"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 16 aprile 2025

CosedalMondo. 42 Victor Lapuente: «Trump non ha vinto per le fake news, ma per le maybe news, non le false notizie ma le notizie del forse. Perché siamo stati i suoi scimmioni».


Per capire Trump bisogna studiare gli scimpanzé.  In un famoso esperimento, il neuroscienziato e primatologo Robert Sapolsky si rese conto che le scimmie secernono più dopamina, l'ormone della felicità, quando premono un pulsante che offre il cinquanta per cento di probabilità di ottenere una banana preferendolo al pulsante che invece garantisce il cento per cento, cioè la certezza di ricevere l'agognato frutto. Gli esseri umani sono identici. Ciò che inonda il nostro cervello di chimica celeste non è il piacere, ma l'incerta anticipazione del piacere. La probabilità inebria il nostro cervello: «Riuscirò a ottenere quello sconto?», «Quel ragazzo mi darà un appuntamento?». Sapolsky la chiama la "magia del forse". E il politico che ha capito meglio che le persone sono drogate dalla suspense è Donald Trump. Deve il suo successo alla "politica del forse". Di fronte a una politica convenzionale che esalta la coerenza e la serietà (anche se è noiosa), Trump propone l'incoerenza e lo scherzo (anche se è ridicolo). Ha capito prima di chiunque altro che, in un mondo immerso in una guerra civile per l'attenzione della gente, tra social network, media e infiniti intrattenimenti audiovisivi della nostra epoca, l'ìmprevedibilità vende più della certezza. Secerne più dopamina nel cervello degli elettori. E probabilmente non è un caso che Trump abbia sempre avuto più influenza su determinati profili psicologici. I suoi seguaci più fedeli sembrano essere i soggetti più desiderosi di una dose di dopamina. E, una volta al potere, Trump continua a giocare sull'incertezza. A un ritmo frenetico. Le prime settimane di Trump al potere non sono state adatte ai deboli di cuore. In meno di due mesi, ha detto più di qualsiasi suo predecessore in carica - in questo è superiore a George Washington. Trump contraddice così la logica naturale della democrazia, che impone a ogni politico di moderarsi una volta al potere. Si è radicalizzato, annunciando politiche, dopo essere salito al potere, che sono ancora peggiori di quelle che aveva annunciato in campagna elettorale. Le invettive, i gesti e le politiche proposte finora da Trump sono inaccettabili e anche incomprensibili da un punto di vista geopolitico ed economico. Trump non smette di dare calci contemporaneamente ai due pilastri fondamentali del modello di vita occidentale: la democrazia e il capitalismo. Sta erodendo la libertà politica sia in politica estera, umiliandosi di fronte a Putin e umiliando Zelensky, sia in politica interna, indebolendo i pesi e contrappesi che controllano il potere esecutivo. Dopo essersi presentato come un arbitro imparziale che avrebbe distribuito la pace, da Gaza all'Ucraina, Trump chiude le porte di Washington ai rappresentanti ucraini e la sua unica linea di comunicazione stabile è il telefono con Mosca. Dopo aver cercato di proiettarsi come il salvatore della civiltà occidentale, si allontana drammaticamente dal ruolo tradizionale degli Stati Uniti - compresi i suoi predecessori repubblicani in carica, come Reagan e Bush - di difendere le democrazie fragili dagli invasori autoritari. Il nuovo presidente Usa inoltre sta minando la libertà economica, con una serie di politiche folli; in particolare, i dazi doganali sui tradizionali alleati che danneggeranno sia i consumatori che i produttori americani. Durante le prime settimane del mandato di Trump, le borse hanno mantenuto una calma sorprendente. Nessuna bizzarra dichiarazione del presidente americano sembrava turbarle. Ma questa tregua è stata interrotta e i mercati sono diventati prima nervosi e poi decisamente agitati. Gli operatori economici temono che chi è stato eletto per massimizzare i profitti aziendali e ridurre l'inflazione finisca per portare l'economia americana a una