Da “C’è un
filo rosso che va da Craxi a B. e arriva fino a Renzi”, intervista di
Silvia Truzzi al professor Stefano Rodotà, su “il fatto Quotidiano” del 21 di
aprile 2016:
(…). - Il linguaggio in politica è
fondamentale. Nel messaggio di Renzi (per il referendum abrogativo del
17 di aprile n.d.r.) c’era, tra parentesi, un nome: Bettino Craxi. Ma non solo -.
Cosa intende? - Io retrodaterei agli anni 80
l’insofferenza della politica verso la magistratura. Ricordo quando – nel
giugno 1981, primo governo Spadolini – era appena stato arrestato Roberto
Calvi. Nella discussione alla Camera ben tre segretari di partito – Craxi,
Piccoli e Longo, cioè socialisti, democristiani e socialdemocratici –
attaccarono la magistratura di Milano perché con quell’arresto avevano
‘depresso i titoli in Borsa’. Intervenni dicendo che si pretendeva che i
listini di Borsa prevalessero sul codice penale. Sono le prime avvisaglie di
ciò che benissimo ha ricordato Piercamillo Davigo nella sua intervista al
Fatto: l’azzeramento della responsabilità politica -.
“Aspettiamo la sentenza della Cassazione”,
uno slogan che abbiamo sentito spesso. - Era, ed è, un modo formalmente
ineccepibile – come ha ricordato martedì il premier – ma è anche un escamotage
per non occuparsi dei fatti. In quegli anni si costruisce la formula matematica
della somma tra immunità e impunità. Una rete di protezione invocata da alcuni
partiti e che poi ha infettato l’intero ceto politico. L’articolo 54 della
Costituzione distingue chiaramente tra il rispetto della legge cui tutti i
cittadini sono tenuti e quel secondo comma che impone a coloro che esercitano
funzioni pubbliche ‘disciplina e onore’. Cioè non basta il rispetto della
legge, c’è un valore aggiunto. Quindi, quando Renzi dice di richiamarsi alla
Costituzione riguardo alla presunzione d’innocenza, dimentica che la stravolge
rispetto alla responsabilità politica. Tornando alla storia, questo azzeramento
è un filo rosso passato per il craxismo e poi sfociato nel berlusconismo più
becero: non c’è bisogno di ricordare certe frasi sui magistrati
antropologicamente diversi e mentalmente disturbati. E che oggi si affaccia nel
discorso di Renzi: c’è una continuità -.
Ma è una continuità con l’altra parte
politica, contro cui il popolo del Pd ha riempito piazze per lustri. - Mi pare
– e spero – che non tutto il Pd abbia perduto questa memoria -.
L’azione penale tendenzialmente è
obbligatoria. - Non tendenzialmente, certamente! Ricordo che quando ero presidente
del gruppo della sinistra indipendente una delle regole era che non si
presentavano interpellanze anche quando c’erano fatti giudiziari molto gravi.
Il Parlamento non può interferire nell’attività giudiziaria, perché si
delegittimano coloro che esercitano obbligatoriamente l’azione penale.
Figuriamoci se lo fa il governo -.
Perché Renzi ha deciso di fare un discorso
così forte in quella sede (al Senato, nel corso della mozione di sfiducia
n.d.r.)? Sembra quasi che si aspetti altre bufere. - È un’ipotesi. Ma
atteniamoci alle frasi in cui lui riprende quel discorso della rete di
protezione della politica. Il premier chiede ai giudici di parlare con le
sentenze, implicitamente dicendo che la critica alla magistratura si fa sulla
base delle sentenze, non generalizzando. È lui, però, a fare due
generalizzazioni molto gravi: ci sono magistrati bravi, ma poi c’è la barbarie.
Il magistrato parla con le sentenze, mentre lui può parlare dei magistrati come
vuole. E poi ha accennato alle ‘veline’ delle procure: e qui si profila un
tratto tipico del renzismo, che è la creazione del nemico. La delegittimazione
preventiva ha come conseguenza che col nemico non si discute perché non lo si
riconosce. Del resto, così si è svolta anche la discussione sulle riforme
costituzionali -.
