Da “Psycho Matteo
che nega se stesso” di Antonello Caporale, su “il Fatto Quotidiano” del 17
di dicembre dell’anno 2015: Matteo Renzi sta conoscendo il momento più
duro della sua pur spavalda conduzione degli italiani verso il sorriso. Per
affrontare questa imprevista stagnazione della felicità, il premier sferra una
controffensiva mediatica sdoppiandosi. Diviene l’uno e il suo opposto, trasformandosi
così da premier in psycho-premier. Sono le meraviglie cavernose della psiche,
l’attitudine alla rimozione come difesa ultima dell’identità ad essere
utilizzate nella battaglia finale contro i gufi. Alla Leopolda, per esempio,
elimina ogni traccia di Pd, consentendosi di non esserne segretario per tre
giorni. Si autosospende, anzi si autorimuove, e chiama a raccolta la propria
corrente annunciando: “Chi parla di correnti resti a casa”. Lo psycho-premier
trasforma tutti i renziani in altrettanti psycho-renziani che lavorano sui due
campi della mente: l’esserci e il non esserci. Erano alla Leopolda, che è una
corrente, ma contro la Leopolda, essendo contro le correnti. Erano del Pd,
tutti tutti del Pd, ma anche un po’ contro il Pd. Cosicché quando Renzi estende
alla Boschi l’ombrello interdittivo alla rivalsa gufesca, annulla d’imperio il
contestato potenziale conflitto di interessi della ministra attraverso un
processo di sostituzione figurativa. Tutti avevamo in mente il volto del papà
di Maria Elena come causa dello scandalo. Lui, cioè Matteo, per spiazzarci,
parla invece del proprio papà: “Lui mi dice che dovremmo passare al
contrattacco”. Con la sostituzione dei papà avviene anche una sostituzione del
conflitto di interessi – qui è il papà di Renzi non della Boschi a fomentare il
contrattacco e dunque a far confliggere il figliolo con i propri doveri – ed è
un modo per far sbandare l’opposizione e obbligarla al dubbio: chi sfiduciamo?
Lei o lui? Lo psycho-premier avanza nella sua performance: “Il consiglio di
amministrazione di cui fa parte il padre della Boschi è stato destituito dal
nostro governo”, dice. Quindi il governo è stato severo contro gli autori delle
malefatte bancarie. Ma la Boschi, questa volta confliggendo direttamente col
premier, aveva appena assicurato: “Mio padre è una persona perbene”. E la
domanda dunque è: il suo papà è sempre perbene o dopo le parole del premier è
un tantino degradato verso il male? Formidabile però la risposta che il premier
prepara per rintuzzare i veleni di Enrico Letta che paventa due pesi e due
misure di Renzi. Quand’era all’opposizione chiedeva le dimissioni di un
ministro ogni battibaleno. Adesso che guida il governo si rammarica se
l’opposizione fa altrettanto. “Ci sono partiti che si sono fatti le banche”,
esplode Matteo. A chi si riferisce? Tolto di mezzo Berlusconi, che aveva una
banca (socio di Mediolanum) prima di fare il premier e prima di fondare Forza
Italia, rimangono la Lega nord e i Ds, cioè i soci di maggioranza del Pd.
Proprio il suo partito! Diavolo di un Renzi, anche questa volta ha rimosso il
segretario che è in lui e così Piero Fassino, che da ultimo segretario Ds disse
“Abbiamo una banca!” e oggi è il sindaco di Torino, si è trasformato da
renziano in psycho-renziano. È suo amico ma anche suo nemico. È con lui ma
anche contro di lui. Si conoscono e non si conoscono. E Renzi, capolavoro!, è
riuscito a perforare anche la memoria del ministro Giuliano Poletti, quello del
Jobs Act, che viene dalle Coop, mondo nel quale Unipol, la protagonista di
passate ma infruttuose acquisizioni bancarie, gravita stabilmente. Poletti?
Poletti chi?