recessione in concomitanza con l'inflazione - la temuta "stagflazione", un mostro che non si avvicinava alle nostre società da decenni. È come assistere al suicidio televisivo dell'Occidente. Ma ciò che definisce le politiche di Trump non è che siano pericolose (anche se alla fine lo diventeranno), ma la loro incertezza. I suoi annunci sono pensati per seminare dubbi e generare aspettative: sono il grande pacificatore o il grande imperialista? L'ultimo crociato della civiltà occidentale o il peggior nemico dell'Occidente? Sono venuto per mettere ordine o per seminare il caos? Ci tiene in costante sospeso, senza sapere se le sue minacce si trasformeranno in politiche. Trump non è un uomo di Stato, come sostengono i suoi sostenitori, né un uomo d'affari, come sospettano i suoi oppositori, ma un uomo dei media. Ha capito meglio di chiunque altro come si colonizza la mente umana nell'era di internet: inondando lo spazio pubblico di messaggi incerti, perché creano dipendenza. Trump è uno sceneggiatore di serie tv a cui non interessa la coerenza di un episodio, ma portarti a quello successivo. Lancia falsità, ma la menzogna è circostanziale. L'intrigo è l'essenziale. Trump non ha vinto per le fake news, ma per le maybe news, non le false notizie ma le notizie del forse. Perché siamo stati i suoi scimmioni.
(Tratto da “Trump spiegato alle scimmie” di Victor Lapuente – professore di “Scienze politiche” presso l’Università di Goteborg – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 13 di aprile 2025).

“Il piano inclinato dove tutto può succedere”, testo di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 6 di aprile 2025: E adesso possiamo chiederci com’è stato possibile. Già questa è una sconfitta, perché interviene a cose fatte, senza poter cambiare la realtà. Da cittadini siamo retrocessi a spettatori di una politica trasformata in performance, con l’unica ossessione di cambiare il mondo, rimodellandolo secondo un progetto autoritario e reazionario. Il ritardo con cui ci muoviamo appare incolmabile: noi siamo ancora dentro il dubbio cognitivo, cercando di capire se è davvero concreto il reale, mentre il nuovo potere in un giorno solo ha chiuso il ciclo storico della globalizzazione, ha cancellato il liberismo economico imprigionando il libero commercio e i mercati aperti, ha messo fuori gioco l’Organizzazione mondiale del commercio, ha affondato le Borse e ha reinstallato il protezionismo, incurante della lezione del 1930, quando le norme di protezione dell’economia nazionale dalla concorrenza straniera provocarono la rincorsa tra inflazione e recessione, fino a innescare la Grande Depressione. Dunque, cos’è accaduto per rendere possibile a un uomo solo questo assalto arbitrario non solo al commercio e all’economia, ma all’ordine mondiale? Disabituati all’estremismo in questa età grigia dell’indistinto democratico, increduli di vederlo al potere, anzi di trovarlo insediato nello studio ovale alla Casa Bianca, ci siamo dimenticati che per definizione non conosce limiti. Dobbiamo quindi pensare di essere appena all’inizio di un piano rivoluzionario che vuole realizzare un vero e proprio cambio di regime, con un sovvertimento totale delle regole e dei vincoli di responsabilità che il potere ha impartito a se stesso in questo lungo dopoguerra di pace. Il cemento di questa operazione è il nazionalismo ideologico, l’egoismo di sé stessi coltivato nel Paese come risarcimento delle frustrazioni di status e di condizione sociale, poi liberato ed esasperato dalla vittoria di Trump, e ora impugnato non solo come restaurazione di una fiducia smarrita nel futuro, ma come vendetta contro gli altri: contro tutti gli altri, ex amici ed ex nemici, perché la rivoluzione annulla il passato in quanto non accetta lasciti e non riconosce obblighi, mentre crea la storia senza condividerla. Il metodo è binario, con due schemi elementari: difesa e offesa. Tutte le decisioni vengono prese denunciando un contesto ostile, col mondo in agguato permanente e il