Il presidente emerito Napolitano ha
appoggiato le parole del premier, ricordando anche la vicenda delle
intercettazioni, in relazione alla morte di Loris D’Ambrosio. - Conoscevo
D’Ambrosio e l’ho sempre considerato una persona perbene. Ma da questa vicenda,
che può essere molto dolorosa per il presidente, non si può trarre una
conclusione. La Corte di Strasburgo nel 2007 è intervenuta su questo tema
affermando che l’informazione ha un ruolo fondamentale. E lo ha fatto
invertendo la logica, dicendo che il principio della segretezza viene meno
quando esiste un interesse dell’opinione pubblica. Ha certamente ragione Davigo
quando rimanda alle norme sulla privacy e sulla diffamazione, già esistenti -.
Da “La
sindrome hybris quando il potere trasforma chi ce l’ha” di Alberto Statera,
sul settimanale “A&F” del 18 di aprile 2016: (…). Il fatto è che il “disturbo
della personalità” dei potenti sembra sempre più diffuso, non solo in politica,
ma a tutti i livelli: dal politico di medio calibro, per l’appunto, al
dirigente pubblico e privato, dall’alto grado militare al sindaco di provincia.
Resterà certo negli annali dell’intossicazione del potere la vicenda di Roberto
Formigoni, per diciotto anni presidente della regione Lombardia e in questi
giorni sotto processo per una sfilza di reati tale e talmente plateali, secondo
l’accusa, che non possono essere attribuiti soltanto all’accumulo di “utilità”
personali, ma devono probabilmente ricondursi alla sindrome hybris: io incarno
l’istituzione che rappresento e faccio ciò che voglio. Così una settantina di
milioni sono usciti dalla Maugeri e dal San Raffaele, le due strutture
sanitarie, “enti amici del presidente”, parte dei quali - secondo la
requisitoria - indirizzati al “Celeste” per crociere in yacht, lo sconto sull’acquisto
di una villa in Sardegna, finanziamenti per la campagna elettorale e
quant’altro. Direte che non c’è bisogno evocare la sindrome hybris per
catalogare i politici che rubano. In realtà, basta conquistare posizioni di
potere di ogni tipo per risvegliare il tiranno che sonnecchia dentro molti, il
demone del comando, che lord David Owen, medico e politico britannico ha
definito come “disturbo narcisistico della personalità”. Fuori dalla politica
politicante, prendete ad esempio il caso dell’ammiraglio Giuseppe De Giorgi,
capo di Stato Maggiore della Marina. Un vero intoccabile, che - se sono vere
almeno parte delle accuse di un anonimo ben informato al vaglio della
magistratura - stravolge appalti, spende milioni per progetti improbabili, usa
aerei di Stato come taxi, organizza festini a bordo della nave Vittorio Veneto
e – hybris dell’hybris - attende gli ospiti in sella a un cavallo bianco. Nel
frattempo opera per allungarsi la carriera di almeno tre anni, con l’obiettivo
poi di assurgere a Capo di Stato maggiore della Difesa, ciò che lo costringe,
da uomo d’azione, a sedere ordinato alla Leopolda e a intrattenere negozi con
faccendieri e lobbisti civili. Bisognerebbe consegnare a lord Owen, che è stato
anche ministro della Marina britannica, le dichiarazioni fatte dal suo legale
quando sono uscite intercettazioni telefoniche piuttosto imbarazzanti
dell’ammiraglio con il suo lobbista di fiducia: ”Esprimono opinioni personali,
frutto del suo amore per la Marina militare e non sono legate ad interessi
personali”, ha detto. Ecco, l’ammiraglio non ha interessi personali,
semplicemente incarna egli stesso l’istituzione che comanda e si ritiene
l’unico capace di portare avanti ad ogni costo la sacra missione. Come direbbe
lord Owen? “Disturbo narcisistico della personalità” per il prolungato
esercizio del potere, senza limiti e senza controlli, che ottunde la capacità
di prendere decisioni. Nel paese senza controlli resta solo da sperare che
l’eccesso di hybris venga punito qualche volta con la Nemesis, la vendetta
degli dei.
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