Da “Noi e loro così vicini” di Adriano Sofri, sul quotidiano la
Repubblica del 13 di febbraio dell’anno 2011: (…). Abbiamo assistito, in un
rapido volgere di anni, dapprima increduli e sbigottiti, poi rassegnati e
assuefatti, a una mutazione umana orrenda come quella degli assassini-suicidi
che chiamiamo kamikaze. Uomini (e donne) che sacrificano con entusiasmo vite
altrui, di innocenti tramutati in nemici o in ostaggi, per guadagnare il premio
del paradiso: altra storia da quella antica degli umani disposti a sacrificare
la propria vita per una causa sentita superiore. Contro umani votati alla morte
può poco la premessa di ogni educazione e prevenzione e repressione, che è
l´amore e comunque l´attaccamento alla vita. Il suicidio di Mohamed B. e dei
suoi emuli, come già quelli di Jan Palach o dei bonzi di Saigon, è spoglio di
compiacimenti estatici, e rifiuta di fare della propria morte un´arma estrema
per colpire fisicamente un nemico, come quel personaggio di Dostoevskij che
presta con disprezzo il proprio suicidio solitario ai militanti del terrore,
per i quali è una moneta da spendere. (…). Amaro e insopportabile com´è, il
suicidio inerme è una protesta di dignità e contraddice la vita spregiata dai
"kamikaze". Che attraversi oggi in particolare il mediterraneo
islamico e vi si mostri imprevedibilmente efficace fa pensare, ma è un fenomeno
più vasto. Ha riguardato, nei nostri anni, a migliaia, i contadini indiani
indebitati. Ha scosso l´anno scorso il cuore della produzione cinese, nella più
colossale e avanzata linea di montaggio del mondo, dove 13 suicidi ravvicinati
di operai hanno costretto a concedere aumenti fino al raddoppio dei salari
(derisori) e a escogitare misure grottesche, come l´impegno a non suicidarsi
sottoscritto per contratto!
(…). Nell´agosto 2010, il tredicesimo suicida della
Foxconn, un diplomato diciannovenne, assunto da 42 giorni, lasciò una lettera
in cui descriveva l´abisso fra le aspettative di chi comincia un´attività di
lavoro e la realtà. In gennaio, il primo, un altro diciannovenne, Ma Xiangqian,
si era buttato giù dal tetto del dormitorio: lavorava sette notti a settimana,
undici ore filate, a montare componenti elettronici, prima di essere spostato a
pulire i cessi. Nemmeno in Europa i lavoratori che si suicidano sono una
notizia rara, purtroppo. In Francia hanno fatto scalpore i suicidi di
dipendenti, in gran parte manager, della Telecom: 24 in 19 mesi. In Italia,
dove non è raro che le cronache registrino (o ignorino) il suicidio di
lavoratori disperati che hanno perduto il posto di lavoro, si è fatta
allarmante la sequela di suicidi di piccoli imprenditori messi
nell´impossibilità di tirare avanti, con le proprie aziende, le famiglie
proprie e dei propri stretti collaboratori. Il suicidio non può essere ritenuto
una risorsa della non violenza –caso mai una conseguenza non cercata. Ma sta di
fatto che sulla sponda sud del Mediterraneo, luogo proverbiale di violenza o di
apatia, sono avvenute due, finora, rivoluzioni popolari e non violente. (Lo fu
anche quella iraniana, ma niente è detto una volta per tutte). Quelli sono
paesi di giovani e non per giovani. Il nostro non è per giovani né di giovani,
benché rinsanguato dai nuovi arrivi. (...).
