“LoStorico”. “Armi e sindrome dell’invasione: come nel ’14 prima della guerra”, testo di Alessandro Barbero pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 6 di aprile 2025: A noi storici spesso chiedono: ma l’epoca nostra che stiamo vivendo a quale periodo del passato assomiglia? Ecco, io purtroppo negli ultimi tempi comincio ad avere sempre più l’impressione che l’epoca nostra assomigli paurosamente agli anni che hanno preceduto lo scoppio della Prima guerra mondiale nel 1914. Allora l’Europa usciva da un lungo periodo di pace. Se uno non guarda alle guerre nei Balcani e alle guerre coloniali in cui tutti i Paesi europei si erano imbarcati, perfino noi italiani (in Etiopia e Libia), effettivamente l’Europa usciva da un lungo periodo di pace. Anche adesso usciamo da un lungo periodo di pace, quasi. Anche adesso – se dimentichiamo i Balcani, se dimentichiamo la Jugoslavia, se dimentichiamo il bombardamento di Belgrado, se dimentichiamo le guerre coloniali che ci sono anche oggi – i grandi Paesi dell’Occidente non si sono più fatti la guerra da tanti anni. E allora come mai nel 1914 l’Europa è precipitata nella guerra più spaventosa di tutti i tempi? Il guaio è che, se uno va a vedere da vicino com’era quel mondo che assomigliava molto a quello nostro di oggi, non è così strano che siano precipitati in una guerra spaventosa. Intanto in quei lunghi anni di pace parlavano continuamente di guerra, della “prossima guerra”. C’era un genere letterario, oggi dimenticato, che all’inizio del secolo faceva furore: gli storici della letteratura lo chiamano “letteratura dell’invasione” o “della prossima guerra”. In tutti i Paesi, non solo dell’Europa, ma del mondo, uscivano romanzi che raccontavano come “il nostro Paese presto sarà invaso da un feroce nemico’’. Questi romanzi si pubblicavano in una quantità enorme di copie, tutti li leggevano e raccontavano tutti la stessa storia: “Il nostro Paese è debole, siamo circondati da nemici cattivissimi, dobbiamo riarmarci perché non siamo abbastanza sicuri”. E l’opinione pubblica intossicata, sentendo parlare continuamente “della prossima guerra” e dei “malvagi nemici che ci minacciano”, ha cominciato a chiedere sicurezza, armamenti e alleanze. Una risposta dei governi alla fine dell’Ottocento è stata: “Beh, allora cerchiamo degli alleati”, nell’illusione che da soli si sia in pericolo e, se invece si hanno alleati, si sia più sicuri. Peccato che le alleanze producano anche effetti inaspettati, perché i Paesi che rimangono esclusi da queste alleanze – all’epoca era la Germania – cominciano a dirsi: “Queste alleanze le stanno facendo contro di noi, siamo minacciati”. Poi le alleanze faranno sì che, alla prima scintilla che esplode nei Balcani, tutti questi Paesi siano costretti a entrare in guerra, uno dopo l’altro, perché sono vincolati dalle alleanze. E poi l’opinione pubblica chiede il riarmo: certo, se stiamo per essere invasi! Il riarmo è pazzesco: negli ultimi cinque anni prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, le potenze europee – compresa l’Italia, che era l’ultima delle potenze europee, ma si considerava tale anche lei – aumentano le spese militari del 50% in media, di nuovo nell’illusione di “essere più sicuri”. Solo che questa faccenda dell’illusione della sicurezza è proprio un paradosso. Perché? È più facile capirlo raccontando nel concreto. L’Inghilterra ha la più potente flotta del mondo, domina i mari e si sente sicura. La Germania si sente minacciata, soffocata dalla potenza dell’Inghilterra, decide di armarsi, di costruire anche lei una grande flotta. L’Inghilterra così improvvisamente non si sente più sicura e perciò investe per aumentare ancora gli armamenti. I tedeschi vedono che gli inglesi investono ancora per rafforzare la flotta e sono costretti a spendere sempre di più. L’unico risultato è che in entrambi i Paesi si diffonde il nervosismo, la sensazione di insicurezza, la sensazione che l’altro è il nemico. Sul continente invece la Germania è sicura e tranquilla, ha il più potente esercito del mondo. Chi non è sicuro è il suo vicino: la Francia. I francesi pensano: “Dobbiamo riarmarci per essere più sicuri”. All’epoca c’era il servizio militare obbligatorio, c’era dappertutto e durava moltissimo (oggi ne sentiamo parlare come di una cosa che magari andrebbe quasi reintrodotta, dopo che – grazie al cielo – ce ne eravamo liberati). I francesi però pensano che non duri abbastanza, così nel 1913 decidono di allungarlo da 2 a 3 anni. I tedeschi allora si dicono: “Dobbiamo rafforzarci anche noi, perché presto non saremo più i più forti. Dobbiamo rafforzarci o, visto che per il momento i più forti siamo ancora noi, forse allora è meglio farla, questa guerra, finché siamo in tempo”. I libri che parlano della “prossima guerra”, a quel punto, non sono più solo romanzi: cominciano a uscire i libri dei generali che parlano della “prossima guerra”. Ai primi di giugno del 1914 il comandante dell’esercito tedesco Von Moltke dichiara: “Ora siamo pronti. E prima è, meglio è”. Ecco, io ogni tanto mi dico: “Ma no, non è vero che la nostra epoca assomiglia tanto a quella, ci sono tante differenze”. Però credo che dipenderà essenzialmente da noi fare in modo che davvero questa nostra epoca non assomigli troppo a quella che ha preceduto il suicidio dell’Europa nel 1914.
