un leader, perché era uno
dei pochi antifascisti "ufficiali", non si nascondeva; mentre molti
erano antifascisti ma non lo manifestavano, lui, al contrario, si
dichiarava".
Tornando all'8 settembre, il gruppo di
Galimberti era già pronto per andare in montagna. Ma i giovani, soprattutto
quelli non strettamente politicizzati, che motivazione avevano per aggregarsi? "La
motivazione principale era di salvarsi dall'occupazione tedesca, che sarebbe
arrivata presto e che veniva a catturarci. A Torino già si sapeva che avevano
arrestato e disarmato tanti militari. Poi, la voglia di uscire dal fascismo e
di ascoltare queste persone di Giustizia e Libertà, che erano persone degne,
insegnanti, magistrati, avvosciarlo come Livio Bianco, Giorgio Agosti, Duccio
Galimberti, noti come persone colte e antifascisti consapevoli. Quello che sono
stati per noi i partigiani di GL, sono stati per i comunisti i combattenti di
Spagna, quelli che avevano fatto la guerra di Spagna e sapevano cosa accade in
una guerra civile".
In quel periodo, avevate l'impressione
ricorrente di essere troppo esposti, avevate paura? "Eravamo soprattutto
incoscienti. I ricordi che ho della vita partigiana sono per lo più di stupore
per quello che rischiavamo tutti i giorni. Ma era un segno della gioventù, che
ti incoraggia a essere fiducioso in tutto. Per esempio, una volta eravamo a
Caraglio, in un filatoio, dove sapevamo che la IV Armata sciogliendosi aveva
lasciato delle armi, e abbiamo fatto un carico, poi siamo ripartiti
attraversando la città. Improvvisamente abbiamo incrociato un camion di
tedeschi che ci ha illuminati completamente. Noi con un camion non in buo- ne
condizioni e vestiti da contadini valligiani abbiamo continuato ad andare come
se tornassimo dal lavoro e per fortuna anche loro hanno tirato diritto... Però
tutto questo era pura follia!".
Qual è stato per lei il momento più
drammatico? "Quando il generale Alexander (nel '44) ha fatto un discorso
ai partigiani dicendo: - Bravi, avete fatto un buon lavoro, ma adesso tornate
alle vostre case, perché il lavoro sarà ancora lungo. Quando avremo bisogno di
voi vi chiameremo -. Ci consideravano inutili, ma quella volta tutti uniti
abbiamo puntato i piedi e nessuno è tornato a casa".
Ed episodi personali terribili le sono
capitati? "Quando uno è in guerra sa che possono succedere cose difficili
e terribili, per esempio le fucilazioni, ma noi possiamo dire che l'unica cosa
che non abbiamo mai accettato è la tortura, anche se non tutti erano d'accordo
".
Dato che siamo su questo argomento, le
chiedo della responsabilità che si è dovuto assumere nei confronti del tedesco
vostro prigioniero. Com'è andata? "Avevamo un prigioniero, un ufficiale
delle SS, terrificante perché durante la prigionia stava sempre a torso nudo,
si faceva il bagno nel ghiaccio, era un uomo fortissimo. È stato con noi circa
tre mesi, era diventato il nostro cuoco. Per questo conosceva tutti i luoghi
delle nostre bande. A un certo momento, arriva la notizia di un rastrellamento
imminente e noi ci chiediamo: "Di questo cosa ne facciamo, non possiamo lacati,
libero". Sarebbe stato come un'autodenuncia per tutte le bande:
"Bisogna fucilarlo". L'ho detto ai miei compagni e abbiamo tirato su
a sorte con la pagliuzza, ma tutti si sono rifiutati. Allora ho dovuto farlo
io, ero il capo banda. E ancora adesso mi chiedo se ho fatto bene o se ho fatto
male. In quel tempo ero certo di aver fatto la cosa giusta, perché la guerra
era guerra spietata e chi è il capo deve assumersi le responsabilità più gravi.
Ho preso questa decisione a ragion veduta, non senza riflettere".
A proposito del rapporto fra i capi e i
partigiani semplici, si dice che nelle bande GL ci fosse un atteggiamento di un
certo distacco. È vero? "Si è vero, però c'era anche un'assoluta parità
nelle questioni militari e di sostentamento, si mangiavano le stesse cose, e
bisogna tener conto che i comandanti si assumevano più rischi e avevano più
impegni".
E le staffette? Le donne preziose per i
collegamenti, se le ricorda? "Certo! Soprattutto una, che era anche
l'amante di Galimberti e quando arrivava tutti in silenzio perché sapevano
benissimo chi era. Comunque ce n'erano tante altre e preziose e la cosa curiosa
era che il loro nascondiglio preferito era il seno, sperando di essere
rispettate anche dalle SS. C'erano delle donne coraggiosissime. Per esempio la
signora Sacerdote, che aveva un figlio in banda; ricordo che ogni volta che ci
spostavamo di base, pochi giorni dopo la vedevamo spuntare nella nebbia, veniva
a trovare il figlio. Faceva il viaggio in bicicletta da Torino a Dronero, poi
in montagna a piedi, e arrivava sempre".
(…).
Si è parlato molto della morte di Mussolini
e della Petacci, uccisi ed esposti in quel modo a Piazzale Loreto. Lei cosa ne
pensa?
"Non solo io ma tutti noi ci auguravamo
che, una volta preso, lo fucilassero subito, perché era un testimone della
vergogna sua e dell'Italia. Se non l'avessero ucciso e lo avessero processato,
chissà che discredito avrebbe gettato sul paese. Non solo è stata una scelta
giusta, è stata una scelta necessaria. Io trovo che tutti i discorsi che si
fanno sulla fucilazione di Mussolini sono assolutamente ridicoli, perché la
verità è stabilita. Io ho parlato con tutti i comandanti che hanno deciso la
fucilazione, come Longo, Solari, e non ci fu alcun dubbio. Ricevettero la
notizia che era stato arrestato, presero il primo che era lì, Audisio, e gli
dissero "vai su e ammazzalo". Non c'è stata nessuna esitazione
".
(…).
Quale lezione si può trarre oggi da quei
venti mesi? Quale lezione etica, politica, umana, si può ricordare a distanza
di tanti anni? "Io ho la religione della guerra partigiana. Per come l'ho
vissuta, è stata un'esperienza fantastica e formidabile, quasi incredibile per
un paese come il nostro pieno di 'tira a campare' e di ladri. Poi è stata
un'esperienza dove il paese ha rivelato il meglio di se stesso, quindi io ne ho
un ricordo entusiasmante. È stata la prova che gli italiani nel peggio danno il
meglio. Quando tutto è perso, quando si rischia di essere denunciati e fucilati
in ogni momento, ecco che scatta la solidarietà e trovi della gente che ti
aiuta".
Buon 25 Aprile.
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