Da “I
kamikaze e il senso della (loro) morte” di Massimo Fini, su “il Fatto
Quotidiano” del 31 di marzo 2016: (…). Io credo che soprattutto nei foreign
fighters più che una voglia di uccidere, ci sia una voglia di morire. Perché è
“un morire per qualcosa”. Per un’idea, per un ideale, per sbagliati che siano,
piuttosto che vivere nel nulla e per il nulla. Ha spiegato molto bene questo
concetto in un articolo su Settedell’11 marzo Lorenzo Cremonesi, forse il
migliore inviato che abbiamo oggi sul campo: “Il carisma dei jihadisti sta
anche nella loro morte. Un elemento che affascina anche i volontari che
arrivano dalle città occidentali. I loro principi sono nichilisti e folli,
eppure vanno capiti, non per giustificarli, ma per comprendere il tipo di
pericolo che ci minaccia. Legittimare la morte, glorificarla, darle un senso
ultimo inserendola in un’ideologia, aiuta ad affrontare la vita ”. Cremonesi
dice, sia pur con un po’ più di circospezione, ciò che ho detto io (…). Come ho
affermato in altre occasioni, e in modi diversi, la forza d e l l’Isis non sta
tanto nell’indubbio coraggio dei suoi guerriglieri che soprattutto in Medio Oriente
si battono con grande valenti a contro la superiorità tecnologica delle due
grandi super potenze mondiali, Stati Uniti e Russia, dell’Inghilterra, della
Francia e della quarantina di altri Stati che fan parte della coalizione anti
Daesh (e quando sono tutti contro uno io comincio ad avere il sospetto che non
sia solo quest’uno il reprobo), ma sta nel vuoto di valori dell’Occidente. Noi
non abbiamo più valori, né collettivi (per esempio la Patria, la religione) né
individuali (dignità, coraggio, onore) che ci consentano di affrontare la
morte. Abbiamo delegittimato la morte, non solo quella eccezionale, in guerra,
ma anche quella normale, biologica e quindi inevitabile. L’abbiamo scomunicata,
interdetta, proibita, dichiarata pornografica, oscena. La morte è il Grande
Vizio dell’era tecnologica, quello che davvero “non osa dire il suo nome”,
altro che la pederastia di vittoriana memoria. Tanto che non azzardiamo
nominarla nemmeno nei luoghi, nelle sedi, nelle occasioni in cui non ci si può
esimere dal parlarne, basta leggere i necrologi dei quotidiani: “La scomparsa”,
“la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”,“ci ha lasciato ”, “è mancato
all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è tornato alla pace del
Signore”, “è terminata la giornata terrena”, la parola morte a indicare ciò che
realmente è successo, non c’è mai. La morte non sta nella società del
Benessere. E quindi è ancora più difficile inserirla in un altro fenomeno che
abbiamo da tempo scomunicato: la guerra. Da qui le ipocrisie degli ‘interventi
di peacekeeping’, ‘missioni di pace’, ‘operazioni di polizia internazionale’. La
morte che accettiamo è solo quella degli altri, non la nostra. Nel 2009 Barack
Obama, da poco eletto presidente, dichiarò a proposito dell’Afghanistan: “Sogno
una guerra combattuta solo con i robot, per risparmiare la vita dei nostri
soldati”. Adesso, con i droni, ci siamo arrivati. Ma il combattente che non
combatte perde ogni legittimità. Perché la particolare legittimità di uccidere,
assolutamente esclusa in tempo di pace, in guerra è resa possibile
dall’altrettale possibilità di essere uccisi. Se uno solo può colpire e l’altro
solo subire usciamo dai confini della guerra per entrare nel territorio dell’assassinio
(ecco perché il kamikaze che uccide immolandosi “ha una sua nobiltà”, mentre il
pilota che stando al sicuro, a diecimila chilometri di distanza, sgancia i suoi
missili mortali, la perde). È quanto abbiamo fatto per una quindicina d’anni,
dall’Afghanistan in poi. Poiché la guerra non ci toccava, e continuavamo a
vivere tranquillamente nelle nostre città, la guerra non esisteva. E così
adesso, che è entrata anche nei nostri territori, non siamo più pronti ad
affrontarla.
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