Da “Non
siamo come gli altri: se lo ripeti, forse qualche dubbio ce l’hai pure tu”
di Alessandro Robecchi, su “il Fatto Quotidiano” del 6 di aprile 2016: C’è
un passaggio, nel discorso di Matteo Renzi alla direzione del Pd, che illumina tutto
come un faro sulla costa, come un flash sparato nel buio. E’ quando dice: “Noi
non siamo come gli altri”, una frase che – quando senti l’impellente bisogno di
dirla – ti rende esattamente come gli altri. Certo si conoscono le basilari
motivazioni psicologiche: se continui a dire come in un mantra “Noi siamo di
sinistra”, ripetendolo in ogni istante anche senza assumere la posizione del
loto, vuol dire che qualche dubbio ce l’hai. Dunque: “Noi non siamo come gli
altri”, non confondeteci, noi siamo quelli bravi, carini, che quando li beccano
si dimettono (oddio, non tutti), che fanno le riforme, che sbloccano le opere,
eccetera eccetera. Tutte interessantissime faccende contingenti, mentre in
quella frasetta c’è una piccola giravolta della storia, perché questo
andirivieni ideologico tra l’essere uguali e diversi è un divertente tormentone
della sinistra italiana. Il Pci, vecchia gloria del pugilato politico europeo,
costruì la sua granitica credibilità sull’essere diverso dagli altri. Non solo
quando quella diversità ti portava in galera, in via Tasso o alla fucilazione,
ma anche dopo, nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, “in seno al popolo”, come
dicevano, e oggi sorridiamo. Poi ci fu un’altra fase, recente, di veloce
de-ideologizzazione. La gestione del potere, l’avvicinamento a quelli che si
chiamano “i poteri forti”, la vocazione maggioritaria che scivola nel partito
della nazione, insomma, il partito recente. L’obiettivo, anche antropologico,
era opposto: diventare come gli altri. Rassicurare che sì, si rimane di
sinistra, alcuni addirittura di provenienza comunista (lo so, suona come un
film di Buster Keaton, eppure…), ma non mangiamo i bambini, abbiamo la
macchina, ci piace spassarcela e insomma, non abbiate paura di noi. Persone perbene, che avevano letto dei libri, si
adeguavano allegramente al gentismo degli “altri”, specie in materia culturale,
pur di non sembrare diversi. Volevano, in quella fase che va più o meno da
Occhetto a Veltroni, essere uguali agli altri, essere accettati, smussare gli
angoli, sfumare le differenze. Salvo tornare diversi quando le cose si
mettevano male, quando gli “altri” erano un po’ troppo impresentabili per
essere imitati. Ma insomma, questo desiderio di essere come tutti, un vero
manifesto ideologico, ha scavato e lavorato. Ora puoi dirti di sinistra ed
esaltare Marchionne, o dire che sblocchi l’Italia perché agevoli i petrolieri.
Missione compiuta: in meno di trent’anni, eccoli veramente diventati come gli
altri. E ora questo accorato appello del segretario Renzi: “Noi non siamo come
gli altri”. Questa volta la rivendicazione non è ideologica, ma smaccatamente
commerciale, di comunicazione. Gli early user sono, nel gergo del marketing,
quegli utenti più rapidi e attenti che hanno sempre per primi il nuovo prodotto,
che lo fanno diventare trendy, che lo fanno desiderare a tutti gli altri. Il Pd
renziano lo è stato per qualche tempo. Smart, camice bianche, panini di Eataly,
gelati di Grom, chiamarsi per nome (Matteo, Maria Elena…) e tutto lo
spettacolino che abbiamo visto. Ora quello spettacolino non basta più, è già
vecchio. Il grido orgoglioso “Noi non siamo come gli altri” somiglia alla
frustrazione del fighetto con il nuovissimo telefonino quando si accorge che
quel modello che lo rendeva unico, fico, trend setter, e cool, ora ce l’hanno
tutti e non fa più impressione a nessuno. Dannazione. La narrazione del
renzismo, non avendo basi ideologiche, ma soltanto estetico-caratteriali, perde
in fretta di intensità e freschezza. Se il fatto che sei diverso dagli altri devi
dirlo e ripeterlo, vuol dire che non si vede al volo, un bel guaio, per i
narratori.
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