presidente protettore e vendicatore del popolo indifeso, ma soprattutto suscitatore e interprete di una coscienza reazionaria della nazione tradita, stanca di reggere il peso di alleanze internazionali, di mediazioni culturali, di doveri costituzionali: e finalmente autorizzata a pensare a sé stessa, rimpicciolendo il concetto universale di libertà a una dimensione domestica, di tutela più che di emancipazione. Uscendo clamorosamente - sia il leader che il suo popolo - dalla gabbia del politicamente corretto per sperimentare l’inconsueto, sceneggiare l’impossibile, pronunciare l’impensabile, a garanzia di una perpetua trasgressione che trasfigura l’uomo più potente d’America in un outsider, comunque antropologicamente estraneo all’alfabeto istituzionale dell’élite. Qui scatta una nuova alleanza di classe (la nuova classe rivoluzionaria) per la distruzione del vecchio ordine, qualcosa che va ben oltre i confini del partito repubblicano, ormai ribaltato dalla furia della nuova destra estrema e svuotato del suo deposito conservatore di tradizione, oggi inerte e inservibile, disconosciuto. Quello di Trump non è più un partito, che ha comunque dei confini culturali, istituzionali, e una storia, e non è nemmeno un comitato elettorale permanente: è un movimento vivo nelle delusioni e nelle attese della società, chiamato a riprendersi l’America trasformandola nel primo impero del mondo che contempla solo se stesso, e non accetta compromessi col privilegio sovrano del suo destino. Quel che manca si prende, quel che serve s’ingloba, quel che piace si annette. Lo garantisce l’istinto rapace del leader che vede il mondo come preda, lo spazio come saccheggio, il potere come conquista, il territorio come annessione: in una logica proprietaria che comprende anche la presidenza e spiega la radice dell’assalto al Campidoglio per non lasciare la Casa Bianca, negando la sconfitta, mentre ipoteca il sogno del terzo mandato. Che avrebbe la funzione di dare infine un imperatore all’impero, e soprattutto di rompere la cornice della Costituzione, il vero atto fondativo del nuovo ordine a cui si preparano le destre estreme di tutto il mondo, già abbondantemente fuori dal sistema, in una prassi quotidiana de-costituzionalizzata. È qui che bussa il capitalismo, per entrare di rinforzo nella classe rivoluzionaria, assistere dall’interno alla grande distruzione di sistema e partecipare col suo genio innovatore all’algoritmo di redistribuzione degli spazi di potere nel nuovo ordine mondiale. Dovunque si crea il mondo nuovo, i tycoon del Big Tech ci sono, e trasformano la realtà in cui viviamo, disegnando il futuro: potevano mancare nella più ambiziosa operazione del secolo, vale a dire la riscrittura delle regole del gioco dopo il rifiuto della regola democratica? Per entrare nella stanza dove ribolle l’ultima stregoneria ideologica, bisogna chinare la testa: ma che importa? Non una voce si è levata dalla Silicon Valley a chiedere rispetto per la libertà del commercio, il capitalismo alla prova dei fatti non ha in sé il sentimento della democrazia in cui ha vissuto e di cui ha beneficiato, non se ne fa testimone e difensore, rinuncia alla filosofia d’impresa e di mercato, entra nel nuovo secolo accontentandosi di fare business, visto che può direttamente tradurlo in politica, come mai era accaduto. Musk è l’avanguardia, ormai proprietario con “X” del mercato delle parole, privatizzando l’arena pubblica e offrendola al leader perché possa diffondere l’antiverità del discorso pubblico: nel quale è importante soltanto credere e applaudire perché tutte le risposte sono già state rivelate, non ci sono più domande, e non c’è niente da capire. Davanti a questo piano inclinato, è ancora il caso di domandarci com’è potuto accadere? In realtà quando salta il codice faticoso ma equilibrato della democrazia delle istituzioni, del diritto e dei diritti, tutto diventa sbilanciato, estremo, esasperato: e soprattutto possibile.

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