“IlTeologo”. “Beati i pacifisti, chi cita Dio pro armi travisa le Scritture”, intervista di Tommaso Rodano al teologo Severino Dianich pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 5 di aprile 2025: Don Severino Dianich, l'opinione pubblica è frequentata da commentatori che citano le Sacre Scritture come base ideologica del riarmo. "San Paolo diceva che bisogna prepararsi ad affrontare il nemico" (Corrado Augias), "Gesù non sgridò chi aveva sfoderato la spada" (Mario Deaglio). Sono interpretazioni corrette della parola di Dio? «No, il richiamo alle Scritture fatto così, in maniera tanto diretta, non è pertinente. È vero che la Bibbia contiene passaggi di una violenza inaudita, sono descritte ferocie incredibili, ricondotte alla volontà di Dio. Ma ovviamente c'è da fare un lavoro di storicizzazione. Bisogna comprendere il contesto vitale in cui avviene la rivelazione della fede. Si trattava di una società violentissima, non meno violenta della nostra di oggi. Se si fa questo sforzo di comprensione, nelle Scritture si manifesta un messaggio diverso: Dio ama il mondo e vuole che gli uomini si amino».
Chi cita Vangelo e Bibbia a favore delle armi è in cattiva fede? «Non è corretto, come metodo, prendere una frase di Gesù e applicarla a priori alla realtà di oggi. Dal Vangelo, soprattutto, viene questa ispirazione fondamentale: il credente dev'essere un uomo che opera per la pace. Nelle Beatitudini, che sono la "magnacharta" del cristianesimo, si dice: 'Beati gli operatori di pace'. Su questo non ci sono dubbi. Poi si può discutere sui modi, le forme e gli strumenti per raggiungerla».
I suoi sono principi che si sentono forti e chiari nelle parole della Chiesa, molto meno tra politici e commentatori. «In tutto il dibattito sulla guerra che si sta svolgendo a livello mondiale, non solo in Italia, il grande assente sono i morti. Nessuno ne parla e questo fa impressione. Al massimo si sa qualcosa dei morti del nemico, ma dei "propri" morti non si parla. Forse perché ci si vergogna di un crimine così enorme. Sono i nostri ragazzi; noi discutiamo accademicamente sulle guerre e i conflitti e poi mandiamo al massacro i nostri ragazzi. Per essere operatori di pace, visto che prima lei mi ha provocato sul Vangelo, bisogna alzare la voce in difesa delle vite umane».
Si sostiene che il riarmo sia necessario proprio per difendere vite umane. «Nella situazione attuale parlare di disarmo sarebbe surreale, lo capisco. Ma è sconvolgente che l'umanità si trovi in una situazione in cui sente di doversi armare per forza. Papa Giovanni lo spiegava bene nell' enciclica Pacem in terris: il riarmo sembra inevitabile, ma il vero problema non è quello degli arsenali; dobbiamo disarmarci nello spirito. La corsa alle armi è il tratto di un'inciviltà della quale non ci siamo liberati nei millenni. È il momento di reagire. Se io fossi un deputato e votassi a favore di una norma per il riarmo europeo, dentro di me dovrei vergognarmi di quel sì. Non posso esaltarlo. Si arricchiscono gli arsenali e nel contempo si coniano le medaglie per i caduti di domani. E la vergogna della nostra umanità».
Lo spirito dell'Occidente cristiano sembra soffiare nell'altra direzione. La difesa europea è un distintivo d'orgoglio. È possibile cambiare questo paradigma? «Io non credo sia il cittadino comune che debba essere caricato del peso di risolvere questi problemi. Sono competenti coloro che il popolo italiano ha ritenuto capaci di governare e di fare le leggi, quindi di affrontare questi problemi».
Non c'è anche una responsabilità di chi orienta e alimenta il dibattito pubblico? «Certo, quella di voi giornalisti, come pure la mia, che in questo momento sono stato chiamato per dire quello che penso. Sono responsabilità che ciascuno di noi deve assumersi fino in fondo, l'onestà intellettuale è il primo dovere».
Le sembra che manchi onestà intellettuale, quando si parla di armi? «Mi sembra che ci sia una superficialità diffusa, come dicevo. E soprattutto una considerazione parziale del problema principale: i morti. Insisto sulle responsabilità politiche: sono sicuro che ogni deputato mette in secondo piano le sue convinzioni e il pensiero di parte, quando vede suo figlio prendere un mitra in mano. L'umanità deve essere considerata prima di tutto il resto».
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